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BOSSI, IL POTERE NON CANCELLA I VIZI

di Giorgio Bocca

da "La Repubblica" del 19.06.02

Il giorno in cui Bettino Craxi venne nominato segretario del Psi ero a Roma con Riccardo Lombardi. «Che ne pensi?», gli chiesi. «Chissà - disse lui - dicono che il prete più discusso se nominato vescovo possa diventare un santo». L'idea tutta italiana che il potere cancelli i vizi delle persone non ha conferme nella nostra storia ma si affida anche lei alla divina provvidenza. A leggere le cronache politiche di questi giorni non pare che diventare vescovi, cioè ministri, cambi la testa di chi è stato chiamato a governarci. I giornali hanno pubblicato una fotografia del raduno di Pontida in cui appaiono sul palco alcuni dirigenti in camicia verde con il braccio destro di traverso sulla panza nel gesto del giuramento all'americana e frammezzo, un po' nascosti in abito scuro, forse lo stesso del giuramento al Quirinale, i ministri Bossi e Castelli, una furbizia del tipo ci siamo e non ci siamo, poco meglio di quella del ministro Maroni che per non esserci si è fatto venire il mal di pancia. Una pagliacciata o un'offesa allo Stato? Dicano i politici di che si tratta. Di sicuro una manifestazione del peggior arlecchinismo, nato per l'appunto da queste parti. Che cosa insegna Pontida agli italiani? Che in questo paese si può giurare fedeltà alla Repubblica tenendo le mani dietro la schiena a dita incrociate nel gesto di chi pensa «qui lo dico e qui lo nego»? E giurare fedeltà a qualcosa che non c'è e non c'è mai stata, mai come ora con quel misero meno di quattro per cento dei voti; e giurare che ci si batterà per la sua libertà e contro la repressione dello Stato centralista, mentre nel campo sacro circolano dei giovanotti in maglietta con su scritto «Italia di merda ti odio. Secessione». E poi ascoltare i progetti dell'ingegner Castelli, ministro della Giustizia il quale promette di «abolire i delitti di opinione» come quello di definire la bandiera italiana "una bandiera da cesso". E aggiungere che questo suo democratico proposito di cancellare l'infame legge fascista Rocco si lega ad una sua origine anarchicosocialista. Quasi a riparare un errore del ventennio come se già nel regno liberale gli anarchici non venissero rinchiusi nelle segrete o speditamente fucilati. Pare sfugga a questi nuovi vescovi che la nazione, la patria, lo Stato, subiscono già, di questi tempi, le innovazioni e le violenze del globalismo neoliberista e che per tenerli insieme, per non cadere in una società retta soltanto dal profitto occorre affidarsi a un patto di lealtà, a un bisogno di civile convivenza, a una corretta ma salda difesa dei nostri diritti che se non andiamo errati è la linea politica seguita da quel presidente della Repubblica nelle cui mani hanno deposto i loro giuramenti. Povera Repubblica, con tutti questi vescovi ministri o presidenti di Regione che vogliono farla a pezzi. Non si direbbe che la devolution rivendicata da Bossi e perentoriamente richiesta da Formigoni sia la migliore delle medicine amministrative. Pare che la sanità pubblica affidata alle Regioni abbia già sforato il bilancio di diecimila miliardi, ed è lecito prevedere che le larghe deleghe alle Regioni in materia di ordine pubblico e scolastico aumentino anziché tagliare la pletora burocratica. Ma questa è la tendenza vincente e i nuovi vescovi ministri fanno a gara per accelerarla. C'è anche il vescovo, davvero vescovo, Buttiglione, che ancor prima di entrare nel suo ufficio ha deciso per sé ma anche per conto degli altri, che bisogna aprire la campagna contro l'aborto con una valutazione della libertà di scelta e di giudizio delle donne italiane piuttosto a buon prezzo, un milione al mese per un anno e non parliamone più. Subito seguita dalla richiesta della parità fra scuola pubblica e privata, con l'appoggio esterno del ministro Letizia Moratti, in elegante abito verde con scarpe viola la quale ci ha spiegato che a suo parere la scuola privata è molto meglio della pubblica soprattutto per una come lei che manda il figlio in una di quelle università americane che hanno costi proibitivi per i comuni cittadini. Da ciò che si legge nelle cronache politiche si potrebbe dire che anche una persona di grande intelligenza come Lombardi poteva sbagliare: diventare vescovo non cambia il prete. Ed è curioso come una parte della pubblica opinione si sia convinta o lo finga che per essere diventati vescovi, personaggi che hanno passato la vita a violare le leggi, a farsi largo con tutti i metodi legali o meno, a restar fedeli a ideologie autoritarie, a obbedienze clericali, partecipi di tutte le mafie del potere, improvvisamente indossato l'abito scuro e accolti dal dottor Gifuni in un salone del Quirinale, siano miracolosamente cambiati, abbiano perso con il pelo il vizio. Ma il potere non è quella arcana faccenda che ti permette di coltivare impunemente i tuoi vizi?



LA STRATEGIA SUICIDA DI ISRAELE

di Gal Luft (Ex tenente colonnello della Forza di Difesa iseraeliana)

da "Foreign Affairs" di luglio/agosto 2002

Mai nella storia di Israele, parafrasando Churchill, un tale danno fu inflitto a così tante persone da così poche. Dall'inizio della seconda Intifada, alla fine di settembre del 2000, decine di kamikaze - le "bombe umane" palestinesi - hanno fatto vacillare Stato di Israele e trasformato le vite dei suoi abitanti. Solo un anno fa, gli attentati suicidi venivano visti come una macabra aberrazione del conflitto israelo-palestinese, espressione di un fanatismo religioso che la maggioranza dei palestinesi rifiutava. Ma negli ultimi mesi è emersa una nuova e sconvolgente realtà: l'accettazione e la legittimazione di questi gesti si fa strada fra tutte le fazioni politiche e militari palestinesi. (…) I palestinesi vedono sempre più gli attentati suicidi come un'arma strategica, una "bomba intelligente" dei poveri in grado di controbilanciare miracolosamente la superiorità tecnologica e il dominio in fatto di armamenti convenzionali detenuti da Israele. I palestinesi sembrano aver deliberato che, se usati sistematicamente nel contesto di una lotta politica, i kamikaze danno loro qualche cosa che nessun'altra arma sarebbe in grado di dare: la capacità di infliggere ad Israele un dolore devastante e senza precedenti. Il sogno di raggiungere questa parità strategica è più potente di qualunque pressione a smettere o a desistere. E' quindi improbabile che la strategia verrà abbandonata, anche se il suo uso continuo spinge il Medio Oriente sempre più verso il baratro.

La legittimazione del terrore
Prima dello scoppio della seconda Intifada, i palestinesi facevano la distinzione fra gli attentati ai coloni, ad obiettivi militari israeliani e ai civili all'interno di Israele. Ma tali distinzioni stanno ormai scomparendo. (…) Nell'era post-11 settembre, infatti, sebbene gli attentati deliberatamente sferrati contro civili innocenti siano anatema per la maggior parte delle persone, l'idea di abbracciare il terrorismo come strategia ha obbligato i palestinesi ad auto-convincersi, e a convincere altri, che ciò che essi fanno sia moralmente legittimo, creando così, nel loro modo di vedere, un'equivalenza morale tra il danno inflitto da Israele alla popolazione civile palestinese e gli attentati palestinesi contro i civili israeliani, compresi i bambini (…) I palestinesi, sia islamici, sia laici, sono giunti a vedere l'attentato suicida come un'arma contro cui Israele non ha una difesa completa. Per contrastare i missili Scud iracheni, Israele sviluppò ed utilizzò l'Arrow, un sistema di difesa antibalistica da due miliardi di dollari. Ma contro queste "bombe umane" palestinesi, Israele può, alla meglio, costruire un muro. I kamikaze sono più intelligenti degli Scud, e i palestinesi sanno che anche se in Israele, oggi, ci sono più forze di sicurezza che insegnanti o medici, l'attentatore riuscirà sempre a passare i controlli.

I paraocchi dell'esercito
Se la storia è davvero maestra di vita, la campagna militare israeliana volta a sradicare il fenomeno dei kamikaze non ha probabilità di successo. Altre nazioni, di fronte alla minaccia di oppositori disposti alla morte, hanno imparato a loro spese che, fatta salva l'eliminazione totale del nemico, non esiste soluzione militare in grado di risolvere il problema.(…) Eppure, le autorità israeliane sono profondamente restie ad accettare questa realtà. La società israeliana chiede una sicurezza totale, e fa sua l'idea in base a cui la potenza militare potrebbe risolvere quasi tutti i problemi della sicurezza. Se i palestinesi hanno fede in Alla, gli israeliani confidano nel carro armato. Ma come in altre fasi storiche, Israele non è riuscita a convertire i propri successi tattici in risultati strategici. L'uso intensivo di strumenti militari ha procurato ad Israele una condanna a livello internazionale, ha fatto arroccare ulteriormente la società palestinese, e ha creato un terreno di rabbia, fertile per ulteriori attività terroristiche. E in aggio, com'era prevedibile, gli attentati kamikaze erano ripresi. Il fraintendimento israeliano della nuova modalità bellica palestinese potrebbe rappresentare un arma a doppio taglio. La percezione della debolezza del proprio nemico rischia di esaltare Israele spingendola ad operazioni punitive su più vasta scale in risposta al susseguirsi degli attentati. Ma le risposte militari israeliane finiranno prima o poi per esaurirsi, mentre i palestinesi avranno ancora legioni di "martiri" disposti ad immolarsi.

