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SERVIZIO SANITARIO, UNA GESTIONE PRIVATA

di Fulvio Aurora

da "Liberazione" del 23.07.02

Le esternazioni del Governo, in tema di sanità, dopo la pubblicazione del documento di programmazione economica e finanziaria sono piuttosto sibilline, tanto che la gran parte dei commentatori hanno capito che la proposta- imposizione è il ritorno alle Mutue. A nostro avviso non è così, il Governo ha un altro obiettivo. Si rende conto dell'impossibilità di cancellare il Servizio Sanitario Nazionale in modo indolore e al tempo stesso della difficoltà di imporre altre tassazioni. Il Governo vuole arrivare ad andare oltre le Mutue ed instaurare un regime in cui la parte del leone la fanno le assicurazioni private, in cui le Mutue sono possibili nella misura in cui vengono realizzate per volontà dei soggetti interessati (lavoratori e datori di lavoro) che ne vedono l'interesse. Le avance del Governo nei confronti dei sindacati - di quelli che hanno accettato il cosiddetto "patto per l'Italia" a gestire in modo diretto alcune di queste mutue sono tanto chiare quanto improponibili. L'esempio francese Prima di entrare nel merito diamo uno sguardo in Europa, andiamo in Francia, dove non più tardi di venerdì 12 luglio abbiamo un titolo in prima pagina su uno dei quotidiani francesi più prestigiosi, Le Monde che dice: "Mattei: la salute non ha prezzo". Jean Francois Mattei è il ministro della sanità del nuovo governo di destra. Le sue affermazioni sono sorprendenti: non è vero, egli afferma che siamo " davanti ad una crisi finanziaria irreversibile", "La crescita della spesa sanitaria è ineluttabile, in ragione dell'invecchiamento della popolazione, del costo delle nuove tecnologie medicali, della ricerca del benessere", "occorre smetterla di dire che occorre padroneggiare, contenere" la spesa sanitaria, questa spesa, prosegue il ministro "non deve essere più calcolata in base a meri criteri economici, ma sanitari". La prevenzione Affermazioni che non ci saremmo aspettati da un governo di centro destra, che fatte forse per altri fini, ma che comunque restano indelebili ed insegnano al nostro governo (ma anche a quelli precedenti di centro sinistra), che il problema può essere affrontato da un'altra angolazione. La Francia che ha una spesa sanitaria di quasi due punti superiori alla nostra e che, a giudizio dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, ha uno dei migliori sistemi sanitari vuole spostare il discorso dalla spesa ad altro. Lo stesso ministro nella medesima intervista entra nel merito e dichiara che la Francia registra, in materia di mortalità prima di 60 anni "le cifre peggiori d'Europa", che ogni giorno in Francia muoiono 50 persone a causa del tabacco, 30 per suicidi, 30 per incidenti domestici, 25 sulle strade e che ogni settimana muoiono per Aids 11 persone. Dunque la spesa si riduce se si organizza la prevenzione. Torniamo alle nostre Mutue. Il problema di fondo non era quello dell'enorme deficit pur non secondario che avevano accumulato, ma del loro operare e del loro significato riparativo: il malato era ridotto alla sua malattia e la malattia all'organo colpito per cui la risposta era tecnicamente limitata al ripristino funzionale dell'organo, all'"obliterazione" dei sintomi come diceva Giulio Maccacaro, senza occuparsi per nulla delle cause che quei sintomi esprimevano e che quelle malattie avevano prodotto. La grande differenza che la riforma sanitaria aveva esaltato chiuso il capitolo dell'Inam (Istituto Nazionale per le Assicurazioni contro le Malattie) stava nell'epidemiologia e nella prevenzione, nel lavoro tecnico e dal basso per capire chi produceva malattia e morte, come questo avveniva e che cosa si doveva fare per togliere le condizioni del loro progredire. L'ipotesi del governo parte dall'assalto finale a questa concezione peraltro già da anni in crisi per gravi responsabilità anche a sinistra, per sviluppare al massimo la tecnologia, quindi per dare spazio a chi la produce e a chi la impiega, cercando di ottenere il risultato di lasciarne i costi all'interessato, collettivamente o singolarmente assicurato. Il nodo assicurazioni Il Governo vuole, ma è in difficoltà, quindi procede per gradi. Erode servizi e strutture territoriali ed ospedaliere, amplia il ricorso al privato e ne aumenta il potere invocando la libera scelta (certamente di chi offre, non certo dell'utente che chiede), stabiliste la trasformazione degli istituti di ricerca in fondazioni, insiste sulla necessità di risolvere per primo il problema della non autosufficienza, proponendo per un problema già risolto dalla Riforma Sanitaria e già pagato dai cittadini - un'assicurazione integrativa a volte richiesta come obbligatoria, a volte come facoltativa. Ribadisce che le persone malate croniche non autosufficienti hanno bisogno di cure e di assistenza e che non hanno risposte efficaci, salta a piè pari il dettato legislativo che impone la cura e la riabilitazione (oltre che la prevenzione) anche per loro, facendo credere che non ha alcuna responsabilità, e, mentre chiude migliaia di posti letto negli ospedali, insiste per la creazione di Rsa (Residenze Sanitarie Assistenziali), pagate in ultima analisi da chi ne deve usufruire; e pure sviluppa il mercato del profit e del non profit per offrire opportunità di cure domiciliari a chi ne ha bisogno (ben inteso, quasi integralmente a suo carico). Queste proposte dentro questo sistema vanno respinte senza tentennamenti. Non vanno bene le fondazioni, di nessun genere, non vanno bene le assicurazioni obbligatorie e integrative contro il rischio di non autosufficienza. Non possiamo transigere dall'applicare un diritto anche se nel tempo è parzialmente o totalmente venuto meno. La salvaguardia dell'articolo 18 è diventato un simbolo, per quello che materialmente significa la sua esclusione totale o parziale e per il concetto stesso di diritto e delle lotte che lo sottendono, così pure il diritto alla salute, di cui all'articolo 32 della Costituzione, deve di nuovo diventare un simbolo, ed una pratica: tutti, anche i cronici non autosufficienti, siano essi anziani o no devono essere curati e non c'è assicurazione che tenga. Le federazioni del Prc sono attrezzate per spiegare cosa si deve fare e per organizzare vertenze politiche e legali contro chi è deputato a renderlo operativo e non lo fa.

