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QUELL'ARTICOLO CHE SCONQUASSA LA POLITICA

di Rina Gagliardi

da "Liberazione" del 06.06.02

Se provassimo a disporre sopra un'astratta grande scacchiera tutti i "pezzi" della politica nazionale, scopriremmo che, in questi giorni, il disordine regna sovrano e che, soprattutto, nulla sta al "suo" posto. Che cosa sta succedendo? Si rompe l'unità sindacale, e si pongono le premesse di un prossimo, pessimo accordo separato tra centrodestra e Cisl e Uil. Si spacca l'Ulivo, dove si consuma la residua credibilità della leadership di Francesco Rutelli. Si insultano, da lontano, autorevoli esponenti dei Ds e della Margherita. Si bruciano illustri candidature, come quella di Romano Prodi, apparentemente invocato da molti, ma più che altro osteggiato da quasi tutti. Visto col distacco necessario, tutto questo appare proprio come un frullatore impazzito - anzi come un "tritacarne", per citare le parole di Pier Luigi Castagnetti. Ma non è l'ennesima convulsione tattica del centrosinistra: è un processo più complesso e, in una misura precisa, più serio. La verità sta nell'irruzione sulla scena di un fattore "estrinseco": l'articolo 18. Una questione sociale di prima grandezza, un diritto corposamente simbolico, un terreno di lotta che sta rivelando un'altissima forza insieme "scardinante" e unificante. Nelle intenzioni del centrodestra, si doveva trattare di un'operazione esemplare, tesa a placare le ansie di Confindustria e a ridimensionare il potere - appunto anche simbolico - del sindacato. Via via, la partita ha mutato natura, e si è fatta stringentemente politica. Non più soltanto resistenza, non solo mobilitazione di piazza, ma possibile terreno di un'offensiva vincente. In questo senso, l'«intransigenza» della Cgil - che proclama una nuova tornata di scioperi, nella piena consapevolezza dell'"isolamento" in cui si stanno cacciando Cisl e Uil - non è affatto l'espressione di una vocazione massimalistica o estremistica. E', quasi al contrario, la tranquilla affermazione di un diritto all'esistenza, e di un protagonismo del sindacato, assolutamente «necessari», se non si vuole che tutto quello che resta della sinistra evapori in una indistinta palude neocentrista. Allo stesso modo, il referendum estensivo sostenuto dalla Fiom e da Rifondazione comunista - che Cofferati si ostina a non appoggiare - consente a questa battaglia di non rimanere impigliata nella trappola della pura conservazione dell'esistente: ne accentua anzi il respiro, ne amplia gli interlocutori, ne garantisce una cornice importante di continuità. I due strumenti di lotta - gli scioperi, compresi quelli generali, e il referendum - configurano, nel loro insieme, uno scenario che mette in radicale discussione l'agenda prevedibile della politica istituzionale. E diventa credibile l'ipotesi di farcela, di portare a casa un risultato straordinario: per la sua concretezza e per la sua capacità allusiva a un progetto più generale, la costruzione di un vero movimento di massa contro il centrodestra e le politiche neoliberiste. Che tutto questo possa produrre - tra i propri esiti visibili - un mutamento di leadership a sinistra, è noto a tutti. Ma quella di Sergio Cofferati non è - già oggi - una candidatura "indolore" per il centrosinistra, per i Ds, o per una nuova formazione politica che potrebbe nascere in qualunque momento. Il dato reale è che, anche attraverso l'affacciarsi di questa "risorsa umana", vengono in luce le contraddizioni irrisolte dello schieramento che si dice riformista - e che continua largamente a declinare un'identità che non si traduce in piattaforme ed obiettivi chiari. Il fatto è che il riformismo volge al tramonto, in tutte le esperienze occidentali che ad esso si richiamano: le "terze vie" si sono già rivelate opzioni subalterne e perdenti. Ma che cosa c'è, allora, dopo Clinton, dopo Jospin, dopo Blair, dopo Rutelli? Ecco, ancora, la concretezza allusiva dell'articolo 18: o c'è una rifondazione dell'identità di sinistra capace di dare davvero rappresentanza alle istanze che si sono espresse nel corso di questa battaglia, ai bisogni che sono emersi (compresi quelli di una politica diversamente partecipata), alle speranze di riscatto che si sono manifestate, o non c'è che la coazione a ripetere delle alleanze tra un opaco centro opacamente neodemocristiano e un'opaca sinistra, che non sa più a chi rispondere. O c'è un progetto, un nuovo inizio, o prevale su tutto il rischio dell'ennesima sconfitta. E' per queste ragioni sostanziali che l'Ulivo si scompone, come una maionese mai consolidata. Non vuole scegliere tra Cgil, Cisl e Uil, ma non può neppure tanto facilmente permettersi di non scegliere. Non può recedere dai valori recentemente acquisiti con rara acriticità (la flessibilità, il libero mercato, le privatizzazioni), ma non può neppure sostenere impunemente la bontà di un accordo separato tra Maroni, Pezzotta e Angeletti. Non può smettere di proclamarsi "riformista", ma non riesce neppure a sostenere davvero una battaglia di civiltà come l'articolo 18. Che tutto questo precipiti in uno scontro generalizzato di candidati leader e gruppi dirigenti, è quasi fatale. In fondo, davvero non è questo l'essenziale, per le sorti della sinistra italiana. L'essenziale, invece, è che il disordine si riveli in qualche modo fecondo.