Lezione di accerchiamento
Di fatto, malgrado al sprezzante retorica israeliana che pretende che non esista resa davanti al terrorismo, si riesce già ad intravedere l'esito opposto. Gli israeliani sono disposti a pagare un prezzo economico e diplomatico sempre più oneroso per periodi di calma sempre più brevi. Di conseguenza, sempre più persone finiscono per sostenere panacee come una separazione unilaterale - la costruzione di muri, recinzioni e zone cuscinetto per proteggere i centri della popolazione israeliana dalla furia palestinese. (…) In base alla concezione attuale, inoltre, la recinzione dei territori non farebbe granché per ridurre i rancori palestinesi. A prescindere dalla lunghezza di un eventuale muro, infatti, decine di insediamenti ebraici sparsi sulle colline della West Bank non potrebbero che restarne fuori. Due terzi degli israeliani, secondo recenti sondaggi, sono a favore della rimozione di questi insediamenti isolati ed indifendibili per facilitarne la separazione. Ma nonostante tali prese di posizione, il Primo ministro israeliano Ariel Sharon ha ribadito il proprio rifiuto di smantellare anche un solo insediamento. "il destino di Netzarim è il destino di Tel Aviv", ha affermato recentemente Sharon, riferendosi a Netzarim, un insediamento della Striscia di Gaza piccolo, isolato e fortificato che è stato oggetto di molteplici attentati palestinesi. (…)

Disinnescare la bomba
Israele si trova perciò ad un crocevia cruciale della sua storia, nel quale, tuttavia, nessuna strada sembra particolarmente allettante. Non è probabile che le rappresaglie funzionino, ma è probabile che la ritirata possa soltanto riproporre sempre la medesima situazione. (…) Se c'è una via d'uscita da questo dilemma, essa potrebbe trovarsi nel convincere l'opinione pubblica palestinese che i suoi scopi costruttivi possono essere raggiunti soltanto abbandonando la strategia distruttiva. Israele dovrebbe quindi intraprendere una politica che offra ai palestinesi una ricompensa per una vera e propria lotta al terrorismo, evitando qualunque politica che alimenti l'idea che il terrorismo funzioni. Tali ricompense devono però essere tangibili e significative. (…) Prima di questa Intifada, i palestinesi erano per la stragrande maggioranza contrari agli attentati contro i civili israeliani. Speravano, infatti, di raggiungere le loro aspirazioni indipendentiste senza ricorrere al terrorismo. Stabilire come questo progetto possa avverarsi non solo è la cosa giusta da fare, ma rappresenta anche il metodo migliore per garantire la sicurezza di Israele. Ma se non si riesce a rianimare questa speranza, il destino di Tel Aviv potrebbe davvero diventare quello di Netzarim: e questa sarebbe una tragedia per tutti.



SINDROME CINESE

di Sara Moretti

da "Liberazione" del 09.07.02

Dopo anni di silenzio il governo cinese ha dato le prime cifre sull'epidemia dell'Aids. Nel giugno del 2001 il ministro della Salute, Zhang Wekang, ha ufficialmente annunciato che i sieropositivi cinesi sono più di mezzo milione. Ammissione tardiva e parziale. Secondo Unaids, il programma di lotta all'Aids delle Nazioni Unite, il numero degli infettati da Hiv supera il milione, mentre secondo fonti non governative il numero va moltiplicato per tre. Per le Nazioni Unite, comunque, se non si agisce subito si rischia di dover avere a che fare, entro il 2010, con 20 milioni di sieropositivi. In alcune zone della Cina la crisi è già molto avanzata. Lungo i confini meridionali, a contatto con le zone di produzione dell'oppio del Triangolo d'oro, l'enorme diffusione della tossicodipendenza alimenta il contagio a ritmi impressionanti. Le vie dell'oppio, che dai confini con il Laos e la Thailandia portano fino alle province cinesi del Nord-est, stanno diffondendo l'epidemia. Nella provincia centrale di Henan, la seconda più popolosa provincia della Cina, almeno un milione e mezzo di persone sono state contagiate invece dalle riserve di sangue infette: in alcuni villaggi l'80 per cento degli abitanti sono sieropositivi e almeno il 60 per cento sono già affetti da Aids conclamato. Anche accettando le prudenti stime governative, un tasso di espansione dell'epidemia del 30 per cento ogni anno è il più alto mai registrato. Come ha fatto l'Aids a propagarsi così rapidamente?

Profughi del lavoro
Il vecchio sistema maoista legava le persone ai loro villaggi o alle aree urbane dove vivevano. La distribuzione di coupon per avere accesso al cibo o alla salute costringeva le persone a restare nel proprio luogo di nascita, ma rispondeva perfettamente ai bisogni primari. Poi il sistema è saltato, lasciando il deserto sociale. Oggi circa 100 milioni di persone sono perpetuamente in viaggio attraverso l'immenso paese per sfuggire dalla fame delle campagne verso le città, dove non troveranno alcun sistema di assistenza né per il cibo, né per l'alloggio né tantomeno per la salute. A questi si aggiungono circa 40 milioni di persone - quasi tutti lavoratori urbani - che non sono stati assorbiti dalle nuove imprese quando quelle statali si sono semplicemente dissolte nel nulla. Questa enorme massa di popolazione giovane - l'80% fra i 15 e i 45 anni - è probabilmente una delle maggiori fonti di contagio e di trasmissione dell'Hiv da un luogo all'altra del paese, ma non è la sola. Il consumo di droghe è esploso in tutta la Cina. Il connubio fra disperazione sociale, dislocazione culturale - dalle soffocanti ma protettive comunità contadine alle città - e soldi facili hanno diffuso l'eroina anche negli strati sociali più abbienti a un ritmo sconosciuto in Occidente. Il governo cinese ammette l'esistenza di circa 860 mila eroinomani ma le fonti non ufficiali moltiplicano la cifra per tre. Altro classico brodo di coltura per Hiv è la prostituzione, tornata in auge grazie - si fa per dire - alle crescenti disparità economiche, alla mobilità lavorativa e al collasso di tutti gli ammortizzatori sociali, che penalizza soprattutto le donne. Per la polizia cinese le prostitute sono almeno 4 milioni ma, come al solito, si consiglia di triplicare per avere una cifra più veritiera. L'aspetto forse più crudo della catastrofe sanitaria è la contaminazione delle scorte di sangue la cui gestione, un tempo in mano allo Stato, è oggi considerata una delle attività imprenditoriali più redditizie. Fra la fine degli anni Ottanta e l'inizio del Novanta quasi ovunque in Cina si è ripetuta la stessa scena: all'annuncio del sanitario venuto a comprare sangue dai contadini poveri interi villaggi si radunavano. Per 40 o 100 yuan - l'equivalente di 5-10 dollari - gente che guadagnava due o trecento dollari l'anno, vendeva il proprio sangue magari più volte in un giorno per una settimana di seguito. Sangue mai testato che è diventato una fonte di contagio inarrestabile.

Il collasso sanitario
Ma la tragedia della vendita di sangue è solo una piccola parte della catastrofe costituita dal collasso del sistema sanitario cinese. La pressione economica - le buone vecchie ricette del Fondo Monetario - ha costretto lo Stato a rinunciare al suo vecchio ruolo di unico erogatore di servizi sanitari, solo che nessuna mano invisibile ha reputato conveniente prendere il suo posto. Sebbene i cinesi ricchi possano accedere alle tecnologie mediche più innovative, centinaia di milioni di persone non hanno più alcuna assistenza sanitaria di base, soprattutto nelle campagne. Nel 1978 circa il 20 per cento del budget sanitario veniva speso nelle aree rurali, dove oggi arriva appena il 4 per cento. Meno di un decimo dei 900 milioni di contadini cinesi hanno qualche forma di assicurazione sanitaria, il costo dell'assistenza medica è aumentato enormemente e le cliniche locali hanno chiuso perché non possono competere con l'economia di mercato. Ma non vengono colpite solo le popolazioni rurali: le popolazioni migranti recentemente urbanizzate che vivono nelle favelas ai margini delle città non hanno accesso ad alcun servizio sanitario, né ad alcuna forma di prevenzione o trattamento come ad esempio la costosissima terapia anti-Aids (fra i 10 e i 20 mila dollari l'anno). Per questo quasi nessuno fa più il test - che invece costa abbastanza poco - con il risultato che l'epidemia sta diventando "invisibile". L'offerta di medicine scontate da parte delle compagnie farmaceutiche insieme alle promesse del governo, che enfatizza il ruolo delle autorità nella trattativa commerciale in corso, è uno specchietto per le allodole. Nessuna delle terapie prodotte in Occidente è stata mai testata sul ceppo cinese di Hiv, e quindi nulla prova che potrebbe funzionare. I medici locali si limitano a combattere i sintomi - come le polmoniti - iniettando antibiotici con aghi riciclati - l'altro grande mercato in espansione, insieme a quello del sangue.

