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FERMATE QUESTO SHOW

di Fabio Fazio

da "Diario"

Quello che trovo insopportabile è la perdita di tempo, la perdita del nostro tempo. Invece siamo costretti – ciascuno per la propria parte – a ribadire concetti e a difendere diritti che speravamo davvero fossero acquisiti e persino scontati. Anziché occuparci del nostro futuro, delle nostre speranze, dei nostri sogni, del nostro progresso, ci vediamo costretti a difendere quello per cui già altri avevano lottato. La televisione è una sorta di internet ante litteram, cioè una riproduzione del mondo virtuale e quindi non necessariamente fedele. E spesso controllare la rappresentazione è più importante della realtà. Quello che dobbiamo sinceramente domandarci, è se in un Paese democratico il fatto che il presidente del Consiglio possieda, seppure «meramente», tre reti televisive e ne controlli di fatto altre tre, sia tollerabile oppure no. Perché se è tollerabile, allora il problema non esiste. Ciascuno torni serenamente alle proprie occupazioni, si sciolgano i girotondi e non se ne parli più. Se invece questo è davvero un problema, allora non si può tacere. Le storture che questa situazione determina sono evidenti tutti i giorni: liste di proscrizione, veti, controllo stringente sulla programmazione. Se dunque il problema c’è, forse è davvero il momento che a occuparsene torni la politica. I cittadini, con le manifestazioni di queste settimane, hanno indicato questa urgenza in modo che più palese non si può. Ora tocca alla politica capire che è finito il tempo degli accordi, della colleganza che facilmente può essere confusa con la complicità e che da un momento all’altro potrebbe vanificare gli sforzi fatti dai «volontari della protesta». Degli errori commessi negli anni passati se n’è detto talmente tanto che non se ne può più. Sono probabilmente veri ed enumerarli ogni volta non credo sia più utile. Occorre invece capire cosa si può fare adesso. Una cosa che si capirà presto, per esempio, sarà la vera volontà della televisione pubblica di fare concorrenza a Mediaset. La partita si gioca soprattutto sugli introiti pubblicitari. Non a caso Umberto Eco indica proprio nell’investimento pubblicitario uno strumento di forte pressione in una situazione come questa. Su questo fronte, una tv pubblica troppo educata, perbene e pedagogica farebbe la felicità della tv commerciale. La «tv intelligente» coincide con tutti i generi che oggi possiamo vedere sulle emittenti a pagamento, che non spaventano la tv commerciale. Quello che mi auguro è di vedere una tv pubblica fatta con intelligenza, che è cosa molto diversa. Non è mai un problema di genere: il genere è quello televisivo, e ce n’è uno solo. Il problema è come si fanno le cose. Perché le cose cambino ci vuole più tempo di quello che i nostri desideri auspicherebbero. Probabilmente solo una vera e propria competizione fra soggetti televisivi diversi potrebbe cambiare il sistema. L’ho sempre pensato, l’ho dimostrato aderendo al progetto di La7, che tuttora ritengo giusto. L’appuntamento, secondo me, è solo rimandato. Le proteste di queste settimana hanno avuto il merito di portare il dibattito nelle piazze vere, non in quelle finte dei talk show. Se davvero è arrivato il momento dell’indignazione, io da cittadino mi auguro che chi ci rappresenta non vada a manifestare indignazione nelle piazze televisive. La Rai in tutti i questi anni mi ha insegnato che la tv pubblica è il posto di tutti, per tutti, dove è doveroso far crescere il dibattito e il confronto con idee diverse dalle proprie. Per alcuni è scandaloso che si parli del libro di Marco Travaglio su Berlusconi nella trasmissione di Luttazzi: vorrei ricordare che per altri sarebbe scandaloso se non se ne parlasse. Alla diffusa domanda del perché pagare il canone se la Rai ha la pubblicità, io mi sono sempre dato la seguente risposta: non è solo un dovere ma un diritto, il diritto di «comprarsi» un posto che non abbia mai un padrone da cui prendere ordini. Vorrei poter continuare, per l’immediato futuro, a darmi l’identica risposta. Questa è l’unica funzione che riconosco come definizione di televisione pubblica.