OLTRE LA DESTRA E LA SINISTRA

di Nico Berti *

da Indymedia

L’anarchismo è di destra o di sinistra? Verrebbe subito da dire: è di sinistra. È di sinistra perché, secondo una tradizionale accezione del termine, la sinistra è stata quella parte storico-politica che ha sempre voluto impersonare i valori della libertà, dell'uguaglianza, della solidarietà e, se vogliamo, anche della diversità. Detto questo, bisognerebbe concludere che la discussione è già finita. Invece la questione non è così semplice, come sembra proporsi nella sua immediata evidenza. Non solo perché questa definizione di destra e di sinistra è del tutto convenzionale (come tutte le cose di questo mondo), ma anche, e soprattutto, perché l'anarchismo è oltre la destra e la sinistra. L'anarchismo è, ontologicamente, una sintesi. Esso non è disponibile ad essere annesso e classificato in una sola direzione. L'anarchismo è universale. L'anarchismo, infatti, è per definizione un'ideologia sineretica, è nato in contrapposizione al liberalismo e al socialismo proprio perché mentre liberali e socialisti hanno interpretato i valori della libertà e dell'uguaglianza in modo indipendente, esso li ha intesi come valori inscindibili. L'anarchismo ritiene impossibile pensare e attuare l'una, se non pensando e attuando, contemporaneamente, l'altra. Di qui, appunto, la natura sincretica dell'ideologia anarchica: appena si fa riferimento ad un valore, ad un concetto, immediatamente questo richiama tutti gli altri, e tutti non reggono, da un punto di vista anarchico, se non pensando l'uno in riferimento all'altro, e se non pensando l'altro in relazione all'altro ancora.

Quale libertà?
Dal punto di vista anarchico si realizza veramente la libertà individuale solo attraverso il completo dispiegamento dell'uguaglianza sociale e si realizza veramente l'uguaglianza sociale solo attraverso il completo dispiegamento della libertà individuale. Insomma, si afferma che per realizzare l'uguaglianza bisogna far leva sulla libertà, per realizzare la libertà bisogna far leva sull'uguaglianza. Per attuare l'una far leva sull'altra, vuol dire portare fino in fondo i loro presupposti, ma per attuare i presupposti di entrambe occorre accettarne del tutto le conseguenze. L'anarchismo, in altri termini, rinfaccia al liberalismo di essere una dottrina parziale della libertà e al socialismo di essere una dottrina parziale dell'uguaglianza. La parzialità consisterebbe nel fatto che tutte due queste dottrine intendono realizzare i loro principi facendo dipendere temporalmente i due valori, nel senso che prima si dà corso all'uno poi all'altro, laddove l'anarchismo ritiene che solo nell'attuazione della loro contemporaneità stia proprio il segreto della loro riuscita. Destra e sinistra, ovvero, sempre secondo la convenzione sopra accennata, una contrapposizione che è anche, e non potrebbe essere diversamente, un gioco delle parti. All'una, la destra, i valori della tradizione, della conservazione, della reazione, della disuguaglianza, dell'egoismo proprietario, dell'individualismo, della gerarchia comunque; all'altra, la sinistra, i valori opposti. In modo particolare, secondo la nota interpretazione di Norberto Bobbio, ciò che divide la destra e la sinistra sarebbe il tema dell'uguaglianza perché, mentre esistono correnti di sinistra che rivendicano, oltre alla stessa uguaglianza, anche il valore della libertà individuale (è il caso, ad esempio, proprio dell'anarchismo), non si dà mai il contrario. In altri termini, il valore della libertà può stare anche a destra (il liberalismo classico, ad esempio), mentre non c'è mai, comunque, in questa parte politica, il valore uguaglianza. Fin qui Bobbio. Il fatto è però, che per poter applicare questo schema, bisognerebbe essere prima di tutto universalmente d'accordo su cosa si deve intendere per libertà e uguaglianza, ciò, invece, che risulta assai controverso. Non soltanto la libertà e l'uguaglianza sono concetti molto discutibili, ma anche, accettando l'accezione "tradizionale" inventata da Bobbio (cioè da un'espressione della sinistra), si deve osservare che l'esperienza storica ha molte volte letteralmente invertito questa interpretazione. Tanto per ricordare cose stranote: lo stalinismo e Pol Pot sono di destra o di sinistra? Si vede insomma, già da questa banale domanda, la difficoltà di una risposta. Il fatto è che, appunto perché destra e sinistra sono definizioni "spaziali", esse non possono superare comunque la specificità di una parte, cioè la specificità di un punto di vista. Esse, infatti, sono all'interno di una stessa logica: c'è la destra perché c'è la sinistra, c'è la sinistra perché c'è la destra. Non è un gioco di parole, è un gioco di potere. Una parte rivendica di essere il tutto, ma non smette (né può farlo) di essere una parte, e poiché non smette di esserlo ha soltanto una logica per sottoppore l'altra parte, la logica, questa sì veramente universale, del potere. Ecco dunque che, anche ammettendo che si possa dare un'interpretazione universale ai valori (qualunque essi siano), rimane pur sempre il fatto che, una volta calati in una situazione data, essi smettono di colpo d'essere quelli che sono e diventano, irrimediabilmente, del tutto particolari. Ciò vale se si analizzano tutte le ideologie di qualsiasi segno, in quanto, tutte, non riescono a superare l'unica costante universale che, sia pure in misura diversa, le accomuna: l'essere cioè, pervase dalla logica del potere, cioè esattamente da quella logica di parte, che, in quanto parte, vuole assumere la valenza di essere il tutto: il potere, appunto. Molte rivendicano la libertà (compreso il liberalismo), ma nessuna lo rivendica come principio informatore, cioè come negazione, "senza residui", del potere. Naturalmente i valori devono essere calati in una situazione data e in ciò nemmeno l'anarchismo può, ovviamente, sfuggire da tale determinazione. Tuttavia l'anarchismo ha un vantaggio immenso su tutte le le altre ideologie. Esso consiste in questo: che la sua universalità non deriva da un'iniziale particolarità, ma dall'unica universalità veramente possibile: la rivendicazione di un'assenza completa del potere. Perché è questa l'unica universalità possibile? Ma è ovvio: perché il potere, e come potrebbe essere diversamente?, divide. Poiché la divisione prodotta dal potere è insuperabile, ecco che, specularmente, destra e sinistra finiscono per rappresentarne comunque una parte, precisamente quella parte teorica che assume, realisticamente, la consapevolezza dell'impossibilità di questo stesso superamento. Il resto (e questo discorso vale soprattutto per la sinistra, visto che la destra è quasi tutta per l'idea di potere), è pura "ideologia". L'anarchismo invece, partendo subito dal principio informatore della libertà (negazione del potere) non incorre in un simile impasse, cioè si sottrae a questa visione assiale della politica.