La Cina vista dalla luna
Le istituzioni sanitarie internazionali gridano al disastro. Se i tre filoni di trasmissione di Hiv - l'epidemia fra i tossicodipendenti nel Sud, quella fra le prostitute della costa e quella fra i "venditori" di sangue delle province centrali - dovessero convergere, sarebbe una catastrofe. Intanto il governo cinese si muove con incredibile lentezza: nel '96 è stata istituita una commissione che ha presentato i suoi piani d'azione solo nel 2001. Tuttavia le misure proposte - come curare gratuitamente la popolazione del più famoso "Aids village" - sembrano dettate soltanto da esigenze mediatiche. Del resto anche i suggerimenti degli organismi internazionali come l'Oms e Unaids sembrano provenire da un altro pianeta. Si chiede al governo cinese di impegnarsi per approvare leggi contro la discriminazione e per la protezione della privacy, come se fossero questi i principali motivi per cui la gente rifiuta il test. Si consigliano campagne per la sensibilizzazione all'uso del condom, mentre la gente muore letteralmente di fame. La prevenzione è certamente importante - così come le leggi anti-discriminazione - ma sono misure fotocopiate da realtà più ricche che non tengono conto della situazione. Del resto, con la schizofrenia ormai diventata proverbiale, le Nazioni Unite con una mano danno e con l'altra tolgono: mentre sono in arrivo 250 milioni di dollari stanziati dalla Banca Mondiale per i soliti "programmi di prevenzione e sensibilizzazione", il Fondo Monetario continua a pretendere tagli alla sanità ormai in rovina. In Cina, come in ogni altro paese del mondo, ai ministeri della Salute viene richiesto soltanto di gestire delle campagne mediatiche - media ai quali hanno accesso solo un numero molto ristretto di cittadini - e di lasciar fare ai privati il loro lavoro. L'entrata della Cina nel Wto e la passiva accettazione dei Gats, ovvero di un ulteriore giro di privatizzazioni dei servizi - inclusi quelli sanitari - non potranno che peggiorare la situazione.



SOPRA TUTTO

di Danilo Zolo

da "Il Manifesto" del 14.07.02

Ancora una volta gli Stati uniti sono riusciti ad imporre la loro volontà contro il diritto internazionale. Il loro personale militare, impegnato in operazioni di peace keeping, sarà immune dalla giurisdizione della nuova Corte penale internazionale. Lo sarà per un anno, ma l'esenzione potrà essere rinnovata senza limiti. I reati commessi all'estero da ufficiali e soldati statunitensi resteranno impuniti, salvo che a incriminarli non siano tribunali militari americani. Si potrebbe dire che da oggi il caso Cermis è divenuto, per volontà delle Nazioni unite, una regola universale. A deliberare questo privilegio giurisdizionale - sulla base di un compromesso che Amnesty International ha giudicato «scandaloso» - è stato il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Il compromesso dell'ultima ora ha estese il privilegio - inizialmente preteso dagli Stati uniti solo per se stessi - a tutti i paesi attualmente impegnati in attività di peace keeping. Non deve sfuggire che con ciò i poteri della Corte sono stati limitati e indeboliti e in modo del tutto arbitrario. La sua integrità e autorità giurisdizionale è stata gravemente mortificata, prima ancora che i suoi giudici abbiano iniziato a svolgere le loro funzioni. E' vero che il rappresentante americano in Consiglio di sicurezza ha modificato le iniziali motivazioni della richiesta di impunità. Inizialmente gli Stati uniti avevano dichiarato che non intendevano lasciare le loro truppe «alla mercé di denunce frivole o fondate su pregiudizi politici». Ora, come riferisce il New York Times, la motivazione è più diplomatica: l'amministrazione Bush sostiene che intende tutelare i diritti costituzionali del personale militare americano, in particolare il diritto di essere processato by a jury of peers, e cioè solo da tribunali militari nazionali. Questa motivazione è dominante. Gli Stati uniti, è noto, hanno mostrato una grande determinazione quando si è trattato di creare tribunali militari internazionali ad hoc: si pensi al tribunale dell'Aja per l'ex Jugoslavia, destinato a perseguire essenzialmente i reati commessi dalle autorità serbe. Gli Stati uniti si sono mostrati altrettanto irremovibili quando hanno deciso di usare la forza militare della Nato per «ragioni umanitarie», come è stato il caso della guerra in Kosovo. Occorreva, si sostenne, che la repressione dei crimini di guerra e dei crimini contro l'umanità non restasse affidata ai tribunali interni. Era necessario l'intervento di una corte internazionale, veramente neutrale e con il compito di proteggere imparzialmente i diritti fondamentali di tutti gli uomini. E persino la forza delle armi doveva essere usata per questo fine universalistico. Il registro tematico cambia radicalmente quando l'universalismo dei principi etici e giuridici coinvolge la massima potenza planetaria. Allora la logica del particolarismo riprende brutalmente il sopravvento. Lo riprende a Kyoto come a Guantanamo, in Afghanistan come in Palestina. Riprenderà nella nuova guerra contro l'Iraq. Stupirsi di tutto questo rischia di essere ingenuo, se è vero che la gerarchia del potere internazionale sta assumendo sempre più nettamente una struttura imperiale. Il potere imperiale è per sua natura impegnato a svolgere funzioni universali di pacificazione, di amministrazione della giustizia e di arbitrato coercitivo. Esso è persino invocato dai suoi sudditi per la sua capacità di risolvere i conflitti da un punto di vista universale e cioè «imparziale e neutrale». E proprio per questo l'imperatore è legibus solutus. L'imperatore giudica, ma non può essere giudicato. Non può sottomettersi ai verdetti di una giurisdizione superiore, senza negarsi.



USA, IL MISTERO DEI REDUCI KILLER

di Vittorio Zucconi

da "Repubblica" del 27.07.02

La fatica di vivere dopo avere imparato a uccidere, la maledizione del "Rambo" divenuto di schianto inutile, colpisce anche i reduci dall'Afghanistan, come ha colpito tanti guerrieri prima di loro. Nel nido delle forze speciali americane, dei berretti verdi, degli "eroi" celebrati alla partenza e dimenticati al ritorno, a Fort Bragg in North Carolina, muoiono quattro donne in sei settimane, uccise anche loro, senza burqa e senza Corano, dalla invisibile guerra afgana. In un mese, quattro di quegli eroi delle Special Forces hanno ammazzato le loro mogli e fidanzate, donne colpevoli di niente altro che sospetti di tradimento, bisticci, problemi di fatture da pagare. Di essere le compagne di perfette killing machines, di armi umane alle quali gli istruttori non sono riusciti a mettere la sicura e togliere il caricatore. Vecchissima, nuovissima tragedia, questa del ritorno a casa del guerriero che non riesce mai davvero a tornare a casa, Rambo e anche Ulisse senza catarsi finale e senza Itaca, che vagano sballottati nella banalità dei problemi quotidiani e combattono i duelli e le battaglie che l'esercito gli ha trapanato in testa. "Rambismo", choc bellico, schizofrenia, paranoia da "sindrome post traumatica", i nomi e le etichette che la cultura popolare e la psichiatria hanno appiccicato al disadattamento di tanti reduci sono numerosi quanto i veterani delle guerre che l'America ha combattuto. Gli ospedali della Veteran Administration, sono pieni di mutilati e invalidi nello spirito, accanto ai mutilati e invalidi nel corpo. E se l'immensa maggioranza dei boys, ora anche delle girls tornate a casa dalla guerra riescono a riprendere la loro vita civile, sempre, dopo il Pacifico e la Normandia, dopo la Corea, dopo il Vietnam, dopo il Golfo, dopo l'Afghanistan, ci sono i casi come questi, che avviliscono la retorica della "bella guerra". Nessuno dei quattro berretti verdi assassini era o è un criminale e chi di loro non si è suicidato, ha confessato in fretta il delitto e ha condotto gli sceriffi sul luogo della tragedia. Il sergente Brandon Floyd, Special Forces, reduce dalla battaglia di Kandahar, era il solito "bravo ragazzo tranquillo" di tutte le interviste post mortem, che "voleva molto bene alla moglie" Andrea e ai tre figli. Il loro abbraccio con prole alle ginocchia, ripreso in maggio dai fotografi della base quando era sceso dal C-131 al rientro in aprile, era stato tra i più lunghi e stretti, nel garrire enfatico delle bandiere. Ora, nessuno sa spiegare perché abbia sparato alla sua Andrea e poi si sia ammazzato nel letto matrimoniale, dove la polizia militare ha trovato venerdì scorso i due corpi. Il sergente maggiore William Wright, Terzo Reparto Special Forces, era tornato appena un mese fa dalle valli di Tora Bora, dove aveva guidato il proprio plotone nella umiliante moscacieca contro il fantasma di Bin Laden "vivo o morto". L'Army gli aveva dato una medaglia e una promozione, a 36 anni. La moglie, gli aveva dato la notizia che lei si era stancata di aspettarlo mentre lui andava a veniva sui cargo, per missioni nei peggiori angoli del mondo e intendeva chiedere il divorzio. Al sergente avevano insegnato che c'è sempre una soluzione militare a tutti i problemi, che non c'è nulla che un severo addestramento e un'arma pulita non possano risolvere, sissignore. Ha sparato alla moglie, ne ha sepolto il corpo in un boschetto poi si è scosso, come accade ai reduci che ruzzolano dal letto nel sonno per sfuggire a un proiettile o a un assalto. E' andato dallo sceriffo per confessare. Lo ha condotto al luogo della sepoltura. La moglie era stata rinchiusa, a termini di regolamento, dentro una body bag di plastica e sepolta bene, senza lasciare tracce, coperto di foglie e frasche, come devono fare le forze speciali quando seppelliscono un compagno caduto in terreno ostile. Di lui, il guerriero tradito, conosciamo almeno il motivo, il divorzio vissuto come un tradimento doppio, dell'uomo e della patria. Di Rigoberto Nieves, sergente anche lui, come sono tanti dei migliori e dei più coraggiosi tra le Special Forces, non sappiamo invece nulla, altro che la polizia lo ha trovato morto suicida accanto a Teresa, alla moglie, sempre in quel letto matrimoniale dove i Rambo spenti consumano la sconfitta della loro umanità, sempre con l'arma di servizio. E ce n'è un quarto, il sergente Cedric Ramon Griffin, che lo sceriffo di Fayetteville, una cittadina satellite dell'enorme base, accusa dell'assassinio della fidanzata. Cedric in Afghanistan non ci è mai andato, ma ha ucciso ugualmente la sua donna. I cappellani, i rabbini, i mullah e gli psicologi assegnati a questa disneyland armata tra i boschi delle Carolinas, dove si addestrano l'82esima divisione aereotrasportata con i Rangers dell'Army e le Special Forces, informano che le chiamate e le grida di soccorso di moglie e fidanzate prese a pugni, sono schizzate a cifre record, da quando i reduci sono cominciati a rientrare dall'Afghanistan, dalle Filippine, dai territori dove a volte le famiglie neppure sanno che i loro uomini sono in guerra. Parlano della depressione che travolge questi guerrieri, affilati in anni di addestramento, lanciati in missioni sempre segrete, talvolta sporche, senza conforto di marcette, gagliardetti e telegiornali, gonfi di adrenalina e di paura, in territorio ostile. Uomini speciali, predatori solitari o in piccoli branchi, abituati a non contare su nessuno, altro che su loro stessi, che i comandi utilizzano sempre più spesso per evitare l'imbarazzo, i costi e i rischi politici di grandi unità in campo e quindi di possibili grandi perdite. Guerriglieri, più che guerrieri, arditi e incursori, tirati nei muscoli, nei riflessi e nell'anima, "i migliori soldati del mondo, con il miglior equipaggiamento e il migliore addestramento del mondo" come ripete Bush quando li manda a combattere. Deer Hunters, cacciatori che nessun nemico può sconfiggere, ma dentro bambini insicuri, che una moglie irritata in camicia da notte, sul fronte della camera da letto, può distruggere con una parola e uno sguardo, pagando la vittoria con la vita.