CONCEPITO VERSUS MADRE

di Elettra Deiana

da "Liberazione" del 11.06.02

Arriva in aula alla Camera, la settimana prossima, la legge 47, sulla procreazione medicalmente (PMA) assistita. Si chiama così ma con il problema enunciato la proposta non ha proprio nulla a che vedere. E' infatti una legge che mira a ristabilire un ordine autoritario e misogino sul corpo delle donne, stabilendo modelli familiari da seguire per chi voglia accedere alla PMA e imponendo il controllo pubblico sulla capacità riproduttiva e sulla sessualità femminile. In questo modo sarà ridotta la libertà di tutte e tutti in materia di responsabilità personale e si imporrà un'insopportabile funzione etica dello Stato. Sarà anche minata in radice la legge 194, quella che regolamenta l'interruzione volontaria di gravidanza, riconoscendo il principio dell'autodeterminazione femminile. La proposta legge 47 ripropone, nelle linee essenziali e in molti aspetti specifici, lo sciagurato testo approvato dalla Camera nella scorsa legislatura e poi bloccato e lasciato decadere al Senato. La Lega di Bossi ha fatto di tutto perché il testo tornasse in aula con procedura urgente, impedendo che la discussione si svolgesse con tempi e modalità adeguate in commissione Affari Sociali. Non a caso il capogruppo leghista alla Camera è il famigerato Cè, quello che nella passata legislatura presentò l'emendamento sul riconoscimento dell'embrione come soggetto, aprendo così la strada allo stravolgimento completo del già negativo articolato di legge presentato in aula dalla diessina Marida Bolognesi, allora presidente della commissione Affari Sociali. La scelta di portare in aula quel testo, illudendosi che intorno ad esso reggesse la maggioranza ulivista - i popolari invece votarono molti degli emendamenti dell'allora opposizione, a cominciare proprio da quello del riconoscimento dell'embrione - fu quanto mai inopportuna e superficiale. Le cose vanno dette con grande chiarezza, soprattutto nel momento in cui la Casa delle libertà, avvalendosi della sua maggioranza in Parlamento e della subordinazione agli accordi di potere dei suoi parlamentari, nonché di un articolo del regolamento della Camera che permette la corsia preferenziale per proposte di legge già approvate da un ramo del Parlamento, può in tempi brevi imporre al Paese una legge oscurantista e regressiva come poche altre. La funzione di una legge Intorno a una materia così complessa, che, per ragioni etiche, riferimenti culturali profondi, complessi meccanismi antropologici, così prepotentemente chiama in causa punti di vista radicalmente diversi sul mondo e sulla vita, per di più in un Paese come l'Italia, dominato dall'invasiva presenza della Chiesa cattolica nella vita pubblica e dai diktat etico-morali del Vaticano, sarebbe stato necessario - rimane necessario - limitare al massimo il ruolo del Parlamento, puntando soprattutto - come il Prc ha tentato di fare - a un regolamento ministeriale che stabilisca criteri medico-scientifici utilizzabili in maniera omogena dalle regioni per il funzionamento dei centri e per le qualifiche professionali degli operatori nonché meccanismi di informazione e trasparenza delle tecniche e dei possibili risultati e rigorose garanzie per la salute delle donne che accedono alla maternità medicalmente assistita. La legge, in uno stato di diritto, vale - dovrebbe almeno valere - erga omnes, cioè per tutti e tutte. Non può dunque la legge fondarsi su presupposti etici, per di più in una materia così complicata e riservata - scelte di vita, sessualità, famiglia e via discorrendo - che sono, per loro stessa natura, frutto di percorsi, scelte personali e dunque di orientamenti etici intrinsecamente parziali. E' un principio fondamentale, costitutivo della modernità giuridica, quello che stabilisce che non Ë compito del diritto affermare o rafforzare una determinata morale. Qui siamo invece alla negazione totale di questo principio. In linea e sintonia, d'altra parte, con quanto la Casa delle libertà sta facendo di tutti i principi di civiltà che la Costituzione italiana ancora garantisce almeno sulla carta. Il primato dell'embrione La norma più grave della proposta di Dorina Bianchi è quella, contenuta nel primo articolo, di voler assicurare "il diritto a nascere del concepito". Il vizio di questa norma è di quelli radicali, perché rimette in causa i fondamenti del diritto moderno. Con essa si vuole in buona sostanza attribuire al concepito, sia pure in maniera indiretta, la qualità di persona, imponendo per legge la bandiera ideologica del "soggetto debole", da sempre agitata ipocritamente dal Movimento per la vita, nella sua crociata contro la legge 194. In nome della tutela del soggetto più debole, il concepito appunto, si introduce una scissione nel e del corpo materno, ridotto a due soggetti, negato quindi in quello straordinario unicum biologico, psichico-esistenziale, culturale-antropologico che rende possibile la gravidanza e la nascita. Il concepito-feto-nascituro è tale ed è assicurato alla vita soltanto dal desiderio, dalla scelta, dalla volontà della donna. Così è nei fatti, anche su un terreno arduo e ancora in larga misura inedito come quello della maternità medicalmente assistita. Ma predisponendo in legge il diritto alla nascita del concepito per via di maternità assistita, oltre che ridurre il corpo femminile ancora una volta a inerte contenitore biologico, oltre che, in prima battuta, introdurre il monstrum giuridico di una disparità di trattamento tra chi nasce per "via naturale" e chi per via assistita, si vuole in realtà predisporre la condizione per una più generale affermazione del primato dell'embrione sulla donna. Ciò avverrà in termini di diritto: il soggetto "concepito" contro il soggetto donna; di modelli di vita: la coppia sposata o al massimo stabilmente convivente contro il diritto di ogni donna a essere madre, al di là del modello familiare che sceglie nella sua vita; di salute: il divieto di produrre più di tre embrioni, che devono essere trasferiti tutti contestualmente nell'utero della donna e il divieto di aborto selettivo in caso di gravidanza plurigemellari, quindi anche nel caso di embrioni malformati. Vietando inoltre alle donne single l'accesso alle tecniche si afferma implicitamente che l'omosessualità è un impedimento giuridicamente rilevante. La tutela del nascituro diventa così anche lo strumento per stigmatizzare la sessualità. L'attacco alla 194 Sono questi soltanto alcuni dei passaggi più orripilanti della proposta di legge che l'esponente dell'Udc, Dorina Bianchi, ha avuto modo di illustrare nella discussione generale già avvenuta in aula e che da oggi saranno sottoposti al voto. Sono questi anche i passaggi decisivi che, una volta approvati, renderanno facilissimo aggredire la 194. Infatti, affinché "il soggetto più debole" goda di protezione sempre, al di là di come sia stato concepito, occorre che sempre la donna venga deprivata di quel principio di responsabilità rispetto al proprio corpo che la legge le riconosce. E' proprio il principio dell'autodeterminazione ad affollare di incubi misogini le fantasie delle parti più retrive - purtroppo ancora troppo numerose - di una società intrisa di patriarcalismo come la nostra. O di una società come quella a cui lavora la Lega Nord, che si vede accerchiata e inquinata dagli immigrati, indebolita dal calo demografico, vogliosa quindi di una nuova stagione di nascite schiettamente padaniche. O almeno italiche. Ed è dunque sulla 194 che bisogna accanirsi, come già il ministro Sirchia ha avuto modo di annunciare. La legge non è soltanto inaccettabile: sarà anche, se dovesse essere approvata, inapplicabile, perché favorirà la ricerca dei modi per eluderla - dal "turismo procreativo" alla clandestinità - producendo, come sempre, odiose discriminazioni in ragione delle diverse condizioni sociali e delle diverse opportunità culturali delle donne e delle coppie. Insomma, un orrore di legge. Da combattere duramente nelle aule del Parlamento e soprattutto fuori, nella società, nei movimenti, tra le donne e gli uomini che hanno ancora a cuore civiltà giuridica, convivenza sociale, responsabilità politica.



CHI HA UCCISO CARLO GIULIANI?



da "Bengodi.org"

L’ultima perizia dice che Carlo Giuliani è stato ucciso da un colpo di rimbalzo, un colpo sparato in aria dal Carabiniere Mario Placanica, rimbalzato contro l’estintore (o contro una pietra in volo) e finito contro la testa del ragazzo genovese… ma prima di tirar fuori questa perizia i periti avevano provato una serie di altre ricostruzioni…


nella foto si vede CHIARAMENTE il carabiniere sparare in aria...
1. Carlo Giuliani è morto per un malore attivo che lo ha colto in Piazza Alimonda e lo portato ad affacciarsi dal defender dei Carabinieri… proprio come l’anarchico Pinelli secondo la Questura di Milano nel 1969.
2. Carlo Giuliani è morto per un cedimento strutturale, proprio come l’aereo di Ustica secondo Cossiga nel 1980.
3. Carlo Giuliani è stato ucciso da un colpo rimbalzato sette volte: sul defender, sull’estintore, sullo scudo di una tuta bianca, sul manganello di un poliziotto, sulla kefia di un leonkavallino, sull'immagine del Che Guevara della maglia di un manifestante, e infine di nuovo sull’estintore che aveva in braccio… proprio come la commissione Warren stabilì che fece il colpo sparato nel 1968 da Lee Osvald e che uccise John Fitzgerald Kennedy.
4. Carlo Giuliani è stato ucciso da un giovane che aveva pagato per una prestazione sessuale… proprio come dissero di Pier Paolo Pasolini
5. Carlo Giuliani è morto per cause naturali, come dissero di Papa Luciani e di Breznev
6. Carlo Giuliani si è suicidato, proprio come dissero che avevano fatto Peppino Impastato e Gian Giacomo Feltrinelli
7. Carlo Giuliani è morto per lo scoppio di una caldaia, proprio come dissero era successo a Piazza Fontana il 12 dicembre del 1969…
8. Carlo Giuliani è morto di raffreddore, proprio come dissero che era successo ad Andropov
9. Carlo Giuliani è morto impiccato sotto un ponte di Londra, proprio come Calvi
10. Carlo Giuliani è morto per incidente aereo, come Enrico Mattei, l’ex presidente dell’ENI.
11. Carlo Giuliani è stato ucciso, ma lo meritava, in fondo se l’è cercata… proprio come Gesù, Ghandi, Martin Luther King, Falcone, Borsellino, Mons. Romero, e tutti gli altri…



CINEMA: DANCER IN THE DARK

di Marco Lodoli

da "Diario"