Nuovo criterio
Bisogna dunque cambiare criterio per interrogarsi su destra e sinistra perché il potere è veramente universale. In altri termini, la discussione deve passare da un'analisi spazio-orizzontale ad un'analisi spazio-verticale. Se rimane spazio-orizzontale (destra e sinistra) non supera il criterio immanente che unisce comunque le due parti, cioè il potere, visto che destra e sinistra non sono altro che rappresentazioni diverse di uno stesso principio. Spostando invece l'analisi in senso verticale (alto e basso, base e vertice) si uniscono immediatamente i due valori che prima stavano divisi, il valore della libertà e il valore dell'uguaglianza. In altri termini, mantenendo la prospettiva spazio-verticale si vede subito che la disuguaglianza e l'assenza di libertà sono la stessa cosa. Però va subito aggiunto che, posta così, la discussione è totalmente ideologica, cioè priva di verifica empirica. Verrebbe da dire: una pura mozione d'affetti e d'intenti. Infatti è troppo facile concludere in tale senso. Troppo facile e del tutto improduttivo: l'anarchismo ogni volta che combatte il potere in quanto potere, rischia sempre di combattere lo stesso principio informatore della realtà, dato che quasi tutta la realtà è pervasa dal potere. Più combatte il principio informatore più si avvcina alla logica dell'assenza di realtà, del principio di realtà. Cioè, passa dalla lotta al principio del potere alla negazione del principio di realtà (è questo, fra l'altro, ciò che è successo, grosso modo, negli ultimi cinquant'anni). In altri termini, la discussione su destra e sinistra non può essere, per l'anarchismo, una discussione solamente ideologica. Infatti, una volta constatato che l'anarchismo è contro il potere, e che dunque esso è veramente universale, si deve pur sempre affrontare un'altra questione. Perché l'anarchismo dovrebbe essere oltre questo schema? Per far ciò bisogna passare da una discussione ideologica ad una discussione politica, precisamente nel senso della metapolitica. Per pensare un anarchismo oltre il paradigma destra-sinistra occore infatti concepire l'anarchismo svincolato dalla storia del movimento operaio e socialista e, più in generale, dalla storia del sovversivismo e del rivoluzionarismo. Ma staccare l'anarchismo dalla propria radice storica comporta uno strappo che porterebbe l'anarchismo a snaturarsi. Possiamo dunque concludere affermando che, da un punto di vista strettamente teorico, l'anarchismo è oltre la destra e la sinistra, mentre sotto il profilo storico è stato ed è in gran parte dentro la storia della sinistra. L'ennesima conferma, come si vede, che vuole l'anarchismo essere nella storia, ma contro la storia.

Berti insegna storia dei partiti politici all'università di Padova ed è autore tra l'altro di Francesco Saverio Merlino. Dall'anarchismo socialista al socialismo liberale (1993), Un'idea esagerata di libertà (1994) e sta per uscire Libertà e uguaglianza. Per una storia del pensiero anarchico.

PAROLA D'ORDINE, MILITARIZZARE I MURAZZI

di Giuseppe Culicchia

da "La Stampa" del 24.07.02

Come decine, ma che dico, centinaia, ma che dico, migliaia, ma che dico, milioni di altri torinesi, mi trovavo l´altra sera ai Murazzi, e sculicchiato su una sdraio in compagnia di un mohjito in compagnia di una vespa (nel senso che la vespa si era tuffata nella bibita ghiacciata) mi dicevo che non c´è niente da fare, alla fine a Torino d´estate quando scendono le tenebre e uno ha voglia di prendere un po´ di fresco se si spinge fino in piazza Vittorio poi finisce sempre ai Murazzi, forse perché i Murazzi in realtà non sono altro che una gigantesca calamita specializzata in carne umana anziché metalli vari, e se non ti tieni a distanza di sicurezza ti attirano a loro inesorabili, e mentre elaboravo queste profonde riflessioni a un tratto ho pensato: no, non può essere, di nuovo lei. E invece. E invece sì, era di nuovo lei, l´amica che avevo incontrato proprio in piazza Vittorio quella volta che me ne stavo col piede sinistro appoggiato sul selciato e quello destro fermo a mezz´aria, indeciso se fare due passi in una direzione o quattro in un´altra, e che domenica scorsa mi si era parata dinnanzi in un punto imprecisato tra via Andreis e via Cottolengo, stampellata, ingessata, fasciata e tumefatta. Mi ha fatto un cenno di saluto con l´unico arto libero (cioè muovendo le orecchie), al che mi sono immediatamente alzato dalla sdraio aiutandola ad accomodarsi. Allora, come va?, le ho chiesto, guardando la vespa che intanto si dibatteva tra i ghiacci e le foglie di menta. E lei mi ha detto lascia perdere, che mentre scendevo fin qua ho assistito a una rissa, a un tentativo di rapina e a uno scippo, tutto concentrato in pochi metri, quelli dove fino all´anno scorso si stava tranquilli perché comunque li tenevano d´occhio gli africani. Io non sono mai stata per la militarizzazione dei Murazzi, ha aggiunto, notando la vespa in difficoltà, però questi stanno un po´ esagerando. A quelle parole a me è tornato in mente un episodio recente, e gliel´ho raccontato. Ti ricordi, le ho domandato, che qualche settimana fa, proprio da queste parti, è passata la manifestazione degli squatter? Sì, mi ha risposto lei. Bene. Io ero, come mi capita spesso, in piazza Vittorio, e guardavo da una parte i manifestanti, e dall´altra decine, ma che dico, centinaia, ma che dico, migliaia, ma che dico, milioni di poliziotti e carabinieri schierati in tenuta antisommossa. E allora?, mi ha chiesto la mia amica. E allora mentre ero lì sotto i portici, fermo al centro di quella decina di metri che separava due plotoni in uniforme, da una colonna è spuntato un tipo e con voce neanche troppo bassa mi ha detto (testuali parole, giuro): ehi, amico, fumo? A quel punto la vespa è scoppiata a ridere. E, poveretta, è affogata.