LAGGIU' NEL NEAR WEST

di Stefano Benni

da "Il manifesto" del 11.07.02

Laggiù nel Near West, nel cinquantaduesimo stato degli Usa chiamato Italia, l'unica legge sopravvissuta era quella del più forte. E laggiù nel Near West c'era la famigerata città di Mount Citory, dove spadroneggiava un piccolo boss megalomane, El Nano Silvio. El Nano era un ex-pianista di saloon, costruttore di ranch prefabbricati, riciclatore di pepite false, proprietario di tutti i telegrafi della zona. Era sfuggito a taglie, debiti e galere e ora, ricco sfondato, andava in giro con un sombrero a parabola, sette telecomandi nelle fondine e stivali con la zeppa. Ma anche se si dava tante arie, non era lui a comandare in quel paese. Più di tutti comandava il governatore Melamarcia Bush, petroliere, spacciatore d'armi e falsificatore di bilanci pentito. Poi c'erano i pistoleri globali della Cia e i loro potenti alleati, il Pi Two Klan, loggia di incappucciati che da anni terrorizzava i villaggi dei peones. E il potente Scrooge D'Amato, boss dei costruttori di ferrovie, degli allevatori di bestiame e degli evasori fiscali. Per tutti costoro El Nano Silvio era il folcloristico rappresentante, e quando c'erano da fare lavori sporchi, ci si rivolgeva a lui e alla sua maggioranza. Come ogni sera, la banda del Nano si ritrovava in un saloon, un vecchio bordello democristiano rimodernato alla meglio, a cui avevano messo il nome di Las Reformas. Insieme a El Nano Silvio, che sfoggiava un sombrero gigantesco con pista ciclabile, c'era l'intero manipolo di ruffiani, aguadores, voltagabanas e indagati . C'era "Smile " Fini, l'uomo che aveva massacrato gli apaches di Genova ordinando ai carabinieri di travestirsi con le piume di guerra, ma era stato smascherato da due errori. Uno, metà degli agenti si era travestito da gallina, due, sulle molotov finte fatte trovare nel covo apache c'era scritto: Amaro del Carabiniere. Al suo fianco erano schierati i fedeli Garcia Gasparri, Matafrocios Storace e Ignacio La Russa, un tempo temuti bounty-killer e ora attivissimi frau-killer, ovverossia ex cacciatori di taglie riciclati in cacciatori di poltrone. Poi, con gran sventolare di bandane e fazzoletti verdi, entrò al Las Reformas la banda di Stoneball Bossi, proveniente dalla leggendaria Mesa Padana, dove sul Grand Canyon era stato messo il cartello segnaletico Gran Crepùn de l'Ostia. Stoneball buttò giù un doppio whisky con soda del Po e borbottò roco: - E' pieno di sporchi indiani qua intorno. Colpa di quei maledetti sudisti amici dei negri. Il suo vice Mac Maroni non osò correggerlo. Entrarono anche "Capestro" Castelli, guardaspalle del Nano e nemico giurato della legge, insieme a Dinamite Lunardi, che stava lavorando a un grande progetto: un ponte tra Messina e Brooklyn. Poi entrarono El Riciclado Pisanu, che aveva combattuto contro gli Incas, Stranamore Martino, lo stalliere Mark Dell'Utri e gli Useless Brothers, Baby Face Casini e Frankenstein Pera, le mascotte del gruppo. Tutti attorniarono il capo che sembrava furibondo. - Così non va, ragazzi - ringhiò El Nano- abbiamo dovuto sacrificare Al Scajola alla propaganda sioux-stalinista. Tra poco dovrò lasciare il mio interim preferito e nominare il nuovo ministro per i rapporti con le civiltà inferiori Il governatore Bush ancora non mi ha comunicato il nome, ma giuro che il soprannome lo sceglierò io. In quanto a te, Mike Cichè, avevi promesso l'acqua nei canyon siciliani e non ce n'è una goccia. Tu, Blackhole Tremonti, tutte le volte che fai un conto apri delle voragini che in confronto il Gran Canyon è una buca da golf. In quanto a te, Joe Fighetto Urbani, dovevi vendere un miliardo di bisonti ai giapponesi e ancora non ho visto un dollaro. Avevo detto che i giudici dello Sme dovevano sparire e sono ancora lì. I burocrati di Washington ladrona delirano che il falso in bilancio è reato. Devo fare tutto da solo, nessuno mi dà una mano. Era meglio quando c'era D'Alema. Un educato colpo di tosse segnalò che a un tavolo d'angolo c'erano Max D'Alema e Fix Fassino, che giocavano a domino e facevan finta di niente. -Ma adesso basta - tuonò El Nano - qua la legge siamo noi, e dobbiamo combinare qualcosa di buono, anzi di perfido e malvagio, se no che legge del west è? -Veramente una perfidia l'abbiamo fatta - disse Mac Maroni -seguendo le direttive di Scrooge d'Amato, ho fatto firmare il patto per l'Italia. - Non mi convince - disse el Nano - i capi indiani Cisleros e gli Uillos hanno fumato la pipa della pace, ma le loro tribù sono in rivolta, e sono ancora in libertà gli apaches Cigiellos. Quelli sono pericolosi, antropofagi, irriducibili. Proprio in quel momento si aprì la porta. Erano Piccola Pezza e Angeletto Spiumato, capi dei cisleros e degli uillos. Si inchinarono con imbarazzo. - Abbiamo lavato i suoi cavalli - dissero - adesso possiamo andare? - No - disse El Nano - adesso portateli a bere e poi dal truccatore. - Ma veramente i patti erano diversi ... - Non conoscete Snake Marzano e il detto "viso pallido parla con lingua biforcuta"? Ma che indiani siete? Avete firmato e adesso obbedite, fuori dai coglioni - intimò El Nano Silvio - Insomma qua nel Near West c'è metà dei cittadini che ancora non rispetta la mia legge. E soprattutto, siamo sicuri che Lui sia sistemato? A quel Lui un brivido percorse le schiene dei presenti. Uomini duri e avidi, che avevano affrontato processi e bancarotte, scontri in aula e code al buffet, avvisi di garanzia e duelli per una dirigenza, non riuscirono a nascondere un moto di paura. Anche quelli del Pi Two Klan, sotto il cappuccio, impallidirono. - Lui è sistemato, isolato, circondato - disse Pegleg Previti - gli scateneremo contro tutti i cacciatori di taglie, le gazzette e le televisioni del paese. Dovrà emigrare nello Yukon. Ma in quel momento un coyote ululò, una cavallo nitrì e si sentirono, in lontananza, le note di Casta Diva suonate da un'armonica a bocca. La porta si spalancò e il vento rovente della prateria scompigliò le carte sui tavoli. Sulla soglia, avvolto in un poncho indiano, il sigaro all'angolo della bocca, apparve Lui. Chinatown Cofferati, l'apache cinturato, il meticcio sindacal-politico, il più wanted dei wanted , l'uomo che voleva seminare panico sciopero e distruzione nel tranquillo mondo fuorilegge del Near West. Guardò tutti con aria beffarda. Sul poncho ostentava un badge di Lenin, uno della Callas e un osso, forse di industriale. Sul capo, un diadema di pennarelli rossi. Con un gesto deciso, sollevò il poncho. Tutti balzarono all'indietro, poiché Chinatown Cofferati era una della pistole più veloci del West. Ma il bieco pellerossa non era armato: puntò un dito e gridò: - Costituzione! A quella vile e bassa provocazione, tutti arretrarono. Fini e Gasparri misero mano al revolver, Pera saltò sul lampadario, Bossi fece un gesto scaramantico torcendo le balle a Mac Maroni. -Vigliacco sanguemisto! - disse El Nano - guai a te se pronunci ancora questa parola qua dentro! E tutti si misero a sparare, ma il diabolico Cofferati, saltando qua e là come un cartoon, evitò i proiettili e sparì ghignando della prateria. - Non una parola di quello che avete appena visto - disse cupo El Nano, versandosi due dita di whisky, vale a dire metà della sua altezza in alcool. Tutti annuirono. - Questo vale anche per voi due, nascosti dietro al piano - gridò El Nano. - Non siamo nascosti, siamo defilati - disse la vocina di Fix Fassino. - Non mi sembra un dramma - disse Max D'Alema. - Ci vuole un piano, e subito - disse El Nano - allora, per prima cosa bisognerà che da qualche parte saltino fuori dei ragazzi a bruciare dei ranch e far fuori qualcuno, magari dipingendo su tutto la stella delle Bierre, ancora meglio se lasciano tessere della Cgil sul posto. - Sarà fatto - disse un incappucciato, lo sciamano Castelli , che osservando il volo dei puma ha già previsto guai nel Northeast. - Benissimo. Poi telegrafate al governatore Bush che abbiamo bisogno di una guerra ad alto livello per questo autunno. - Già in preventivo - disse un altro incappucciato. - E in quanto alla stampa, giù botte sul maledetto meticcio, e guai a chi dà troppa pubblicità agli scioperi, esclusi quelli dei trasporti. E per finire... - E per finire? - fecero eco i presenti. - Per finire brindiamo, aguardiente per tutti, paga il contribuente. E tutti si precipitarono al bancone dove erano stati allestiti a tempo record uno stand per le autorità, un premio al Regime giornalistico, un Telecoyote e un raduno Vip. La festa si scatenò e il clima si rilassò. Ma accadde l'imponderabile. Si aprì la porta del saloon ed entrò un mezzosangue, per metà pellerossa e per metà coreano, con nonna marxista e nonno arbitro dell'Ecuador. - Scusate - disse cortesemente - qualcuno ha posteggiato il suo cavallo davanti alla mia Porsche e non riesco a uscire. Scoppiò una regolare rissa western, durante la quale Frattini, Montezemolo, Benetton, Borghezio e tutti quelli che volevano fare il ministro degli esteri si spararono addosso. Poi, per divertirsi un po', la banda uscì per strada sparando all'impazzata, furono catturati e rispediti a Nuova Delhi centocinquanta indiani Pellerossa di varie tribù. Da una strada laterale uscì un gruppo di Apaches Cigiellos scioperanti, e una decina di red collars, i terribili preti-predicatori rossi. Per ultimo un giudice schedato. Volarono pallottole e premolari. In quel momento uscì dal suo ufficio lo sceriffo Karl Azelius Ciampi, in bombetta, con consorte al fianco. Sorrise a un cavallo, scavalcò un acciaccato esanime, schivò una freccia e nella baraonda sussurrò: - Questo paese non è mai stato così unito. E si dileguò. Tutto intorno, i coyote ululavano, come ululeranno ogni notte.