Quando uno cade può trovare qualcun altro pronto a dargli una mano. O, almeno, è ciò che accade nei musical Senza menare cani per l'aia, va subito detto che Dancer in the dark è il miglior film dell'anno. Lars von Trier ha saputo far convergere terre lontanissime, la denuncia e il musical, l'agiografia e l'orrore, il cinema verità e l'invenzione fantastica, in un terremoto che fa tremare le vene. Tutto si tiene in equilibrio sulle spallucce di Björk, capace di dare corpo e voce a un personaggio di santa contemporanea che rimarrà per sempre nella memoria, come rimangono nel portafoglio certi santini che non vogliono proprio farsi perdere. "La vera felicità è impossibile senza la solitudine", scriveva Cechov ne La corsia numero 6, "e l'angelo caduto tradì Dio probabilmente perché desiderava la solitudine che gli angeli non conoscono". La solitudine non è egoismo, è solo la volontà di concentrarsi sul proprio destino, senza disperderlo nei rivoli di una socialità fasulla. Così Selma, il personaggio centrale del film, accetta fino alla morte la propria dolorosa solitudine perché sa che soltanto seguendo il suo istinto potrà regalare luce agli occhi tramontanti di suo figlio, colpito dalla stessa malattia che la sta accecando. Per mettere da parte i soldi necessari all'operazione, Selma lavora furiosamente notte e giorno, come una talpa nel suo cunicolo, scavandosi un percorso di sopravvivenza con le unghie e con i denti. Non è mai triste, perché sa che il suo sacrificio porterà fuori dal nero del tunnel quel bambino tanto amato. Davanti a sé ha un mondo di pietra che pare inscalfibile: la fabbrica dove conta solo tenere il tempo della produzione; vicini di casa che paiono amici e sono pronti a derubarla; l'ingiustizia della legge che colpisce senza pietà. Eppure lei non cede d'un millimetro, e anzi grattando e sperando procede verso la luce. Sarebbe una storia da libro Cuore, commovente, terribile e forse banale, se Lars von Trier non ci aggiungesse una variante geniale: Selma ama i musical e ogni tanto la galleria buia del mondo si trasforma in un teatro meraviglioso dove lei canta e tutti ballano seguendo il ritmo poetico della musica. Così la fabbrica, la ferrovia, il tribunale, il carcere e persino il braccio della morte prendono una vita nuova, cancellano il loro orrore sotto le ruote, i salti e gli incroci di una coreografia danzante, e le note trasportano tutto in un mondo più nobile, più buono. La grande intuizione è aver capito che il musical non è solo un mondo fatato di ballerini e di pailletes, una bella bugia che ci distoglie dallo schifo della vita. Nel testo di una canzone Selma afferma chiaramente cos'è che la affascina nei musical: è che quando cadi c'è sempre qualcuno che ti sorregge. La donna scivola indietro e un braccio forte la sostiene. Dunque il musical è solidarietà euritmica, compassione scintillante, catena umana che brilla e non si spezza mai. Il giovane Holden raccontava che avrebbe voluto essere l'acchiappatore nella segale, cioè uno che afferra la gente prima che precipiti nel burrone. Quello era un mestiere giusto per chi ama la vita. In Selma c'è lo stesso desiderio. Anche lei vorrebbe che ci fosse sempre una mano a sostenere chi osa e si slancia a chi è sconfitto e cade. Ma questo succede solo nel cielo delle illusioni, là dove la gente balla e canta all'unisono, in un'armonia perfetta e pietosa, in un comune sentire. Nella realtà nessuno sostiene chi ha perduto, e anzi sotto ai piedi di Selma, piedi umiliati e offesi che non hanno conosciuto un attimo di musica vera, il mondo infame apre la botola del patibolo, affinché la corda s'allunghi e il collo da uccellino si spezzi. Vediamo Selma appesa a quella fune assassina, sappiamo che suo figlio sarà operato agli occhi e vedrà, e il film finisce così, tra la disperazione e la speranza. Quando usciamo dalla sala troviamo il solito disordine, gente che viene e che va distrattamente. Vorremmo che tutti si mettessero a ballare le musiche di Selma. Vorremmo che nessuno cadesse da solo nel silenzio mostruoso dell'indifferenza. n

Cinevisioni Dancer in the dark regia: Lars von Trier sceneggiatura: Lars von Trier fotografia: Robby Müller scenografia: Karl Juliussen costumi: Manon Rasmusen montaggio: Molly M. Stensgaard, François Gedigier interpreti: Björk, Catherine Deneuve, Peter Stormare, David Morse distribuzione: Istituto Luce Dan/Fra 2000 3 novembre 2000



CHECK POINT AL PORTICO D'OTTAVIA?

di Marina Del Monte

da "Carta.org"

Quanto è successo domenica a Vittorio Agnoletto e ai compagni presenti alla riunione presso il "Rialto S. Ambrogio", per mano di esponenti della comunità ebraica romana che fanno riferimento alla lista più oltranzista vittoriosa alle ultime elezioni, è inaudito. La presenza del rappresentante unitario del "movimento dei movimenti" al Portico d'Ottavia, in pieno quartiere ebraico, è stata considerata una provocazione, paragonata addirittura, nelle agenzie di stampa successive, alla passeggiata di Sharon sulla Spianata del Tempio a Gerusalemme. In quanto ebrea pacifista, comunista, presidente di un'associazione per la difesa dei diritti delle persone Hiv+, rimango incredula, allibita, confusa. Mi sembra evidente, infatti, come ad essere provocato sia stato, ancora una volta, Vittorio Agnoletto, colpito profondamente nel suo ruolo di difensore dei diritti umani delle minoranze. Conosco personalmente Vittorio, ho avuto modo di stimarlo dapprima nel suo ruolo di ricercatore scientifico, presidente della Lega italiana per la lotta all'Aids (Lila), quindi come rappresentante del movimento italiano nel consiglio internazionale del Social forum mondiale contro la globalizzazione dei profitti, contro un mondo dominato dall'economia in assenza di regole politiche democratiche. Ricordo di aver incrociato il suo sguardo deluso di fronte alla pioggia dei lacrimogeni e alle cariche della polizia a piazza Dante, a Genova, contro una folla colpevole soltanto di manifestare pacificamente la propria opposizione al nuovo ordine globale. Ricordo i suoi inviti a tutti noi alla calma, a non reagire alle provocazioni, dopo la morte di Carlo Giuliani. Non è nuovo, Vittorio, ad attacchi del genere: oggi da parte della comunità ebraica romana, ieri per mano della polizia israeliana, non più di qualche mese fa ad opera di esponenti della destra al governo che arrivarono a denunciarlo per istigazione all'uso di droga, a causa delle campagne di prevenzione promosse dalla Lila per ridurre i danni correlati all'abuso di sostanze. Nel frattempo, i ministri Maroni e Sirchia, ritenendolo scomodo, pensarono bene di rimuoverlo dal coordinamento nazionale contro la droga e dalla commissione nazionale di Lotta all'Aids. A stare dalla parte dei diversi, lo si diventa un po'…anzi, un bel po'. Penetrare fino in fondo la sofferenza, la miseria, del singolo individuo come dei popoli, non lascia indenni; l'immedesimazione è totale, si riesce a sentire, per empatia, sulla propria pelle quanto brucino il pregiudizio, le angherie, le violenze praticate sugli esclusi. Ho sempre ritenuto che la mia appartenenza all'ebraismo in qualche modo mi predisponesse nei confronti della diversità: sentirsi "diversi" fin dall'infanzia, difendere la propria ebraicità dall'assimilazione, conoscere la storia del proprio popolo, aver avuto in famiglia persone deportate dai nazifascisti; sono convinta che tutto ciò rappresenti un patrimonio insostituibile nel lavoro che svolgo quotidianamente contro l'esclusione sociale, come psicologa, come volontaria, come dirigente politico, sempre impegnata nel tentare di dare voce a chi non ne ha, ai diversi, agli oppressi, agli esclusi. Appartengo alla comunità ebraica romana, ma sono oggi costretta a vergognarmene. Non riconosco il mio popolo in chi si macchi di violazioni così gravi ai diritti umani; in chi opti per la strada della violenza, abbandonando quella, più impervia, del dialogo; in chi, preda di una patologica immedesimazione con le politiche del governo Sharon, dichiari l'impenetrabilità del quartiere ebraico a chiunque osi dissentire, erigendo un nuovo muro attorno al Ghetto, il muro dell'incomunicabilità. Arriveremo a dei Check Points che blocchino l'accesso al Portico d'Ottavia ai dissidenti? Non mi meraviglierei se alcuni dei neo-eletti consiglieri della comunità romana arrivassero a tanto. Sento messo in discussione anche il mio diritto di accesso al quartiere ebraico: sicuramente meno nota di Agnoletto, ne condivido però, anche in quanto ebrea, le battaglie per la costruzione di un nuovo mondo, basato sulla difesa del diritto a un'esistenza dignitosa di quanti vengono oggi dimenticati dalle incalzanti logiche economiche del neoliberismo. Pur consapevole di quanto possa essere oggi isolata la mia voce, chiedo alla comunità ebraica romana di porgere ufficialmente le proprie scuse al dott. Agnoletto. Nel frattempo, prego Vittorio di accettare le mie, a nome di quanti, seppur ebrei, non si riconoscono nei metodi vigliacchi e fascisti utilizzati da schegge impazzite dell'ebraismo.