CRISI DELLA SINISTRA: OCCORRE ALLEVIARE LE MISERIE, MA ANCHE FAR SOGNARE

di Michel Rocard *

da "La Stampa" del 03.08.02

Non è solo il Partito socialista francese, ma tutta la sinistra che occorre ricostruire dopo il dramma del 21 aprile e la pesante sconfitta alle elezioni legislative che ne è stata la logica conseguenza. Il riflusso non è un fenomeno specifico della Francia, ma riguarda tutti i paesi avanzati del pianeta. Se paragoniamo la Francia e l'Italia alle altre democrazie avanzate, osserviamo che le forze che resistono meglio sono le grandi forze che si presentano con il loro nome: laburisti, democratici, socialisti, socialdemocratici. Quelle che subiscono il tracollo più grave sono le coalizioni in cui la divisione interna è tale che la loro unica possibile denominazione comune non evoca né un programma, né un contenuto, né una tradizione, ma soltanto un rapporto nei confronti dell'altro. La «sinistra» si definisce rispetto alla «destra», e non in se stessa. La parola è svuotata di ogni riferimento che non sia la geografia dei seggi parlamentari. L'Ulivo italiano mancava di sostanza, ma perlomeno era attraente... Io sono socialista, e intendo non solo rimanerlo, ma dimostrare con forza che sono gli altri che debbono situarsi in rapporto alla densità di significati implicita in questo termine, e non io che debbo situarmi in rapporto a loro. Beninteso, per definire una politica di sinistra non basta il mero fatto di opporsi alle posizioni e alle pratiche della destra. Il bisogno urgente è dunque quello di definirsi e ricostruirsi in rapporto a ciò che vogliamo e a ciò che siamo. Il socialismo ha dietro di sé una lunga e ricca storia. Fin dai suoi primissimi passi, si definisce internazionalista, e dello Stato nazionale che sta allora mettendo radici rifiuta a un tempo la strutturazione sociale e l'incitamento alla xenofobia che gli è occultamente connaturato. In quest'inizio di millennio, in cui tutte le nostre ragioni di temere - ed eventualmente di sperare - si situano in un orizzonte mondiale, questo richiamo appare come una delle chiavi della rifondazione. L'altro elemento fondatore del socialismo è, se possibile, ancora più decisivo. Non c'è dubbio che le molle iniziali della collera anticapitalistica e del movimento che ne nacque - prima le società di mutuo soccorso e le cooperative, poi i sindacati, infine i partiti - siano state la sofferenza e la miseria degli operai. Ma il movimento socialista non ha mai limitato né la sua denuncia né il suo progetto ai soli aspetti materiali e finanziari della condizione del lavoro salariato. Owen, Fourier, Godin volevano costruire società radicalmente nuove, delle comunità. Proudhon denunciava l'ipocrisia globale dell'intera società, innanzitutto in ciò che concerneva la proprietà. Marx ha iniziato il suo cammino lavorando sull'alienazione. È a Kautsky, Guesde, Lenin e a qualcun altro che dobbiamo il tradimento dell'opera di Marx e la sua trasformazione in una visione completamente statizzata ed esclusivamente quantitativa o finanziaria della società da costruire. Ma il nocciolo duro del socialismo è sempre stato un concetto esigente della dignità umana e della quota di responsabilità e di potere per ognuno che essa implica. Il salario minimo garantito, il livello dei salari, la protezione sociale e le imposte ne fanno ovviamente parte, ma più come corollari che come elementi chiave del progetto. Francamente, esiste un messaggio più attuale di questo? Il vero pericolo, la minaccia che oggi tutto il mondo teme, è la globalizzazione. Il pianeta ha realizzato la sua unificazione commerciale e finanziaria, e gli Stati nazionali hanno impedito che questo movimento fosse accompagnato dall'introduzione di strumenti pubblici adeguati, capaci di stabilire delle norme e di controllare la regolazione del sistema. Le conseguenze sono catastrofiche. L'umanità corre verso l'abisso. Il costante deterioramento della nostra nicchia ecologica minaccia la vita sul pianeta, e l'umanità fa un'enorme fatica a trovare le risposte. Il sistema economico capitalistico, che tra il 1945 e il 1975 si era riusciti, in una certa misura e non senza difficoltà, a stabilizzare, si è rimesso a produrre povertà di massa perfino nelle zone ricche, e ad aggravare tutte le diseguaglianze, innanzitutto quella Nord-Sud. Non solo, ma questo mondo economico e finanziario