TIPICIZZARE GLI ATIPICI

di Alfredo Marchetti

da "E-left.it"

Quando la pentola bolle, basta poco per far saltare il coperchio. Il mondo del lavoro è una pentola di notevoli dimensioni che, mano a mano aumenti il dissenso sociale sulle politiche riguardanti esso, fa venire a galla un numero sempre maggiore di condizioni esasperate. Nel triennio 1999-2001 il mondo della new-economy era il modello da dover imitare a tutti costi in quanto vincente su ogni fronte: occupazionale, economico e di soddisfazione personale. Al suo fianco l'espansione del lavoro temporaneo, soprattutto interinale, sembrava aver dato una grossa mano per regolamentare un mondo lavorativo difficilmente inquadrabile nei modelli "classici". Noi tutti sappiamo che il sistema italiano ha sempre cercato di copiare da quello statunitense, quindi, per cominciare, guardiamo cosa successe là un po' di tempo fa. L'economia in un sistema simile necessita di nuove strutture, aziende e tutti i nuovi servizi ad un ritmo estremamente veloce; tutto questo crea innumerevoli nuovi mestieri, nuove figure lavorative, senza alcuna regolamentazione. Ma una prima domanda può venire alla mente: così facendo, non si potrebbero mettere in competizione i lavoratori tra di loro, obbligandoli a una gigantesca gara al ribasso del prezzo del loro lavoro, con un grosso margine di guadagno per il solo committente? C'è chi ha risposto che spesso vincono i progetti migliori, non necessariamente i più economici, e c'è la realtà quotidiana, che è implacabile nel dar ragione alla maliziosa domanda! Sempre gli Stati Uniti sono stati protagonisti di una vicenda inquietante. Una quindicina di anni fa a molti lavoratori americani capitò un fatto curioso: furono licenziati dalle aziende presso cui lavoravano e riassunti immediatamente come lavoratori in affitto a tempo determinato attraverso un'agenzia di lavoro interinale: stessa azienda, stesso lavoro, stesse mansioni. Differenza? Essendo lavoro in affitto nessuno è obbligato a versare i contributi previdenziali, né ai fini pensionistici, né tantomeno assicurativi in caso di malattia: negli USA viene chiamato "Permatemping", sulla carta risultano lavoratori in affitto per periodi limitati, in realtà lavoreranno per anni a tempo pieno nello stesso posto, trovandosi con un pugno di mosche in mano alla cessazione del rapporto lavorativo. Non possiamo dire che l'Italia, per il momento, soffra di queste derive, ma non possiamo nemmeno ammettere che sia tutto rose e fiori. Il velo è stato squarciato qualche mese fa da Matrix, società che gestisce il portale Virgilio, sotto il controllo di Seat-Pagine Gialle. Dopo aver cercato, tramite il Gruppo Telecom Italia, fino alla scorsa estate, circa 200 giovani da avviare al Web in aziende del gruppo, dopo pochi mesi arrivò la doccia fredda di 250 esuberi, lasciando nello sconcerto più totale i lavoratori di questo settore, che non si rendevano conto del perché di tutto ciò, se rapida inversione di tendenza o nuova strategia societaria. I lavoratori del settore informatico, in particolar modo della rete, sono sempre stati considerati come un mondo a parte, come figure escluse dagli scontri sindacali e dalle quotidiane problematiche lavorative, perché appartenenti ad un mondo dorato, con un tasso di disoccupazione di settore quasi nullo, con un alto profilo professionale la cui richiesta dal mercato era sempre in aumento. Se poi ci si ricorda di come sia regolato il loro lavoro, con quale tipo di contratto, allora si scoprono le prime spine: lavoratori temporanei, le cui prestazioni appartengono ad una categoria ultimamente divenuta tanto di moda, le collaborazioni coordinate e continuative, in una sigla i Co.Co.Co. Nonostante l'intervento di alcuni accordi tra i lavoratori, i datori e alcune componenti sindacali, è molto difficile regolamentare questo settore, perché da poco tempo comparso così in massa nel sistema italiano, perché le categorie sono difficilmente inquadrabili in quanto ognuno ha mansioni spesso differenti dagli altri colleghi e, non da ultimo, per la scarsa sindacalizzazione degli ambienti lavorativi, sia per riottosità dei lavoratori, sia per difficoltà del sindacato, anche se da qualche tempo sono nate associazioni sindacali che si prendono cura di loro. Comunque, dicevamo, sono stati creati diversi accordi, ma ci sono anche alcune perplessità, dovute alla particolarità delle tipologie contrattuali. La frammentazione degli accordi stessi che risultano stipulati a livello locale, con una normativa, quindi, molto particolareggiata, caso per caso, sia per quanto riguarda i casi di infortunio e malattia, che non sulla salute e sicurezza, che non, addirittura, per i casi di recesso e risoluzione del contratto. E poi il vuoto principale, la mancanza di collegamento tra una prestazione e l'altra per quanto riguarda i diritti maturati, non solo contributivi, ma anche "di percorso di carriera", come ebbe a dire Accornero; ecco perché la necessità ed urgenza di un sistema rinnovato di ammortizzatori sociali. Chi scrive non si sogna minimamente di scagliarsi sic et simpliciter contro l'introduzione e il mantenimento di queste nuove forme di lavoro, ma vorrebbe semplicemente sottolineare il fatto che, dopo un periodo di tempo così lungo senza nessun risultato apprezzabile a livello di norme generali, sarebbe oramai opportuno che il legislatore, con le rappresentanze sindacali, mettesse mano ad una regolamentazione di tali modelli, senza lasciare che sia il solo mercato a farlo, per evitare, un brutto giorno, che migliaia di lavoratori si possano ritrovare immediatamente a far i conti con un mondo che credevano essere solo di rose e fiori.