MENO LIBERTA' E MENO SICUREZZA, A CHI E' SERVITA LA GUERRA AFGHANA?

di Buenaventura

da "Nonluoghi.it"

Nessuno mette in dubbio che l'allarme terrorismo internazionale è giustificato e grave. L'orrore dell'11 settembre ne è la più tragica e lampante conferma. Ma si ha la sensazione che alcuni poteri tendano ad approfittare del momento per stringere le maglie dell'autoritarismo e militarizzare ulteriormente la società. Un sospetto che è emerso, pure in qualche giornale americano, anche dopo l'arresto di un cittadino Usa accusato di aver pianificato un attentato devastante con l'uso di una bomba "sporca", cioè radioattiva. Oggi parte della stampa Usa, pur senza negare che la situazione sia realmente di emergenza e che le contromisure necessarie, getta qualche ombra di dubbio sull'annuncio fatto in pompa magna in diretta tv dal ministro della giustizia John Ashcroft: "Grazie alla collaborazione tra Cia e Fbi, abbiamo sventato un attacco agli Stati Uniti". L'arrestato è un ispanoamericano, Jose Padilla, 31 anni, pregiudicato, che da una decina d'anni si è convertito all'Islam e da tempo si trova spesso all'estero. Il presidente Usa, George W. Bush, si è precipitato a dichiarare l'uomo, arrestato all'aeroporto di Chigago l'8 maggio mentre tornava dal Pakistan, un "combattente nemico" per poterlo così consegnare alla corte marziale e al carcere militare, dove si trova da due mesi senza una precisa incriminazione e dove - parole della stessa amministrazione Usa - potrebbe rimanere senza una scadenza certa. Contro di lui ci sarebbero, fondamentalmente, le accuse di un terrorista di al Qaida e non meglio precisati piani di attentati sui quali Cia e Fbi avrebbero messo le mani. Ma a quanto pare non ci sono prove e, soprattutto, di materiale radioattivo neanche l'ombra (e pensare che oggi, alla radio italiana, una giornalista, intervistando un esperto di armi, ha parlato "dell'ordigno sporco trovato nelle mani dell'arrestato"), tanto che anche sulla stampa Usa si sono sollevati diversi interrogativi sullo stato di diritto minacciato da alcune iniziative del governo. Gli stessi interrogativi che da mesi vengono sollevati da numerose associazioni in difesa dei diritti civili che denunciano le iniziative dell'amministrazioen Bush che, nel quadro dell'emergenza terrorismo, tendono a rendere tutto e tutti oggetto di controlli e di trattamenti non sempre rispettosi dei principi del diritto e tantomeno della privacy. Lo stesso New York Times parla oggi, in un'analisi di Adam Liptak, di un "sacco di domande e di contraddizioni giuridiche". In un altro articolo il giornale della Grande Mela osserva che l'annuncio dato dalla Casa Biianca circa il nuovo arresto e gli attentati sventati arriva in un momento particolare e diventa un chiaro avvertimento indirizzato a chi, nel Congrersso, sta lavorando all'inchiesta sulle carenze di intelligence che hanno reso possibili i tragici eventi dell'11 settembre 2001. Allo stesso tempo, osserva ancora il NYT, con il rinnovarsi dell'allarme terroristico, si ricompatta la società Usa dietro il presidente Bush. Il giornale non manca di ricordare la serie di attentati o di allarmi concreti degli utlimi mesi, tuttavia osserva che nel caso in questione si accusa Padilla di voler mettere in atto una missione terroristica che dipendeva da qualcosa di cui l'uomo non disponeva: materiale nucleare. Osservazioni che paiono decisamente fondate. Qui nessuno, naturalmente, intende rinunciare al massimo potenziale disponibile per contrastare la minaccia - purtroppo reale ma anche con molti lati torbidi - del terrorismo internazionale; tuttavia, è evidente che emergono questioni politiche e giuridiche non di poco conto quando i prigionieri di guerra vengono dichiarati terroristi (come i detenuti nella base di Guantanamo) e i presunti terroristi prigionieri di guerra per sbatterli in un carcere militare (come Jose Padilla, passaporto Usa). La restrizione delle libertà civili e la violazione di alcuni principi basilari dello stato di diritto sono un rischio quantomai concreto, tanto più se si considera che il clima sociale non sembra più di tanto ostile a virate autoritarie nel nome della lotta al terrorismo. In altre parole, l'oscurantista paranazista Osama Bin Laden e i suoi adepti (che hanno in mente un orribile Stato dogmatico-religioso-poliziesco-autoritario-totalitario) otterrebbero indirettamente e paradossalmente un risultato dopo l'11 settembre: ricacciare indietro le conquiste della civiltà occidentale, della libertà e della democrazia, dell'inviolabilità dei diritti individuali. Lo confermano alcuni sondaggi diffusi negli Stati Uniti. Il Washington Post ne pubblica uno secondo il quale l'80% degli americani è favorevole allo scambio tra "libertà e sicurezza". Dallo stesso sondaggio emerge che quasi la metà dei cittadini si sente direttamente minacciata dai terroristi. Un intervistato su tre è favorevole all'introduzione di procedure che semplifichino per le autorità le intercettazioni delle telefonate e dei messaggi di posta elettronica. Due terzi del campione è invece a favore dell'introduzione di una carta d'identità (che indichi anche le impronte digitali), nonché di una maggiore presenza di agenti di polizia negli edifici pubblici. Gli intervistati si dicono in maggioranza consapevoli delle violazioni della privacy che tutto ciò può comportare ma lo ritengono il male minore di fronte alla minaccia terroristica. In questo quadro nasce una breve riflessione. Che siano passati ormai molti mesi dall'attacco all'Afghanistan e che al Qaida venga ritenuta dagli Usa ancora un nemico potente in grado di far scattare attentati devastanti, dovrebbe far sorgere qualche dubbio sulla bontà della ricetta bellica. Si è scatenato il finimondo in Afhanistan, sono morti anche migliaia di civili, si è messa in moto una macchina bellica di dimensioni gigantesche. Eppure Al Qaida fa ancora paura, come prima e forse più di prima dell'11 settembre. Di Bin Laden e del mullah Omar non c'è ombra. Nell'Afghanistan post-regime islamico-oscurantista-filoterrorista, cioè dopo la cacciata dei nazitalebani, si è data l'illusione di una rinascita, di una riconciliazione, della caduta dei burqa. Invece sono presto ricominciate le lotte fra clan e signori della guerra. E oggi la Loya Jirga, la grande assemblea tribale afghana, ha registrato una frattura e il malcontento di centinaia di delegati che volevano eleggere alla presidenza l'ex re Zahir Shah e invece si sono ritrovati con il candidato unico, il premier ad interim Hamid Karzai, sostenuto dall'alleanza occidentale (Usa-Ue). In fin dei conti, se le cose stanno così; se la minaccia terroristica purtroppo appare forse più forte di un anno fa; se in Afghanistan si rischia una guerra civile; se la transizione pseudodemocratica è eterodiretta dalle grandi potenze, questa guerra sporca in realtà a chi e a che cosa è servita?