è ridiventato instabile. Una crisi finanziaria grave ogni 4 o 5 anni; tutti i paesi emergenti strangolati dai debiti. I prezzi delle materie prime, le parità valutarie, i movimenti di capitale sono volatili come mai in passato. La potenza dominante, gli Stati Uniti, vive a credito in condizioni pericolose. L'economia criminale, poco combattuta, sfiora il 10% della produzione globale annua, col risultato che il traffico di droga a livello planetario cresce rapidamente. L'elemento più nuovo è che adesso a subire questa minaccia è la nostra quotidianità locale. Tutti i lavoratori francesi sanno che i licenziamenti di cui sono minacciati dipendono da un «Monopoli» planetario in cui la Francia da sola non può nulla, salvo fare dei piani sociali. E la stessa violenza civile che oggi mette a repentaglio la nostra sicurezza fisica è legata solo per una piccola parte all'estensione del traffico di droga, che ha carattere mondiale, e per una parte molto più grande a quella distruzione delle identità, dei punti di riferimento, delle tradizioni e delle culture che è il principale risultato del livellamento verso il basso impostoci dall'omologazione televisiva dei messaggi, dei ritmi musicali e del modo di vestire. Aggiungete la povertà, e la miscela è pronta a esplodere. Io sono assolutamente convinto che gli elettori, prima di votare per programmi che cerchino di rispondere a tutto questo, si avvicineranno a coloro che gli spiegheranno come stanno le cose. Per poter prendere in mano il proprio destino (il cuore stesso della democrazia), bisogna cominciare col capire ciò che lo determina, e di che cosa è fatto. Nel gioco politico francese nessuno capisce nulla, perché non esiste alcuna strategia agganciata a un'analisi credibile di quel che ci accade e dei motivi delle nostre miserie. Ciò è vero della maggior parte dei paesi europei, come è vero delle democrazie americane. L'eccezione è Tony Blair, che spiega, rende conto... e vince. Gli assi delle risposte a questa crisi della società sono ben noti, molteplici e diversi, ma è possibile ricondurli a tre filoni: - Una stabilizzazione del sistema economico e finanziario mondiale che conservi dei servizi pubblici di qualità e un elevato livello di protezione sociale. Il ripristino della sicurezza, per esempio, non si potrà fare se non si riconosce pienamente l'importanza del ruolo svolto dall'autorità pubblica nazionale e internazionale. - Il rafforzamento urgente della solidarietà, a livello interno e internazionale. Non ci sarà una soluzione reale del problema delle migrazioni se la speranza nel futuro non ritroverà un senso in quelli che sono oggi i paesi poveri. - Uno sforzo vigoroso per delimitare il campo del mercato e il ruolo del denaro, per proteggere l'istruzione, la salute, la cultura e lo sport dall'inquinamento causato dalla brama di profitti, e per ripristinare i valori non mercantili in tutta la vita sociale. La novità della fase che stiamo vivendo non sta in questo richiamo dei valori permanenti del socialismo, ma nell'orizzonte geografico (mondiale) che s'impone alla loro attuazione. Tutti i grandi problemi hanno urgente bisogno di trattati mondiali la cui applicazione sia rigorosamente controllata. Alcuni sono quasi pronti. Dev'essere questo l'oggetto principale del nostro impegno militante. L'istituzione europea è senza dubbio lo strumento più importante in questa battaglia: le sue dimensioni e la sua potenza le conferiscono un'effettiva capacità di proteggere i suoi membri contro tutti i pericoli planetari, e la sua influenza mondiale ha la forza necessaria per imporre soluzioni mondiali. Che l'Europa sia liberale, non può sorprendere: è il mondo che è liberale. Ma ciò non è affatto un motivo per rinunciare alla costruzione dello strumento essenziale che essa può rappresentare. Ci sono però tre condizioni: completare la costruzione dello strumento (ancorché liberale), formulare a livello europeo la dottrina di un socialismo per l'oggi, e infine vincere. Sarà un processo lungo? I fondatori del socialismo pensavano in termini di secoli. Restringere l'orizzonte significa rinunciare all'ambizione. Al punto in cui siamo, è ormai la sopravvivenza dell'umanità che è in gioco. Collocate in un quadro del genere, le politiche volte all'immediato acquisteranno tutto il loro senso. Occorre alleviare le miserie, ma bisogna anche far sognare.