LA MEMORIA DELLA STRADA: LOS ANGELES 1992-2002

di Guido Caldiron

da "Liberazione" del 18.06.02

1992/2002. E' passato più di un decennio dalla rivolta urbana di Los Angeles che segnò profondamente, all'inizio degli anni Novanta, l'intera società statunitense e rappresentò un simbolo, anche se contraddittorio, per tutti i movimenti urbani cresciuti nelle metropoli del pianeta globalizzato. Lo slogan "No justice, no peace", inaugurato lungo le highway metropolitane della città più estesa e dilatata del pianeta - l'area urbana della "città degli angeli" raggiunge la superficie complessiva di una regione italiana - varcò subito l'Atlantico, entrando prepotentemente nel vocabolario delle culture di strada, politiche o meno. Dalle manifestazioni in difesa del centro sociale Leoncavallo, allora sotto minaccia costante di sgombero, al rap degli AK47, per finire ai gruppi dell'hardcore punk. Questo solo per restare in Italia. Perché nelle banlieue francesi o nelle inner cities britanniche il riot scoppiato nella primavera del 1992 a Los Angeles fu vissuto addirittura come una vicenda personale, un frammento di quella storia di repressione condotta lungo le linee del razzismo e della segregazione sociale che si vive ogni giorno anche in quei luoghi. Poliziotti bianchi che aggrediscono un nero: una "bavure" - letteralmente "sbavatura" come la definiscono i giornali francesi che è storia di tutti i giorni nella "grande Londra" piuttosto che a Lione, Parigi o Roubaix. Quando, il 29 aprile del 1992 la giuria del tribunale di Simi Valley, 30 chilometri a nord ovest della capitale californiana, assolve i quattro poliziotti accusati del brutale pestaggio dell'automobilista nero Rodney King, scocca la scintilla della più grande rivolta urbana della recente storia americana. E' dalla zona a maggioranza afroamericana di South-Central che partono le manifestazioni di protesta che si trasformeranno nel corso di poche ore in una vera e propria battaglia. Alla fine della giornata il sindaco di Los Angeles chiederà ufficialmente l'intervento dei soldati della Guardia Nazionale e nella notte si cominceranno a contare già una decina di morti, che alla fine degli scontri diventeranno cinquantaquattro. Così per quattro giorni Los Angeles si è trasformata nel cuore in rivolta di una umanità sotto controllo permanente - le vecchie "classi laboriose" trasformate, nell'era della disoccupazione di massa, in "classi pericolose" - repressa a causa del colore della propria pelle, quasi reclusa in città-fortezza dove la socialità è stata progressivamente negata e quel che ne resta vive ai ritmi di una militarizzazione crescente. Ma Los Angeles esprime anche il "cul de sac" delle culture di strada, un'assalto al cielo in miniatura che si ferma in realtà alle vetrine dei negozi gestiti dagli immigrati coreani, che trasforma la rivolta contro il potere in una guerra tra poveri, e la rappresentazione simbolica della violenza, tipica delle gang di strada, in una guerra reale, combattuta con armi automatiche e mitragliette Uzi. Anche se, come scrive Andrew Kopkind in Los Angeles: Non Justice No Peace (manifestolibri, 1992): «Lo sviluppo più interessante dei tumulti di Los Angeles è stato l'apparire di rudimentali organizzazioni del ghetto, condotte da gang sinistramente famose, che in lacune aree sono le uniche efficaci istituzioni sociali ancora in piedi nella desolazione urbana». Dalle strade violente della metropoli californiana crescevano dunque degli anticorpi che piano piano hanno cercato prima di riportare la "pace", in particolare riducendo la violenza nei quartieri della comunità afroamericana, e quindi di avviare progetti sociali, reti di solidarietà che cercassero di ridisegnare la mappa di quella che Mike Davis ha descritto come la capitale mondiale delle nuove tecniche repressive del controllo sociale. Eppure mentre si ricordano oggi quei giorni del 1992, le stesse strade di LA sono attraversate dalle proteste per nuovi atti di razzismo compiuti dalla polizia. Come spiega Alejandro A. Alonso su streetgang. com i dieci anni che ci separano dalla rivolta di Los Angeles sembrano celebrarsi nell'annuncio di nuovi riot. Davvero da quel tragico incendio del 1992 e da quel segnale di rivolta non si è capito nulla?



PERSONALIZZAZIONE DELLA POLITICA E STRATEGIE DI SCELTA DEGLI ELETTORI

di Gian Vittorio Caprara *

da "Psicologia Contemporanea", lug-ago 2002

Fiuto e dintorni: le scorciatoie cognitive.
Si sottolinea da più parti come la politica, soprattutto in Occidente, sia sempre più "personalizzata": gli elettori prestano sempre maggiore attenzione alle caratteristiche individuali dei candidati e questi si adeguano, offrendo l'immagine di sé che più può piacere alla gente. Le preferenze politiche, diversamente da quanto accadeva ancora venti o dieci anni fa, non sembrano più determinate dai partiti, con i quali un tempo si identificavano le varie ideologie circolanti o, più semplicemente, gli interessi della classe d'appartenenza o le tradizioni della famiglia. Gli umori dell'elettorato sono oggi molto più volatili, le fedeltà improbabili, le aspirazioni capricciose. E tutto ciò nonostante la gran quantità di informazioni, o forse anche per questo, e in aggiunta alla crescente evanescenza del dibattito politico, ad un minor coinvolgimento ideologico e ad un maggior pragmatismo. Non sorprende che, di fronte alla difficile comprensibilità e all'incerta realizzabilità delle promesse e dei programmi, l'elettore si orienti con la bussola del "fiuto" e faccia ricorsa a scorciatoie che, pur non esenti da errori, traggono tuttavia legittimità dall'aver funzionato, o in ogni modo dall'aver arrecato più vantaggi che danni, in passato. Affidarsi alle impressioni di simpatia, fiducia, diffidenza, ecc., che immediatamente proviamo al cospetto di alcuni, continua a restare una delle strategie più importanti di cui la gente disponga per orientarsi nel mondo. E non soltanto in quello della politica. (…)

Fra intrusioni e "dosaggi": l'immagine del politico.
Negli Stati Uniti, quelli che si occupano di "dosaggi" del genere sono i responsabili dell'immagine del candidato, quegli staff agguerriti che gli suggeriscono cosa (come, quando, ecc.) dire (tacere, svelare, ecc.) alla stampa, nei comizi, ecc. Anima e corpo concorrono a delineare una personalità credibile, affidabile e, soprattutto, trasparente. Da qui l'enfasi della moderna retorica politica sul personale, sul privato, perfino sull'intimo. A che bisogni risponde? Alla nostalgia di relazioni dirette e di strette di mano? Al desiderio di protezione e soggezione? (…) Forse. Però, come ci dicono tutti i più recenti e attendibili dati di ricerca, prima di tutto risponde al tipo di giudizio che l'elettore oggi dà del candidato, che è primariamente una valutazione di personalità. Sappiamo come è andata a finire tra Al Gore, che orgogliosamente dichiarava di non puntare sulla personalità, e George W. Bush che, al contrario, non esitava ad assecondare l'ossimoro del "conservatore compassionevole". Indubbiamente la televisione è stata determinante nel promuovere la crescente personalizzazione della politica, portando in ogni casa facce, espressioni, emozioni, storie (più o meno plausibili) di candidati ed eletti, storie ampiamente punteggiate di variopinte vicende private, afferenti, secondo i casi, a coniugi, figli, parenti e perfino gatti o cani di casa. Alcuni ritengono che la televisione, in quanto sistema pervasivo di trasmissione e violazione dell'intimità, abbia contribuito al degrado del dibattito e dell'impegno politico. Altri, più cautamente, si limitano ad osservare che la televisione può servire innumerevoli padroni e perciò indifferentemente contribuire alla crescita, all'impoverimento o all'intontimento del pubblico. Resta il fatto che il mezzo televisivo ha rivoluzionato la politica, non solo svuotando le piazze e aumentando enormemente la quantità di informazioni trasmesse, ma incidendo significativamente sull'organizzazione delle stesse. E' stato dimostrato che, soprattutto in televisione, il modo in cui le informazioni vengono confezionate, sequenziale, giustapposte ed enfatizzate, influenza la loro valutazione, l'importanza assegnata e il ricordo. Ed è praticamente impossibile, anche per il presentatore più esperto e professionale, restare del tutto neutrale di fronte a fatti che inquietano le coscienze, imparziale davanti a contendenti di opposte fazioni, indifferente alle seduzioni del potere.

Euristica della gradevolezza: le scorciatoie affettive.
La gente è conservativa, generalmente più sensibile alla prospettiva di perdere piuttosto che a quella di guadagnare, perciò poco incline al rischio e al cambiamento. Mentre le perdite mettono sempre a repentaglio equilibri e risultati più o meno faticosamente conquistati, i guadagni non sempre soddisfano le anticipazioni dell'immaginazione. Anche questo spiega il vantaggio del politico che concorre per il rinnovo della carica rispetto al novizio che si deve conquistare gli elettori. Le persone più familiari, generalmente, ci sono più gradite degli estranei e quelle che dichiarano di pensarla come noi, o che riteniamo la pensino come noi, ci risultano più piacevoli di quelle da cui ci separano esperienze e opinioni. Il senso comune e il condiviso ammortizzano le novità, attutiscono le incognite, rassicurano e confortano. Simboli come la bandiera o l'inno nazionale attestano memorie collettive e bisogni di comunità profondi. Per questo possono rappresentare collanti straordinari, capaci di comprimere e cancellare diversità, disuguaglianze e intolleranze. In politica, quanto più le personalità dei candidati si associano ad emozioni positive, tanto più questi sono ritenuti degni di essere votati, Una sorta di "euristica della gradevolezza" induce a ritenere che quelli che ci piacciono la pensino come noi, mentre è una conseguenza naturale del nostro egocentrismo ritenere che quelli che ci piacciono siano anche più frequentemente nel giusto che nell'errore. La rivoluzione affettiva, che è seguita a quella cognitiva, evidentemente non poteva non investire anche la politica, ed in particolare le relazioni e le comunicazioni tra leader ed elettori. Non sappiamo se in passato sarebbe stato raccomandabile per un leader politico, diciamo Winston Churchill o Josif Stalin, mostrare le proprie emozioni di pentimento e preoccupazione in pubblico, ma dopo Bill Clinton e Gorge W. Bush non abbiamo più dubbi che le emozioni negative oggi possono servire a creare consenso, quando attestano il riconoscimento della propria umana fragilità e specie se unite, in altre circostanze, alla fermezza e all'orgoglio. Tony Blair, il padre indispettito e preoccupato per le trasgressioni del figlio adolescente, è la stessa persona che, dopo i fatti dell'11 settembre, ha potuto convincere immediatamente il suo Paese ad unirsi agli Stati Uniti nella lotta contro il terrorismo.