GLOBALIZZAZIONE: CATASTROFE ANNUNCIATA. PAROLA DI NOBEL.

da "Repubblica.it"

Nei circoli della New York che conta, l'uomo del momento è un mite professore di economia della Columbia University. Si chiama Joseph Stiglitz, e nel 1993 aveva lasciato l'ovattato mondo accademico per verificare come funzionava l'universo della politica. Per quattro anni è stato consigliere di Bill Clinton alla Casa Bianca. Poi, nel 1997, è stato nominato vice presidente della Banca mondiale, incarico che ha lasciato nel 2001 per tornare a insegnare. Nello stesso anno ha vinto il premio Nobel per l'Economia. Ora, Stiglitz ha deciso di rendere pubblica l'esperienza di questi sette anni in un libro intitolato "Globalization and its Discontents", che tradisce acume e grandi ambizioni. L'opera, che uscirà nelle librerie ai primi di giugno, contiene una radicale critica di come il processo della globalizzazione è stato gestito finora, un appello perché tutto cambi prima che sia troppo tardi, e una ricetta. La globalizzazione, dice Stiglitz, ha portato benefici quasi solo a chi era già benestante. E questo non perché il processo di per sé sia sbagliato, ma perché le sue regole sono state dettate dal Fondo monetario internazionale (Fmi). Questa istituzione, nata nel 1944 a Bretton Woods per l'impulso di John Maynard Keynes, con lo scopo di debellare la povertà e aiutare i paesi in via di sviluppo, ha quindi tradito la sua missione originale. E ha ribaltato l'impostazione del grande economista britannico. Insomma l'Fmi, diretto da uomini di finanza, è oggi ostaggio del "fondamentalismo monetario". I suoi dirigenti e ispettori sul campo sono interessati, sostiene Stiglitz, solo a bilanci e contabilità. Della vita quotidiana della gente, della disoccupazione, a loro non importa niente. D'altra parte le ricette sono spesso sbagliate: per fare alcuni esempi, per effetto delle politiche imposte dal Fondo il Pil della Russia è crollato del 40 per cento, in Argentina c'è stata la catastrofe dell'economia, in tutta l'America latina la gente è oggi più povera. E ancora, nei paesi in via di sviluppo non c'è sviluppo e cresce invece l'instabilità. Errori di finanzieri che credono ciecamente in una dottrina errata? No, risponde Stiglitz. C'è disonestà. Le regole del Fondo monetario, ma anche di altre istituzioni come la Banca mondiale e l'Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) si basano su doppi pesi e doppie misure. Agli Stati Uniti (il principale colpevole degli scompensi della globalizzazione) e ai paesi ricchi si applicano metodi diversi di contabilità dei bilanci, dei deficit e dei debiti, che non a quelli poveri. Le barriere commerciali sono state abbattute nelle nazioni più povere ma gli Usa (e in parte l'Europa) continuano con politiche protezionistiche. E ancora, la liberalizzazione dei mercati di capitale ha reso impossibile qualsiasi politica economica mirata da parte dei governi dei paesi più deboli. Ha reso la loro moneta instabile, finendo per trasformare miliardi di essere umani in vittime degli speculatori e degli investitori dei paesi benestanti. Di fronte a tale catastrofe («preannunciata, bastava dar retta alle ricerche accademiche»), Stiglitz propone un rimedio radicale come le sue critiche. Occorre uscire dall'«ortodossia del monetarismo», sostiene. E, soprattutto, cominciare a governare il processo della globalizzazione. In altre parole, bisogna tornare al vecchio caro metodo e allo spirito di Keynes. I maligni dicono che con il suo libro l'ambizioso e brillante Stiglitz si propone come il Keynes del Ventunesimo secolo.



MONDIALE MARCHE

di Massimo Gramellini

da "La Stampa" del 25.06.02

A chi vuole scommettere qualche euro sulla Turchia campione del mondo (la quotano 10 a 1) gli esperti suggeriscono di aspettare l’esito della prima semifinale. Se Adidas Germania batterà Nike Corea, spiegano testualmente, non c’è la minima speranza che Adidas Turchia possa far fuori Nike Brasile. Mentre una vittoria dei Nikoreani spalancherebbe le porte ai Turcadidas, dato che i due colossi della maglietta sudata e dello scarpino puzzolente hanno diritto a una finalista per uno. Accadde già nel ‘98, dove non fu la Francia di Zidane a strapazzare il Brasile dell’ectoplasmatico Ronaldo, come credettero alcuni miliardi di stolti telespettatori, ma l'Adidas a sconfiggere la Nike, come sta scritto nei testi sacri della pubblicità internazionale. Non è detto che queste cose siano vere, ma è già grave che se ne parli come se fossero normali. E che si consideri senza particolare stupore la possibilità che Adidas Collina non diriga più la finalissima a causa del veto di Corea e Brasile, le gemelline Nike fin qui stracoccolate dagli arbitri. Sarebbe stato meglio che il nostro esimio Crapa Pelata si fosse astenuto dal saltabeccare negli spot del- l’azienda tedesca, ma certi scrupoli appartengono ai dinosauri del moralismo, ormai estinti sotto il crepitio dei dollari che hanno trasformato il Mondiale delle nazionali in quello delle multinazionali. Alle quali possa giungere l’umile suggerimento di un consumatore non (ancora) pentito: o vi date una calmata, oppure fra breve anche i borghesi più placidi si scopriranno tifosi di Agnoletto.



SOPRA IL SANGUE SECCO

di Pietro Valpreda

da "Poesie dal carcere"

Sopra il sangue secco di queste vene saran cessate ormai le mie pene. Dall'oblio e dalla polvere dove mi trovo di queste parole fatene tesoro. Mi voglio rivolgere in questa triste circostanza, a coloro che reggono la dea con la bilancia. Sbagliate nel caso mio a giudicarmi assassino non sarò certo l'ultimo e nemmeno il primo. Nella vostra professione permettersi di errare vuol dire una vita per sempre rovinare. Basta, pare un pazzo o un'illusione per trarre errata la conclusione. Prima di emettere e giudicare vi prego, ogni nulla di voler vagliare. Fate che l'accusa sia limpida e schiacciante che non solo un fato sia determinante. Perché molte volte l'unica verità può essere nascosta da mille falsità. Se nella mente vi sorge un solo sospetto d'innocenza fate che sia lui a emetter la sentenza. Lo scrisse anni or sono Cesare Beccaria, "meglio cento colpevoli liberi purché un innocente in galera non stia" So che soltanto mi crederete quando sgorgar dalle vene il mio sangue vedrete. Il denaro e la morte son le poche verità in cui ancora crede questa società.



GLI AMERICANI E I CRIMINI DI GUERRA IN AFGHANISTAN

di Giovanni Maria Del Re

da "Il Nuovo.it"

Gli americani sarebbero corresponsabili di crimini contro l'umanità in Afghanistan, con un massacro di circa 3.000 talebani a Mazar-e-Sharif. A lanciare la durissima accusa, sia pure con le debite cautele del caso, è il documentario di un giornalista documentarista scozzese Jamie Doran, già corrispondente della BBC e oggi proprietario di una casa di produzione in Gran Bretagna. Doran, che è stato tre volte in Afghanistan negli ultimi mesi, ha presentato alla sede del gruppo parlamentare della Pds (gli ex comunisti tedeschi) un documentario dal titolo "The Massacre of Mazar". Il documentario non è ancora pronto, ma Doran ha voluto presentare lunghi spezzoni per esser sicuro che la cosa non venga messa a tacere. Il documentario mostra anzitutto una grande fossa comune nel deserto non lontano da Mazar - dove vi fu una furibonda battaglia nell'autunno scorso. E presenta la testimonianza di numerosi afghani che lanciano accuse durissime agli americani. Secondo quanto da loro raccontato, gli americani avrebbero ordinato alle forze dell'Alleanza del Nord, vincitrice contro i talebani, di "far sparire" numerosi container carichi di cadaveri degli studenti di Allah, "prima che siano individuati dai satelliti". Non solo: gli autisti dei mezzi che hanno trasportato i container - molti dei quali sono stati intervistati da Doran - sarebbero stati accompagnati da una trentina di marines sul luogo in cui furono sepolti i container. Altro particolare agghiacciante, stando a quanto raccontato gli autisti dei camion, gli americani, giunti nel luogo in cui i container dovevano esser sepolti, avrebbero ordinato di uccidere quanti erano ancora vivi - alcuni talebani sarebbero stati ancora in buona salute. Altri, ancora vivi a Mazar-e-Sharif, sarebbero morti asfissiati nei container durante il viaggio nel deserto. È vera questa storia? Sono credibili i testimoni intervistati? A Berlino Doran è giunto accompagnato da Endy McAntee, un noto avvocato britannico esperto in diritto internazionale e già presidente della sezione britannica di Amnesty International. Entrambi hanno assicurato che i racconti dei testimoni sono apparsi verosimili, e che anzi è stato davvero molto difficile convincere i teste a parlare davanti alla telecamera. Non solo: tutti i testimoni intervistati si sono detti pronti a deporre di fronte a una corte internazionale e di produrre prove, addirittura si dicono pronti a identificare i soldati americani che li hanno accompagnati nel deserto. Naturalmente il giornalista aggiunge che non ci può essere certezza assoluta sulla vicenda. Soltanto, chiede, insieme a McAntee, che sia avviata un'inchiesta condotta dalla Croce Rossa Internazionale o dalle Nazioni Unite. Certo, come ha notato anche molta stampa tedesca, non aiuta Doran il ftto di aver presentato il suo video proprio alla sede della Pds, nota per il suo acceso antiamericanismo. Per ora non si hanno ancora reazioni da parte americana.