* Ex primo ministro socialista francese, presidente della commissione Cultura del Parlamento europeo


AFGHANISTAN: RAID CON PSICOFARMACI

di Stefania Podda

da "Liberazione" del 04.08.02

Anfetamine per restare svegli durante le lunghe ore di volo e durante le azioni militari, sedativi per riuscire a dormire una volta rientrati alla base. E ogni mattina il ciclo delle pillole magiche - le "go" o "no-go pills" - ricomincia, a volte a distanza di dodici ore. Così, giorno dopo giorno, i piloti dell'aviazione statunitense si imbottiscono di psicofarmaci e sotto l'effetto di queste sostanze che li aiutano a "tirarsi su", danno la caccia tra le montagne dell'Afghanistan ad eventuali talebani superstiti e agli uomini di Osama bin Laden. Salvo poi incappare in una serie di macroscopici "errori", come scambiare un banchetto di nozze per un attacco da terra o bombardare alleati impegnati in un'esercitazione. Una pratica, quella di assumere psicofarmaci, svelata dal quotidiano britannico The Indipendent, che spiega come la stessa sia non solo ammessa, ma persino caldamente raccomandata, anzi imposta, dai vertici militari statunitensi. Tanto da prevedere l'esclusione dalle missioni per quei piloti che non siano disposti a prendere le pillole prescritte. Le raccomandazioni sono contenute in un manuale interno - stilato dal Laboratorio navale di ricerca medica di Pensacola, in Florida, e destinato al personale medico dell'aviazione - che va sotto il titolo di "mantenimento della performance durante le operazioni di volo continuato". Scorrendo le ventiquattro pagine del rapporto si scopre che, nonostante l'indicazione delle dosi consigliate, i piloti possono autonomamente dosare gli psicofarmaci e che sono autorizzati a tenerne una scorta nella cabina di pilotaggio. Le pillole sono infatti considerate indispensabili per restare svegli durante le lunghe ore di volo previste per le missioni. La premessa è piuttosto chiara: «Sonnellini durante le missioni, un'alimentazione adeguata e e caffeina sono modi approvati e accettati... per prevenire e gestire la fatica. Comunque in operazioni a ritmo sostenuto e continuato - si legge - questi metodi possono essere insufficienti». Un aiuto può dunque arrivare dagli psicofarmaci come ha confermato al quotidiano, Betty-Anne Mauger, portavoce dell'aviazione Usa: «Quando si teme che la stanchezza faccia diminuire le prestazioni dei piloti si interviene con il Dexedrine, in dosi da 10 milligrammi». Una volta rientrati alla base e conclusa la missione, i piloti vengono poi calmati con sedativi perché possano prendere sonno, salvo poi dover assumere, spesso nemmeno dodici ore dopo, una nuova dose di anfetamine per tornare a volare. Resta il problema degli effetti collaterali: sovraeccitazione e aumento dell'aggressività. Un quadro che fa sorgere più di un dubbio sulla reale natura dei cosiddetti "errori" dell'aviazione statunitense in Afghanistan. Sbagli costati la vita a centinaia di civili innocenti e che sono sempre stati giustificati come banali errori nel calcolo della mira o come risposte a bombardamenti peraltro inesistenti. Come nel caso del raid che ha fatto strage di invitati ad un banchetto di nozze. In quel caso i piloti si giustificarono dicendo di aver semplicemente risposto ad un attacco partito da terra, mentre la realtà è che scambiarono i petardi lanciati per festeggiare gli sposi per spari diretti a loro. Errore in buona fede o piuttosto una reazione esageratamente aggressiva, dettata dall'effetto degli psicofarmaci? Un dubbio che sorge anche sull'episodio dei militari canadesi, morti sotto il cosiddetto "fuoco amico" dei caccia americani. Anche in quel caso i soldati stavano effettuando un'esercitazione, cosa peraltro a conoscenza del comando statunitense, e morirono sotto le bombe sganciate dai piloti americani convinti di dover fronteggiare un'offensiva di talebani redivivi. Il militare alla guida dell'F16 era rimasto ai comandi per sei ore consecutive, forse di più. Quanta parte ha avuto il Dexedrine nella decisione di bombardare? Il dubbio è venuto anche a John Pike, direttore di Globalsecurity. org, un centro studi di Washington: «E' stato sicuramente il mio primo pensiero dopo quell'incidente - dice -. Un comportamento stranamente aggressivo». E che dire poi del caso dei reduci dall'Afghanistan che, tornati a casa, hanno ucciso le proprie mogli? Quattro uxoricidi in poche settimane. Stress da combattimento, hanno azzardato gli psicologi. Ma forse questa risposta non basta.

BRASILE-GERMANIA, ALLE URNE IL MATCH PIU' IMPORTANTE

di Aldo Rizzo

da "La Stampa" del 12.08.02

TRA poche settimane, tra settembre e ottobre, due elezioni cruciali in due Paesi cruciali dell'Occidente: la Germania e il Brasile. Un mese e mezzo fa, le loro squadre nazionali disputarono la finale dei mondiali di calcio, al vertice rispettivamente dell'Europa e del Sud America. Ora si preparano a una prova con se stesse. Cioè disputano una gara tutta interna. Che non sarà seguita da sterminate folle televisive, ma il cui esito influenzerà il futuro immediato di due continenti. Già, perché se i valori sportivi sono transeunti, anche quando sono sostenuti da una lunga tradizione, quelli geopolitici sono a loro modo stabili, ed essi dicono che il Brasile è il Paese-chiave del Sud America come la Germania lo è per l'Europa (unificata e unificanda). Dunque cambiano molte cose per l'intero Occidente, Stati Uniti compresi, a seconda di chi vince a Brasilia e a Berlino. Anche, o soprattutto, tenendo conto che non saranno elezioni normali, di routine, ma test assai delicati su come fronteggiare situazioni di crisi seria. È interessante notare come le tendenze pre-elettorali siano contrastanti. In Germania il pronostico dice Stoiber, cioè il candidato del centrodestra, contro il cancelliere uscente, il socialdemocratico Schroeder. Una vittoria di Stoiber vorrebbe dire più spazio per le politiche neoliberali, già ampiamente diffuse nell'Unione europea. Sarebbe anzi un'aggiunta decisiva all'area di centrodestra, già largamente prevalente dopo le elezioni in Italia, Spagna, Francia, Portogallo, Danimarca, Olanda, Irlanda (con la Gran Bretagna di Blair che è solo formalmente di centrosinistra). Anche in Brasile sono favoriti i candidati dell'opposizione, «Lula» da Silva e Gomes, rispetto a quello governativo, Serra, ma con la differenza che l'opposizione è di centrosinistra (o sinistra-centro), mentre il Presidente uscente, Cardoso, è di centrodestra, o tale è classificato. Dunque, se vince Lula o anche Gomes, c'è un'inversione di tendenza rispetto alle politiche neoliberali che, nell'ultimo decennio, hanno aperto il mercato brasiliano e vinto l'inflazione, ma non hanno attenuato e anzi hanno aggravato le disuguaglianze sociali. E tuttavia la posta in gioco è la stessa: maggiore giustizia sociale (in Germania la piaga è la disoccupazione), ma nel rispetto della stabilità economica (compromessa in Brasile dal contagio argentino, ma anche dalla fama «socialista», benché assai attenuata, di Lula). E va da sè che un collasso brasiliano comporterebbe effetti a catena oltre il Sud America, così come una prolungata stagnazione tedesca avrebbe pesanti conseguenze al di là della stessa Unione europea. Si tratta, è chiaro, di situazioni diverse, e di diversa gravità (il Fondo Monetario si è convinto a concedere un maxiprestito al Brasile, per scongiurarne l'insolvenza). Ma c'è in comune l'arduo compito di coniugare progresso e sviluppo, tensioni sociali e democrazia, in una congiuntura poco propizia all'intero Occidente, anche per le questioni legate alla lotta al terrorismo. La globalizzazione chiamiamola, se preferite, interdipendenza, ma la sostanza non cambia, non cambiano, in continenti diversi, i problemi e anche i rischi, per tutti.