Energia e amicalità: i due grandi attrattori.
La tendenza alla semplificazione cognitiva ed emotiva in politica è un fatto accertato. In uno studio comparso su Psicologia contemporanea del 1997, si riportavano i risultati di uno studio in cui, per la prima volta, si accertò che, quando gli elettori devono descrivere la personalità di un leader politico attraverso la consueta lista di aggettivi prototipici dei Cinque Grandi Fattori, succede che le scelte, anziché distribuirsi sulle cinque dimensioni, come avviene normalmente, si concentrano invece solo su due fattori, che rappresentano una sorta di "condensato" di tutti gli altri. Definimmo allora questi due fattori come "energia-innovatività" (un misto di energia-estroversione" ed "apertura mentale") e "onestà-affidabilità" (un misto di "amicalità", "coscienziosità" e "stabilità emotiva"). A conclusioni sostanzialmente simili giungevano analoghe ricerche statunitensi sulle personalità di Bill Clinton e Bob Dole. In una recente replica della ricerca del 1997, i dati emersi confermano la riduzione dei cinque fattori a due, "energia" e "amicalità" contano di più, indipendentemente dagli orientamenti politici degli elettori e dagli schieramenti dei leader. Nell'impressione che l'elettorato si fa del politico, sembra insomma che alcuni tratti funzionino da "attrattori", calamitando su di sé e soppiantando tutti gli altri, e che siano soprattutto i tratti dell'"energia" e dell' "amicalità" a richiamare quelle caratteristiche di competenza, affidabilità, integrità e leadership che, come evidenzia la letteratura, toccano di più il cuore e la testa dell'elettorato.

* Ordinario di Psicologia della Personalità all' Università "La Sapienza" di Roma.



"ISPETTORI ONU MANIPOLATI DAGLI USA"

di Stefania Podda

da "Liberazione" del 31.07.02

L'accusa è la stessa che Baghdad va ripetendo da anni. Ma stavolta arriva da una fonte senza dubbio informata, ma soprattutto autorevole e poco sospettabile di parzialità, vale a dire l'ex responsabile degli ispettori Onu in Iraq (Unscom), Rolf Ekeus. Secondo Ekeus, gli ispettori internazionali incaricati di controllare lo stato degli arsenali iracheni sarebbero stati usati da Washington e da altri membri del Consiglio di sicurezza per i propri fini. Gli Stati Uniti avrebbero addirittura infiltrato loro agenti nella squadra degli ispettori, utilizzandoli come spie. Il tutto finalizzato alla scoperta di informazioni utili a stanare Saddam Hussein e a fornire l'alibi per un nuovo attacco a Baghdad. E anche molti dei controlli effettuati in territorio iracheno, non avrebbero avuto in realtà altro scopo se non quello di far perdere la calma a Saddam Hussein e spingerlo a un passo falso. Il diplomatico svedese, che dal '91 al '97 guidò il gruppo degli ispettori, non usa mezzi termini nel denunciare le pressioni ricevute da Washington, ma anche dalla Russia, affinché "addomesticasse" i suoi rapporti: «Non c'è dubbio - racconta oggi - che gli americani volessero influenzare le ispezioni sulla base dei loro interessi fondamentali. Secondo me - puntualizza - non è comunque accaduto nei primi anni, perché allora c'era una reale preoccupazione per le armi di sterminio che l'Iraq avrebbe potuto possedere». Preoccupazione che ben presto cede il passo alla volontà di trovare comunque un pretesto per chiudere i conti con Saddam rimasto al potere nonostante una guerra disastrosa. Così cominciano le "sollecitazioni" agli ispettori e i tentativi di creare artificiosamente - accusa ancora Ekeus - «una crisi con Baghdad, in qualche modo collegata alla situazione politica internazionale, ma qualche volta nazionale». L'ex capo degli ispettori cita come esempio la volta in cui la Casa Bianca premette per ottenere un'ispezione al ministero della Difesa iracheno, ben sapendo che Baghdad l'avrebbe considerata una provocazione. L'ispezione venne comunque portata a termine, ma solo dopo che Ekeus ebbe lasciato l'incarico. Il suo posto venne preso da Richard Butler che si dimise dopo appena due anni. Nel dicembre del '98, dunque alla vigilia del bombardamento deciso dagli angloamericani per punire Saddam proprio per la sua scarsa collaborazione con gli ispettori, Butler lascio l'Iraq e non tornò più. Le accuse di Ekeus - che peraltro in passato aveva più volte denunciato il regime di Saddam Hussein - suonano oggi come una risposta al ministro degli Esteri iracheno Naji Sabrii: «Gli Usa - ha detto ieri il ministro - puntano al petrolio iracheno. Vogliono riempire il nostro paese di spie (gli ispettori, ndr). Queste spie cercano informazioni sulle nostre installazioni militari, per passare questi dati agli Stati Uniti che li useranno per attaccarci». Le rivelazioni arrivano inoltre in un momento in cui sono più che mai insistenti le voci di una guerra imminente e svelano la strumentalità dell'argomento secondo cui la guerra sarà inevitabile a meno che l'Iraq non apra nuovamente le proprie frontiere alle ispezioni delle Nazioni Unite. Invito ripetuto un paio di giorni fa dall'Alto rappresentante per la politica estera e della sicurezza dell'Unione europea, Javier Solana: «Spero ancora che non vi sia un'azione militare. Spero che i dirigenti iracheni siano abbastanza intelligenti da aprire il Paese agli ispettori dell'Onu per gli armamenti». Ma oramai appelli del genere appaiono poco più che esercizi di retorica. L'intervento militare è già stato deciso, anche se l'impressione è che, oltre all'attacco, la Casa Bianca abbia deciso poco altro. Resta infatti vago il piano studiato per sbarazzarsi di Saddam e in queste settimane l'amministrazione Bush è impegnata a vagliare le varie opzioni sul tavolo. L'idea di procedere come in Afghanistan, appoggiando cioè la lotta degli oppositori interni appare oramai poco probabile visto che l'opposizione viene giudicata inadeguata al compito. Ieri, poi, il capo del movimento sciita Ajatollah Mohammed Baker al Hakim ha ribadito in un comunicato il suo netto «no» ad un'occupazione del Paese da parte di forze straniere: «Rimaniamo scettici verso le intenzioni degli Stati Uniti nei confronti di talune questioni importanti relative al periodo che farà seguito alla caduta di Saddam: la nuova costituzione irachena, le strutture del nuovo parlamento e governo. In tutto questo non vi sarà posto per gli ex generali di Saddam e non accetteremo a lungo termine la presenza di truppe straniere sul suolo iracheno. L'unico ruolo aperto agli Usa è quello di spezzare l'enorme oppressione militare del regime iracheno, affinché il popolo possa fare liberamente le sue scelte, in base ad elezioni libere e democratiche». Ma l'ipotesi dell'invasione dal Qatar, dal Kuwait e forse dall'Arabia saudita, con 250mila soldati pronti a marciare su Baghdad e preceduti dai raid, resta la più accreditata. Ieri il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld ha fatto capire che la guerra non sarà al risparmio: «Ci vorrà più di qualche raid aereo per impedire all'Iraq di sviluppare armi di distruzione di massa», è stata la sua minacciosa battuta, mentre inaugurava a Suffolk, in Virginia, la più grande esercitazione militare nella storia degli Stati Uniti. Intanto, mentre Saddam Hussein ha replicato alle minacce di Washington e Londra - «Gli americani e i britannici raccontano barzellette quando sostengono che lasciandoci libertà d'azione produrremo queste o quelle armi e le metterremo al servizio del terrorismo», i Paesi arabi restano contrari all'eventualità di un intervento militare statunitense. Lo è, almeno ufficialmente, anche la Giordania, sebbene le indiscrezioni circolate in questi giorni diano per certa la disponibilità del suo re ad ospitare truppe americane: «Un'azione militare contro l'Iraq - ha ribadito ieri il re Abdullah - sarebbe come aprire un vaso di Pandora».



LA "DOLLARIZZAZIONE" DEL CORTILE DI CASA

di Salvatore Cannavò

da "Liberazione" del 03.08.02

Le rassicurazioni del Fondo monetario sul contenimento della crisi argentina dentro i confini del paese si sono rivelate per quello che sono: carta straccia. Sono stati sufficienti sei mesi perché il tracollo finanziario portasse sull'orlo del baratro il vicino Uruguay e molto meno per mettere sotto stress la più grande economia dell'America Latina, quel Brasile che si avvia alle elezioni presidenziali nel segno della possibile vittoria di Ignacio "Lula" da Silva. E' l'intero continente, quindi, a essere stretto nella morsa del debito estero controllato dal Fondo monetario e del mix di corruzione e neoliberismo selvaggio che caratterizzano la maggior parte dei governi sudamericani. L'Uruguay è stato trascinato nella spirale di crisi da ragioni piuttosto evidenti: la vicinanza con l'Argentina, gli stretti rapporti commerciali e finanziari con Buenos Aires, una politica economica fondata sugli stessi precetti liberisti, hanno contribuito ad affondare il paese, ma soprattutto a ipotecare definitivamente la credibilità del sistema bancario. Ma a pesare più di tutto è stato l'approccio del Fondo monetario alla crisi argentina. Invece di intervenire immediatamente, cercando di rimediare ai propri stessi errori, l'Fmi ha sottoposto il governo Duhalde a un estenuante e infinito esame dal duplice obiettivo: ristabilire il principio del contenimento della spesa e dei tagli strutturali - ma cosa c'è ancora da tagliare in Argentina? - come condizione per l'erogazione di prestiti; impostare, sulla base della crisi argentina, una linea di condotta "esemplare" per l'intero continente latinoamericano, sempre più riottoso a sottostare al vecchio sistema di dominio nordamericano. Di fronte a un simile comportamento, i residui margini di fiducia sono crollati, come dimostra il "feriado bancario" uruguaiano o la raggiunta parità del Real brasiliano con il peso argentino.