INDIA: NIENTE ACQUA? BEVI COCACOLA

Fonte: CorpWatch India

28 Maggio 2002 - Kerala, India. Lo scorso 22 Aprile circa 2,000 indigeni e membri delle caste oppresse si sono riuniti davanti ai cancelli dello stabilimento della CocaCola in Plachimada, nella regione del Kerala. I residenti dei villaggi che circondano l'impianto di imbottigliamento della CocaCola sostengono che l'estrazione dell'acqua di falda ha seccato molte sorgenti, e contaminato quelle rimaste. Fino ad oggi, il governo non ha preso alcun provvedimento per controllare il deterioramento dell'acqua di falda provocato nella regione dalla CocaCola. La polizia ha arrestato diversi manifestanti il giorno della protesta. Un contingente di polizia sorveglia tuttora lo stabilimento per proteggerlo da eventuali minacce della comunita' locale. La CocaCola ha provveduto a fornire quotidianamente acqua trasportata con autobotti ai due villaggi piu' colpiti dalla crisi idrica, ma il gesto non ha impressionato i contestatori. Essi sostengono che la CocaCola dovra' pagare per risanare la falda e ristabilire le forniture di lungo termine ai villaggi colpiti. Un portavoce della CocaCola ha detto: "Non c'e' alcun problema idrico nella regione. Non abbiamo riscontrato alcun cambiamento rispetto al passato. La questione e' stata molto politicizzata." Dall'altra parte, gli abitanti dei villaggi dicono che e' la multinazionale ad essere politicizzata. Essi accusano i leader politici locali di colludere con la CocaCola. A parte l'ala giovanile del Congress Party, nessuno dei partiti politici attivi nei villaggi ha appoggiato la battaglia dei residenti contro la CocaCola. L'impianto di imbottigliamento della CocaCola e' stato costruito tre anni fa nel bel mezzo di fertili terre agricole. Secondo un leader tribale lo stabilimento e' illegale perche' la CocaCola non ha ottenuto il permesso di condurre attivita' non agricole in terre adatte all'agricoltura, cosi' come richiesto dalla legge del Kerala. Data la vicinanza a diversi canali di irrigazione, la regione ha accesso a risorse idriche di falda pulite. Fino a poco tempo fa, la CocaCola estraeva dalla falda 1.5 milioni di litri al giorno. Quest'anno la multinazionale e' riuscita a estrarre solo 800,000 litri al giorno. Il resto proviene da autobotti che trasportano acqua proveniente dai villaggi vicini. Secondo le stime, l'attivita' estrattiva della CocaCola ha inaridito le terre di circa 2,000 persone residenti entro il raggio di 1.2 miglia dall'industria. Gia' sei mesi dopo l'inizio del funzionamento dell'impianto, i residenti e gli agricoltori che vivono attorno cominciarono a notare cambiamenti nella qualita' e nella quantita' dell'acqua. L'acqua di un pozzo appartenete ad una tribu' composta da 100 famiglie che viveva nel lato orientale dell'industria comincio' rapidamente a diventare nerastra. L'acqua non era adatta per essere bevuta, per cucinare o per l'igiene personale. Le donne sono costrette a camminare un chilometro per ottenere l'acqua dai villaggi vicini. Le famiglie che non riescono a fare il tragitto continuano a utilizzare l'acqua contaminata. Recentemente 100 persone hanno segnalato dolori allo stomaco che sostengono siano causati dall'acqua inquinata. Si registrano danni anche all'agricoltura, infatti i pozzi si esauriscono molto prima rispetto al passato. La CocaCola ha risposto alle accuse sostenendo che nessuna legge del Kerala regola l'uso dell'acqua: come la estraggono gli altri, la estraiamo noi, sostiene un portavoce. Alcuni campioni di acqua provenienti dai pozzi di Plachimada sono stati mandati in un laboratorio scientifico approvato dal governo. Secondo i risultati, l'acqua puo' essere classificata come 'durissima'. L'uso di quest'acqua per l'igiene causerebbe nausea. L'acqua, inoltre, contiene alti livelli di calcio e magnesio, risultato del sovra-sfruttamento dell'acqua di falda da parte della CocaCola: la rapida estrazione provoca infatti la spaccatura delle rocce presenti nella falda che liberano calcio e magnesio. Secondo un economista del Madras Institute, in questo caso la comunita' ha perso l'accesso all'acqua per rifornire la CocaCola. Lo stesso e' successo in altri posti dove le industrie privatizzano o inquinano le risorse idriche. In assenza di leggi che regolino l'estrazione di acqua, le persone o le multinazionali abbastanza ricche possono privatizzare intere risorse idriche semplicemente possedendo un piccolo pezzo di terra. In questo modo coloro che hanno le risorse economiche vincono; i poveri perdono. I profitti dell'industria indiana di acqua imbottigliata ha raggiunto i 170 milioni di dollari, e si prevede cresceranno fino a 250 milioni entro il 2004. Mentre le multinazionali pagano prezzi bassissimi per l'estrazione, diversi stati indiani stanno pensando di far pagare il reale costo dell'acqua potabile ai consumatori urbani e rurali.



ISRAELE: "LE NOSTRE MURAGLIE NON SONO SERVITE A NIENTE"