PICCOLO MANUALE PER LA PROPAGANDA DI GUERRA

di Carlo Gubitosa

da "Information Guerrilla"

Il punto fondamentale da cui partire e' la ricerca della "Giusta Causa", un fatto reale ampiamente condannabile dal punto di vista etico e politico, a partire dal quale compiere azioni che di etico hanno ben poco. (Esempi di "Giuste Cause": Invasione del Kuwait, repressione della popolazione albanese del Kossovo, azioni terroristiche) Si passera' in seguito all'individuazione, personalizzazione e demonizzazione del "Nemico". Negare o nascondere ogni legame passato o presente, economico o politico con il nemico. Togliere ogni visibilita' mediatica alle domande scomode: Chi ha venduto le armi a Saddam ? Chi ha fatto affari con Milosevic e Bin Laden prima che si trasformassero nel "nuovo Hitler" e nel capo del nuovo "Impero del Male" ? Far sfogare sul nemico personalizzato l'odio e la rabbia creata ad arte nell'opinione pubblica dimenticandosi che fino a ieri il "nemico" era anche nostro partner di affari e che continua a gestire i suoi soldi tramite le nostre banche. Affrontare la questione del segreto bancario con molta delicatezza. Anche se l'eliminazione dei paradisi fiscali e del segreto bancario sulle transazioni internazionali sarebbero decisive per "ostacolare" il "nemico", il terrorismo, il narcotraffico e il commercio delle armi, queste soluzioni non vanno assolutamente menzionate. Bisognera' poi prestare particolare attenzione alla ricerca di un eufemismo per non impiegare mai l'uso della parola "guerra" (Operazione di Polizia Internazionale, Missione Umanitaria, Operazione antiterrorismo) Ricordarsi di presentare all'opinione pubblica una sola verita' al giorno. In ogni conferenza stampa Nato o nelle dichiarazioni pubbliche dei capi di Governo dei paesi in guerra va presentata una sola idea chiave che sara' il titolo dei giornali del giorno successivo. Questo ha il compito di semplificare il lavoro dei portavoce che devono gestire una situazione molto complessa, piu' facile da descrivere se trasformata in una affermazione monodimensionale. In seguito alle prime reazioni si adottera' come risposta l'ostracismo e accuse di collaborazionismo con il nemico verso i giornalisti colpevoli di aver dato voce alle vittime dell'azione militare. Il teorema e': chi non e' mio amico e' necessariamente amico del mio nemico. Quando i giornalisti presenti "sul campo" manifestano opinioni critiche o non allineate, precisare che nei paesi dove vengono realizzate queste trasmissioni vige una strettissima censura militare che rende quelle testimonianze prive di valore. Davanti ai crimini di guerra documentati, agli "effetti collaterali" e alle responsabilita' dell'"Alleanza" negare l'evidenza. E' una tecnica efficacissima perche' ormai l'opinione pubblica e' abituata ad affermazioni anche grossolanamente inesatte da parte delle autorita' militari e politiche e perche' comunque i giornali danno piu' risalto alle menzogne "amiche" che alle affermazioni del "nemico" indipendentemente dal fatto che siano vere o meno. Quello che sembra solamente faccia tosta e sfrontatezza nella menzogna e' in realta' una spietata strategia di comunicazione ampiamente collaudata. Un altro punto chiave e' la spettacolarizzazione e trasfigurazione della guerra. Anni e anni di "lavoro culturale" realizzato a testa bassa dai vari Stallone e Shwarzenegger hanno dato i loro frutti trasformando ogni azione militare in un pulito videogame. Inquadrare preferibilmente aerei, carri armati, alta tecnologia, soldati "amici" puliti e contenti e far vedere il meno possibile il volto del "nemico", che non va considerato nella sua umanita', evitare il piu' possibile riferimenti o inquadrature sulla popolazione civile. Sara' opportuno utilizzare come al solito un "pool" di giornalisti amici, i soli ad essere abilitati ai "briefing" Nato, per dare l'impressione di un controllo democratico da parte della stampa dietro il quale si nasconde una censura e una selezione preventiva dei soggetti abilitati a fare domande. Ad essi va affiancato il lavoro certosino degli "intellettuali" allineati e degli editorialisti compiacenti, con particolare riguardo per Ernesto, Angelo, Lucio, Gianni, Paolo, Vittorio e altri che si sono gia' distinti in passato per i servigi resi con le loro penne a beneficio della "Giusta Causa". Cercare a tutti i costi la polarizzazione delle posizioni senza lasciare spazio alle sfumature. E' molto piu' efficace ridurre la dialettica a un semplice "guerra si' - guerra no" per includere nel "guerra si'" anche le posizioni "guerra si' ma come intervento militare dei Caschi Blu ONU", "guerra si' ma senza impiego di armi radioattive", "guerra si' ma non dal cielo con bombardamenti a tappeto", "guerra si' ma senza violare le convenzioni di Ginevra scegliendo obiettivi civili come ponti o palazzi della televisione", "guerra si' ma non con bombe a grappolo che violano i trattati per la messa al bando delle mine". Ovviamente una volta cooptate queste posizioni nel semplice "Guerra si'", il fronte del "guerra no" sara' messo forzatamente in minoranza. Se le reazioni dovessero persistere bisognera'adoperarsi per la ridicolizzazione e la banalizzazione delle posizioni espresse del movimento pacifista. Utilizzare la tecnica "hai ragione ma e' meglio fare come dico io", ovvero "quello che dici e' un'utopia molto bella e auspicabile, che io condivido, ma ora c'e' un'emergenza e va gestita con realismo e con i piedi per terra". Nei dibattiti pubblici selezionare figure "deboli", con una scarsa preparazione teorica e politica, e mediaticamente poco efficaci per dare l'impressione di una totale assenza di proposte concrete da parte di chi critica l'intervento armato. Altre categorie utili in cui inquadrare i pacifisti sono le seguenti: figli dei fiori, "quelli del G8", Black Bloc, popolo di Seattle, ex-sessantottini, preti