I ribelli del sudamerica
I primi segnali di quella "riottosità", paradossalmente, sono arrivati proprio dai due paesi del Cono Sur che oggi sono nell'occhio del ciclone: la sconfitta di Menem in Argentina nel 1999 e la quasi vittoria del Frente Amplio di Tabarez Vasquez in Uruguay, nel 2000 - al di là dell'esito del governo De La Rua e della natura delle coalizioni di centrosinistra - hanno certamente rappresentato un'insostenibilità diffusa del neoliberismo e una volontà di realizzare un cambio politico. Questa aspirazione, del resto, ha caratterizzato altri appuntamenti elettorali e altre vicende: la vittoria di Toledo, in Perù, presidente indio, simbolo della riscossa contro Fujimori; la tenuta elettorale di Chavez in Venezuela e poi la sua capacità, anche sul piano del consenso di massa, di resistere al tentativo di colpo di stato; la resistenza della guerriglia colombiana, anche di fronte ai tentativi degli Usa di ricreare un clima di guerra a bassa intensità; la formidabile sorpresa rappresentata, poco più di un mese fa, dal risultato elettorale di Evo Morales in Bolivia - dirigente campesino ed esponente del Movimento al Socialismo (Mas) - che lo porterà oggi a concorrere alla carica di presidente della Repubblica; la campagna elettorale brasiliana e la speranza che suscita ancora la candidatura Lula, per la quarta volta in corsa per la presidenza e in testa nei sondaggi. Alcune di queste esperienze si sono rivelate assai distanti dalle attese che avevano suscitato - si pensi al caso Toledo - ma è anche vero che un clima di diffuso antiliberismo attraversa il continente come dimostra ad esempio il successo del Forum di Porto Alegre o, più concretamente, la riuscita delle numerose manifestazioni contro l'Alca, l'area di libero scambio delle Americhe, pensata e voluta dagli Stati Uniti per sottomettere definitivamente il proprio tradizionale "cortile di casa".

L'Alca e il Mercosur
In realtà è proprio l'Alca il soggetto virtuale che presidia le quotidiane vicissitudini dell'economia sudamericana. Gli Stati Uniti tengono così tanto al progetto da aver concesso, fatto inedito per loro, i pieni poteri al presidente Bush in materia di accordi commerciali. Il "fast track" - la prerogativa, approvata ieri dal parlamento Usa e che consente alla Casa Bianca di sottoporre al Congresso accordi commerciali senza che sia possibile modificarli o emendarli - è pensato e voluto in primo luogo per gestire senza ulteriori complicazioni il processo di realizzazione dell'Alca che potrebbe subire un'accelerazione nel vertice dei capi di stato previsto per ottobre a Quito, in Ecuador. Con l'istituzione dell'Alca, gli Usa si propongono di "dollarizzare" il continente latinoamericano e di piegarlo così, automaticamente, alla propria politica monetaria e commerciale. Ecco perché, in un simile progetto, anche l'esistenza del Mercosur - il Mercato comune tra Argentina, Uruguay, Paraguay e Brasile - può risultare contraddittoria. Nato per essere uno strumento di integrazione economica regionale al servizio delle multinazionali e dei mercati finanziari, il Mercosur, nel fuoco della crisi economica e sotto le incognite del progetto Alca, potrebbe essere utilizzato per difendersi proprio dalla crisi. E dunque costituire un intralcio. Di questo hanno discusso agli inizi di luglio i presidenti dei quattro paesi che ne fanno parte, riunitisi insieme a Cile, Bolivia e Messico. Un allargamento non casuale, ma rivolto a decifrare il possibile ruolo dei paesi coinvolti in questa nuova fase di instabilità generalizzata, saggiare le reali intenzioni degli Usa (da qui la presenza del "mediatore" messicano Fox), le possibilità (scarse per il momento, vista anche l'incertezza che caratterizza il quadro politico) di un coordinamento efficace per tamponare la crisi. Al di là dei risultati e dei successi, possibili o no, la situazione resta incardinata in uno schema ben preciso: gli Usa, utilizzando il braccio finanziario del Fmi - in questi casi vero e proprio braccio armato - hanno tutto l'interesse a scompaginare un quadro sociale e politico che rischia di sfuggire al loro controllo. Questa opera di destrutturazione avviene a tutto campo: disarticolando le economie nazionali, minando gli accordi sovranazionali, ricattando i possibili attori non allineati, costruendo, dentro al dramma della crisi sociale, un clima di guerra civile permanente. Nello stesso tempo in cui l'attenzione del mondo è tutta puntata alla prossima guerra contro l'Iraq, gli Usa combattono, con armi più soft, ma ugualmente distruttive, una guerra nel vecchio cortile di casa. Una guerra il cui esito non è scontato, anche per la presenza di una vivace resistenza antiliberista, e che comunque ormai non riguarda più solo gli Stati Uniti.



11 SETTEMBRE 2001: TRAUMA GLOBALE E INCONSCIO COLLETTIVO

di Ciccio Radar ((cr))

E’ indubbio che la distruzione delle Twin Towers di NY abbia decisamente segnato uno spartiacque dal punto di vista geopolitico. E’ altrettanto manifesto che tale evento ha scatenato una serie di conseguenze in mille altri campi della vita di tutti i giorni, e questo soprattutto in virtù della valenza psicologica di un accadimento simile. Alle implicazioni politiche, militari e genericamente “sociali” potrete trovare riferimenti più o meno sinceri sui vari mezzi di comunicazione. Quello che più mi preme in questa sede è tentare una lettura delle ripercussioni sulla psiche individuale, ma non solo, dell’attentato dell’11 settembre 2001. Il mio tentativo non solo intende sottolineare fin dall’inizio la valenza globale degli accadimenti di cui stiamo trattando già che, banalmente, anche al profano giornalista di tutto il mondo non è mancata l’occasione di precisare come si sia trattato dell’attacco a un simbolo: ricordiamo, in particolare, come i network statunitensi trasmettessero la cronaca diretta con sottotitolo “Attacco all’America”. Sul fatto che sia stato un attacco agli USA mi pare che non ci possano essere dubbi; ma non basta: più precisamente, si è trattato di un’ azione volta a distruggere, appunto, il simbolo non solo di una nazione, ma di un’idea, di una cultura, di una parte rilevante del mondo. E’ stata la pietra miliare della lotta ben chiara e ben definita di una rappresentazione della realtà contro un’altra, speculare ed opposta. Se dal punto di vista militare si insiste, giustamente, nel dire che quella tra la coalizione contro il terrorismo e i terroristi islamici è una lotta asimmetrica, dal punto di vista della comunicazione e, diciamolo, della propaganda, non vi è nulla di più simmetricamente definito: è iniziata la lotta tra il Bene e il Male. Questo è il messaggio. In un’ottica psicologica, l’ 11 settembre scorso sono stati messi in gioco concetti quali inconscio collettivo, simbolo e, perché no, di archetipo Jungiano, in quanto indubbiamente la società ha iniziato a “girare” in modo diverso. Ciò che ha reso possibile tutto ciò non è stato tanto l’evento in sé ( che, comunque non è certo da sottovalutare!!), ma la rilevanza impressagli dalla comunicazione globalizzata, ormai parte della nostra vita quotidiana. E di questo si sono accorti, per primi, gli autori stessi della strage. Centinaia di milioni di individui, per non dire miliardi, con lo sguardo fisso su quelle immagini mitizzate: così è venuto meno il confine interno che permette di differenziare il mondo delle immagini dalla realtà. Una tale cassa di risonanza globale ha reso possibile la realizzazione del più vasto “trauma globale “ della Storia. Per dare un’ idea, nemmeno la due Guerre Mondiali hanno provocato una trauma così diffuso, simultaneo e simile su una popolazione così vasta. Ecco quindi che si presenta l’altro concetto psicologico particolarmente interessante dal punto di vista della nostra analisi: il “trauma”. Il concetto indica un evento al di fuori dell’atteso scorrere dell’esperienza umana, in grado di causare reazioni di intensa paura, impotenza od orrore. Al trauma si legano indissolubilmente manifestazioni quali ricordi intrusivi , in grado di modificare la nostra corretta percezione della realtà ( qual è la prima cosa a cui avete pensato quando un piccolo aereo da turismo si è schiantato sul Pirellone a Milano?). Altra caratteristica del trauma è l’ipervigilanza eccessiva (vi è capitato di viaggiare, dopo l’11 settembre?). Il terzo fenomeno legato al trauma è, fatalmente, l’ inerzia da terrore. Tutti questi fenomeni accadono ora su scala globale, ovvero si manifestano in modo assolutamente simile in quella metà del pianeta la cui visione del mondo è stata attaccata dagli eventi dell’undici settembre. Una scissura sempre più ampia si va delineando sulla linea dell’ orizzonte, la deriva dei mondi è iniziata, e le cause sono probabilmente assai antecedenti al settembre scorso. La reazione violenta al trauma può solo aggravarne la sintomatologia e impedirne una regressione adeguata. E’ quindi assolutamente necessario riflettere sulla vastità della situazione, sulle implicazioni più varie e inattese di questa fase di evoluzione dell’umanità, cogliendone il più possibile la complessità. La parola, e quindi il dialogo, rimangono la strada maestra per arrivare alla risoluzione, come è giusto che sia in quello che altro non è che un percorso terapeutico su scala mondiale. L’intuizione Jungiana di un inconscio non statico, non semplice istanza della psiche, bensì funzione della personalità, si rivela oggi quindi particolarmente attraente. L’ elaborazione dell’inconscio collettivo, le sue interazioni simboliche con gli archetipi, rappresentazioni di un substrato socio culturale critico e criticato, aprono la porta ad affascinanti dissertazioni ed esplorazioni del comportamento umano e delle masse oggi come mai particolarmente necessarie.

M.C. ((cr))








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