di Michele Giorgio

da "Il Manifesto" del 15.06.02

Dopo mesi di incursioni devastanti nei territori autonomi e un'offensiva distruttiva (Muraglia di difesa) in Cisgiordania, Ilan Ostfeld, analista militare di Bamahane, la rivista ufficiale dell'esercito israeliano, ha esaminato dati e risultati di questo ultimo periodo. «Le statistiche indicano un brusco calo delle attività terroristiche (Israele definisce «terrorismo» tutte le attività, armate e non, dell'Intifada, ndr) in seguito all'operazione Muraglia di difesa» ha scritto Ostfeld. Che tuttavia aggiunge che «sebbene i numeri non possano essere discussi, allo stesso tempo tenendo conto dell'elevato numero di allarmi di nuovi attentati e degli attacchi realizzati, nonché della tensione ancora presente, allora si deve concludere che l'operazione (Muraglia di difesa) non ha eliminato o smantellato le cellule terroristiche. Continuano infatti la preparazione di attentati, l'addestramento degli attentatori, lo sviluppo dei sistemi di reclutamento e, soprattutto, non si sono attenuate le motivazioni (degli attentatori, ndr). Il terrorismo non è tornato dopo l'operazione Muraglia di difesa, semplicemente non è mai scomparso e le organizzazioni (armate) hanno adottato metodi più sofisticati di quelli precedenti». E' una analisi secca del fallimento dell'incessante offensiva contro i palestinesi in Cisgiordania e Gaza, che Ostfeld integra con le valutazione fatte dai vertici militari e che conclude con una previsione: è soltanto questione di tempo ma una nuova Muraglia di difesa è destinata a scattare e con essa la rioccupazione, forse permanente, delle aree autonome palestinesi. Ostfeld è un militare e, in quanto tale, vede nell'uso, sempre più massiccio, della forza l'unica via possibile per fermare l'Intifada palestinese che certo non è, come lui ha scritto, «solo terrorismo». Ma ciò che fa riflettere più di ogni altra cosa è il dato che a sostenere la via militare, persino più dell'esercito, sia il governo di Ariel Sharon. Il fallimento di Muraglia di difesa, ampiamente previsto, avrebbe dovuto portare i leader politici israeliani ad una conclusione logica: non saranno i carri armati a mettere fine alla rivolta palestinese contro l'occupazione - che si manifesta in molteplici forme e non solo in attentati - ma invece l'applicazione del diritto internazionale, delle risoluzioni dell'Onu. In definitiva dando ai palestinesi ciò a cui hanno diritto come ogni altro popolo: l'indipendenza piena e la libertà. Ma questo governo israeliano non è certo nato per firmare una pace con i palestinesi fondata sulla legalità internazionale. E con una Anp semidistrutta, che balbetta e cerca ad ogni costo di recuperare il favore degli Stati uniti, non sorprende che all'orizzonte si sia affacciato un nuovo pasticcio diplomatico destinato non solo a non risolvere il conflitto ma addirittura ad aggravarlo. La soluzione che l'arbitro - non certo imparziale - delle sorti del mondo, il presidente americano George Bush, si prepara ad annunciare tra qualche giorno è la creazione di quello «Stato palestinese temporaneo» proposto nei giorni scorsi dal Segretario di stato Colin Powell e che Arafat e i suoi più stretti collaboratori non hanno respinto. Si tratta di una versione abbellita del «piano» del premier israeliano Sharon che prevede la creazione di uno Stato palestinese nel 42 per cento della Cisgiordania (le attuali aree autonome palestinesi), con confini indefiniti, senza sovranità, senza politica estera e sotto il completo controllo di Israele. Il quotidiano Haaretz ha aggiunto che negoziati futuri sull'assetto definitivo e la nascita di un stato di Palestina «permamente», saranno condizionati al rispetto palestinese di certi «parametri». Giudici della buona condotta palestinese saranno, è ovvio, Israele e gli Stati uniti. La soluzione di Bush, Powell e Sharon è una semplice riorganizzazione, in forma legalizzata e riconosciuta internazionalmente, dell'occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est. Sulla scia di questa «iniziativa» americana si muove il ministro degli esteri israeliano, Shimon Peres, che sta avendo una serie di colloqui con esponenti dell'Anp in merito alla conferenza regionale sul Medioriente. Secondo la radio e il sito on-line del quotidiano Haaretz i colloqui avvengono con il consenso di Sharon che ha però posto la condizione che né Peres né altri esponenti del suo governo abbiano contatti con il presidente palestinese Yasser Arafat. Il ministro e negoziatore palestinese Saeb Erikat non ha smentito i colloqui ma ha negato che rappresentino una ripresa di negoziati veri e propri. Giovedì Peres si era affrettato ad applaudire all'idea della creazione di uno Stato palestinese «provvisorio». Resta, come sempre, in disparte l'Unione europea, allineata alle posizioni di Washington che pure non risolveranno il conflitto in Medioriente. Lunedì Bruxelles dovrebbe peraltro inserire nel suo elenco di «gruppi terroristici» anche il Fronte popolare per la liberazione della Palestina e le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, che già figurano, naturalmente, nella lista statunitense.



PERCHE' GLI ASSASSINI MIRATI DI SHARON NON SONO GIUSTIFICABILI

di Michael Sfard (avvocato penalista israeliano)