idealisti affetti da "buonismo" cronico, ex-comunisti o veterocomunisti, ragazzini che non hanno ancora capito la dura realta' della vita. Evitare assolutamente personaggi legati al mondo accademico, ai centri di ricerca sulla Pace, alle reti di formazione per la nonviolenza o a qualunque realta' in grado di contrapporre una solida base teorica alla teoria dell'intervento armato. Utilizzare la tecnica del "dov'erano": "dov'erano i pacifisti quando tizio faceva questo?", utilissima per dimostrare ad arte che il pacifismo e' una cosa che si rispolvera solo in caso di guerra e che non ha nessuna valenza nel campo della prevenzione e della risoluzione pacifica dei conflitti. Cercare per quanto possibile di utilizzare immagini con un forte impatto emotivo, in grado di far scattare i meccanismi mentali che regolano l'istinto, la rabbia e l'aggressivita', in modo da rendere cieca l'opinione pubblica ad ogni discorso razionale, negato nei cuori e nelle coscienze da una emotivita' esasperata artificialmente attraverso il video. Anche se non e' di nessuna utilita' dal punto di vista informativo, si consiglia di riproporre piu' volte al giorno sugli schermi televisivi la sequenza dell'aereo che si schianta sulle torri gemelle per mantenere vivo lo shock emotivo che puo' mantenere l'opinione pubblica saldamente dalla nostra parte. Un'altra tecnica efficace e' la negazione e l'occultamento delle alternative grazie ad un falso senso di informazione. Dare la maggior quantita' di informazione possibile, anche nel caso in cui non si tratti di dati rilevanti, purche' favorevoli alla nostra posizione e all'intervento armato. Far perdere la visione d'insieme con una cronaca dettagliatissima di aspetti marginali. In questo modo e' possibile soffocare le proposte alternative alla guerra in un mare di informazioni, impossibili da gestire se non con una necessaria semplificazione che va a nostro vantaggio, in quanto la maggior quantita' di informazioni in circolazione spinge in direzione della guerra. In quest'ottica sara' favorita la produzione a ritmo serrato di una grande quantita' di notizie brevi, evitando il piu' possibile l'approfondimento, i dossier, le retrospettive storiche e il coinvolgimento di persone direttamente coinvolte nei problemi trattati, ai quali vanno preferiti gli "pseudo-esperti" che dall'alto della loro notorieta' o in virtu' di un titolo prestigioso sono pronti a riempire i palinsesti dei nostri programmi televisivi. Curare la gestione "umanitaria" dei profughi. L'inevitabile flusso di profughi generato da ogni azione militare va gestito con molta attenzione dal punto di vista mediatico, trasformando una massa umana costretta alla fuga da un attacco militare in una popolazione sottratta a un regime repressivo e finalmente approdata nella civilta' dove potra' ricevere tutte le cure e le attenzioni necessarie, ovviamente fino allo spegnimento delle telecamere. Successivamente andra' curata l'enfatizzazione della vittoria e la gestione della "mancata deposizione" del leader nemico. Saddam e' ancora li', e Milosevic e' stato cacciato dalle elezioni, non certo dalle nostre bombe. Poiche' probabilmente anche Bin Laden rimarra' in piedi sui cadaveri dei suoi seguaci e delle vittime civili della guerra, al termine dell'azione armata, enfatizzare il raggiungimento di altri obiettivi (che andranno individuati al momento) e affermare in ogni caso l'idea che "abbiamo vinto", "il nemico si e' arreso", "sono state accettate incondizionatamente tutte le nostre condizioni". Non stancare e non impaurire l'opinione pubblica. Gestire in maniera efficace il rientro alla normalita' e la "chiusura della ferita". L'azione militare va chiusa nel piu' breve tempo possibile. Nel caso cio' non avvenga dare sempre meno rilevanza alle informazioni sugli sviluppi della guerra, relegandole in coda ai telegiornali o nelle ultime pagine dei quotidiani, in modo da non "tirare troppo la corda" rischiando il malcontento dell'opinione pubblica e l'adesione alle idee contrarie alla guerra. In nessun caso la popolazione dei nostri paesi deve sentirsi minacciata o avere l'impressione di trovarsi in uno stato di guerra o di forte militarizzazione, cosi' come non vanno messi assolutamente in discussione i nostri privilegi, il nostro benessere o il nostro stile di vita. La guerra deve essere sempre vissuta come una parentesi, anziche' come il normale svolgersi di eventi intercalati da periodi piu' o meno lunghi di "pacificazione" militare forzata. Questa tecnica e' gia' stata sperimentata con successo durante la guerra contro la Jugoslavia, quando a bombardamenti ancora in corso siamo riusciti a far dare come notizia di apertura dei telegiornali la vittoria dello scudetto da parte del Milan. Al termine dell'intervento armato chiudere rapidamente ogni strascico relativo agli eventi in corso, senza approfondire le conseguenze dell'azione militare sulle condizioni della popolazione civile e dei profughi, sull'equilibrio ambientale e sulla situazione politica internazionale. Tutte queste direttive vanno seguite scrupolosamente affinche' anche questa guerra si trasformi in un eccezionale evento mediatico e in una grande prova di forza per la nostra civilta' e la nostra democrazia. Tutti gli operatori dell'informazione che proveranno a sottrarsi a questo progetto, attraverso la produzione di informazioni non allineate o l'utilizzo delle nuove tecnologie di comunicazione, verranno inesorabilmente marginalizzati e penalizzati nella loro attivita' lavorativa grazie al controllo capillare delle forze politiche, responsabili dell'intervento militare, sui grandi gruppi dell'informazione, un controllo che in Italia e' favorito anche dall'altissimo livello di concentrazione della proprieta' nel settore dell'editoria, delle telecomunicazioni e del multimedia.








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