da "Il Manifesto" del 22.06.02

Abdel Rahman Hamad era un attivista palestinese di Hamas. Era anche un cliente dello studio legale per cui lavoro a Tel Aviv. Nei primi anni `90 fu arrestato e mandato in diverse strutture militari, dove fu trattenuto in regime di detenzione amministrativa (una procedura preventiva che permette allo stato di detenere una persona senza presentare prove contro di essa e senza contestarle alcun reato, ma che ricade sotto la giurisdizione del tribunale). Nel 1996 Hamad fu accusato di aver ucciso un altro detenuto palestinese sospettato di collaborazionismo. La corte distrettuale di Nazareth lo giudicò colpevole, ma in appello la Corte Suprema di Israele lo prosciolse dalle accuse. Dopo essere rimasto svariati anni in detenzione amministrativa (per la quale non serve alcuna prova di reato) e in detenzione penale (che è stata ritenuta ingiustificata), Hamad è stato rilasciato nell'ottobre 2000. Meno di un anno dopo, mentre era seduto sul tetto della sua casa a Qalqilya, è stato colpito a morte dai cecchini dell'esercito israeliano. Il pubblico israeliano non è stato informato delle prove raccolte dall'esercito contro Hamad, e la sola spiegazione è stata fornita dal portavoce dell'esercito israeliano, che ha rilasciato una dichiarazione accusando Hamad di partecipazione ad attività terroristiche. La politica israeliana di assassinii mirati (etichettata dal governo israeliano come «prevenzione mirata») è diventata negli ultimi tempi una componente centrale nella «guerra contro il terrore». Secondo dati raccolti da due Ong israeliane, il Pcati (Public Committee Against Torture in Israel) e Law - the Palestinian Society for the Protection of Human Rights, 51 palestinesi sono stati uccisi in missioni di «prevenzione mirata», 19 dei quali erano spettatori innocenti compresi 5 bambini. Un ordigno esplosivo che l'esercito israeliano ha ammesso di aver piazzato ha ucciso altre 5 bambini a Gaza. Le modalità degli assassinii, secondo la ricerca, variano e includono squadre di cecchini, elicotteri da guerra, trappole esplosive e artiglieria. In una petizione presentata lo scorso gennaio alla Corte Suprema israeliana da me e dal procuratore Avigdor Feldman per conto di Pcati e Law, è stato chiesto alla corte di dichiarare questa politica illegale e emettere una ingiunzione che vieti la sua attuazione nei confronti di futuri ricercati palestinesi. La petizione è ancora pendente, la corte ha respinto l'argomentazione preliminare sollevata dall'ufficio del Procuratore generale, secondo la quale la materia in discussione sarebbe stata non-giustificabile e così nel prossimo futuro si attende una audizione nel merito. Promuovere una causa contro gli assassinii sponsorizzati dallo stato non è molto difficile dal punto di vista legale. L'illegalità dell'uccisione di palestinesi sospettati di essere terroristi emerge indipendentemente da tre diversi ambiti legali: il diritto penale israeliano, il diritto internazionale per i diritti umani, e le leggi internazionali di guerra e occupazione («Legge Umanitaria»). Secondo la Convenzione di Ginevra relativa alla Protezione di persone civili in tempo di guerra del 1949, a cui Israele ha aderito, una potenza occupante è tenuta a rispettare le vite umane dei civili soggetti a occupazione che si trovano sotto il suo controllo. La potenza occupante ha il diritto di portare in giudizio i civili che realizzano atti di ostilità se essi violano le leggi di guerra (per esempio attaccano i civili). L'unica circostanza in cui i civili sono considerati un obiettivo legittimo per un attacco è quando partecipano direttamente alle ostilità». La politica israeliana di assassinii non soddisfa questa condizione perché le missioni omicide vengono portate a termine contro palestinesi ricercati mentre essi sono a casa, stanno guidando la macchina o stanno andando al lavoro. Il governo israeliano non è in grado di dimostrare che le vittime degli omicidi stavano mettendo in pericolo vite umane nel momento in cui sono state liquidate. La politica degli assassinii è una grave violazione delle leggi di guerra, e dunque un crimine di guerra punibile secondo il diritto penale internazionale. Secondo il diritto penale israeliano i soldati che compiono missioni omicide, i comandanti militari e i membri del governo israeliano che le hanno ordinate e pianificate sono da considerare colpevoli di omicidio premeditato. L'assenza di una componente di immediatezza (se la vittima causava una minaccia di vita immediata) potrebbe impedire loro di addurre motivazioni difensive come la legittima difesa o la necessità. Nella nostra petizione abbiamo chiarito che non neghiamo il diritto per le forze di sicurezza di usare la forza, e finanche la forza con esito mortale, contro persone che mettono a repentaglio la vita umana, contro un attentatore suicida o un uomo armato che si stiano recando nella zona in cui intendono eseguire l'attentato. Qualunque estensione di questo semplice principio di autodifesa è un crinale scosceso, pericoloso e immorale. Infine, la politica degli assassinii è una patente violazione del diritto internazionale per quanto attiene ai diritti umani, codificato primariamente nelle differenti convenzioni Onu sui diritti umani. Questo campo del diritto considera il diritto alla vita un diritto supremo e non permette deroghe dagli articoli delle convenzioni che la tutelano, nemmeno in tempo di guerra o di emergenza nazionale. Allo stesso tempo questa politica vìola il diritto delle sue vittime a un giusto processo. A oggi l'esercito israeliano non ha prodotto alcuna prova che sostanziasse le accuse contro coloro che sono stati assassinati. Dopo ogni assassinio, l'esercito si premura solo di scagliare pubblicamente accuse di coinvolgimento negli attentati terroristici contro le persone assassinate. In questo modo il governo israeliano cerca di guadagnare il sostegno pubblico per la sua politica di assassinii. Perciò non c'è alcuna possibilità di stimare quanti di quelli assassinati erano veramente coinvolti in azioni violente come sostengono le autorità israeliane e quanti sono morti vittime innocenti di un sistema draconiano che ci si aspetterebbe più da una oscura dittatura che da una democrazia del XXI secolo. È estremamente difficile spiegare a un non-israeliano come mai la vasta maggioranza degli israeliani sostengono la politica degli assassinii. Le radici di questa posizione pubblica risiedono prima di tutto nella recente ondata di terrore, orrendo e imperdonabile, che ha colpito le città israeliane, ma anche nella «cultura dell'occupazione» che produce un'indifferenza crescente verso la miseria palestinese. La politica degli assassinii è solo una voce nella lunga lista di misure di controllo formulate e impiegate dalla realtà dell'occupazione. Da parte del governo, dopo molti mesi in cui centinaia di uomini, donne e bambini israeliani sono stati uccisi in attacchi terroristici, la politica degli assassinii gioca un ruolo vitale nel dimostrare al pubblico che «si sta facendo qualcosa». E' molto difficile persuadere gli israeliani addolorati e arrabbiati che ammazzare una persona mentre questa non costituisce una minaccia immediata per gli altri è immorale e illegale. Gli israeliani tendono a credere che ciascuna vittima di questa politica abbia le mani sporche di sangue e, se non venisse liquidata, ucciderebbe ancora. Il terrore, come ogni stratega militare riconoscerebbe, non costituisce una minaccia reale all'esistenza fisica di uno stato. La recente istituzione di tribunali militari segreti per sospetti terroristi negli Stati uniti, che operano a porte chiuse e in cui le regole delle prove, della procedura e della rappresentazione non vengono rispettate, ci dimostra che il terrore potrebbe mettere a rischio l'integrità, la moralità e la democrazia dello stato. Io spero solo che in questa battaglia contro il terrore, che si sta svolgendo in questi giorni nei corridoi e nelle aule della Corte Suprema di Israele, vinceremo noi.



DS, DOMANDE CHE ATTENDONO RISPOSTE

di Claudio Grassi

da "Liberazione" del 12.06.02

Il secondo turno delle amministrative ha regalato all'Italia una speranza. Si è trattato di una prima importante battuta d'arresto del centro-destra, apparso sinora dotato di una inarrestabile tendenza al rafforzamento. La straordinaria mobilitazione in difesa dell'articolo 18 è stata come un lievito che ha ridato fiducia a milioni di persone. Questo popolo di sinistra, dopo anni di rospi ingoiati e di concertazioni subite, ha individuato nella battaglia della Fiom e della Cgil una sponda credibile per battere il padronato e le destre e non ha esitato - generosamente - a scioperare (non dimentichiamoci che lo sciopero costa) e anche a ridare fiducia alle coalizioni progressiste. Ciò dimostra che il conflitto di classe, se praticato con determinazione e intelligenza, serve per spostare i rapporti di forza a favore delle sinistre. Oltre a ciò, si sono aggiunte altre questioni che lo scontro sul lavoro ha contribuito a rendere cruciali. L'occupazione della Rai, la vergogna della legge sulle impronte digitali, il costante attacco alla magistratura. Questo governo pratica una linea "eversiva", che inquieta fasce ampie di popolazione. Forse è presto per dire che la sinistra è già maggioranza nel paese, ma di sicuro queste elezioni dimostrano che rovesciare il risultato del 13 maggio 2001 è concretamente possibile. Ciò accresce le responsabilità nostre e di tutta la sinistra politica italiana ed è, quindi, tanto più urgente che si cerchino le risposte alle questioni di fondo poste dal paese. Ci sono già segnali in questo senso? Non si direbbe, a giudicare dalla lettura dei risultati delle amministrative. Secondo il segretario dei Ds l'esito dei ballottaggi dimostra che «uniti si vince», che l'Ulivo unito a Rifondazione e all'Italia dei Valori supera le destre, che questa coalizione si sarebbe potuta affermare anche alle politiche. Giusto. Ma perché l'on. Fassino non aggiunge che un'intesa elettorale con Rifondazione sarebbe stata possibile se i Ds avessero prestato attenzione alle questioni sociali? Facciamo un solo esempio. Non avremmo potuto proporre noi - la sinistra italiana nel suo insieme - l'innalzamento a un milione di lire al mese delle pensioni minime? E la vergogna delle liste civetta? Il centro-sinistra le ripresenterà ancora? Non basta. Abbiamo assistito allo psicodramma dell'attacco di Rutelli a Cofferati, della critica di Angius a Rutelli, della presa di distanza di Fassino nei confronti di Angius. Ebbene, oggi vorremmo sapere dai Ds se si riconoscono nella leadership di Rutelli anche dopo che il leader della Margherita, nell'incontro con Blair e Clinton, ha manifestato la volontà di candidarsi a rappresentare l'anima blairiana - cioè neoliberista e guerrafondaia - dell'Ulivo. Queste domande attendono risposta. Soprattutto è urgente dimostrare la volontà di farsi carico delle istanze della nostra gente. Ne indichiamo qui tre fondamentali. L'economia. La crisi della Fiat è solo la punta di un iceberg; le politiche economiche e fiscali del governo premiano i redditi medio-alti e le rendite e penalizzano salari e stipendi. Quale politica industriale propone la sinistra per invertire questa rotta disastrosa? Il Mezzogiorno. Il governo usa il divario tra il nord e il sud del paese per continuare nella politica di privatizzazione, di rapina del territorio, di rafforzamento delle proprie clientele. Quale ipotesi di rilancio dell'intervento pubblico nel Mezzogiorno siamo in grado di elaborare che sia alternativo a quello delle grandi opere di Berlusconi? Infine la pace. Le guerre di quest'ultimo decennio hanno distrutto innumerevoli vite umane e interi paesi rendendo il mondo ancora più instabile. Perché non mobilitarsi subito per una politica di riduzione degli armamenti e di intransigente rispetto dell'articolo 11 della Costituzione?








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