ADDIO SCILLA E CARIDDI

di Nichi Vendola

da "Liberazione" del 07.06.02

E dunque addio a Scilla e Cariddi. Addio alla bella leggenda ma anche a tutta una storia fatta di colori, paesaggi, singolarissimi depositi di eco-sistemi. Questo sarà un congedo definitivo. La dolce ninfa e la figlia di Poseidone, tramutate in mostri marini che giocavano ad uccidere i naviganti, quelle figure millenarie che hanno incarnato il fascino minaccioso delle onde e dei vortici del mare, saranno spiantate dallo spazio terracqueo in cui intimidirono persino Ulisse. Partiranno per un esilio senza ritorno. I loro miti accovacciati sulle due sponde dirimpettaie dello Stretto saranno sepolti dalla più violenta delle catastrofi: non un evento naturale come il terremoto del 1908 che rase al suolo il capoluogo peloritano, bensì un evento artificiale come la più grande infrastruttura di acciaio e cemento che l'Italia abbia mai edificato. A maggior gloria del Cavaliere e del suo ministro progettista-appaltatore-imprenditore Lunardi, entro il 2004 sarà posta la prima pietra del Ponte sullo Stretto di Messina, un'impresa vissuta e propagandata dallo spirito faraonico di questa nostra classe dirigente alla stregua di una moderna piramide di Chèope. Immaginiamo che Rutelli si roderà i polpastrelli delle dita dall'invidia: Ulivo e Polo, nelle loro esibizioni elettorali, se lo contendevano come un'idea salvifica e come una "maraviglia", quel Ponte di soldi e di bugie. Ora finalmente danno i numeri (in senso proprio e in senso figurato…): l'intera costruzione sarà lunga 5.070 metri mentre il solo ponte sarà lungo 3.690 metri. La campata centrale sarà lunga 3.360 metri e sarà sorretta da quattro cavi giganteschi, sarà sospesa a 64 metri dal mare e sarà larga 61 metri: in modo tale da consentire ben otto corsie stradali e quattro binari ferroviari. Costerà circa undicimila miliardi di vecchie lire, pagati per metà dal pubblico e per metà da misteriosi privati che dovrebbero poi fruire dei diritti di pedaggio. Servirà ad annodare la Sicilia all'Europa, a mescolare le acque e i commerci, a riscattare le popolazioni meridionali, ad acciuffare il mediterraneo che rischia di annegare in se stesso: e così via. Così ci dicono gli allegri patron del nuovo miracolo ingegneristico, persino enfatizzando il risvolto ambientale di questa faccenda. Facce di bronzo, non c'è che dire. La buttino pure in economia e sviluppismo, ma ci risparmino almeno le gags sui benefici ecologici della più devastante operazione di stupro paesaggistico e naturalistico che l'italica storia ricordi. Già i loro numeri svelano la verità: al posto degli antichi mostri mitologici si insedierà un poco mitologico eco-mostro. Il Ponte ucciderà non solo Ulisse, ma anche uno dei più singolari parchi marini del mondo, con il suo corredo ricchissimo di bio-diversità, la sua fauna, i suoi fenomeni naturali, calpestando quei 33 chilometri in cui si incontrano e si scontrano lo Ionio e il Tirreno e in cui le maree partoriscono quei gorghi e quei gradini d'acqua che incantano e spaventano ogni navigante. Il ciclope di strade sospese creerà un cono d'ombra che oscurerà, come in una lunga notte polare, tanta parte della costa orientale della Sicilia. Un autentico crimine. Peggio di un sisma. Ma almeno porterà ricchezza questa cattedrale nel deserto di terre ancora sprovviste di opere di urbanizzazione primaria, oppure metterà in comunicazione comicamente e paradossalmente la sete calabra con la sete sicula? In verità porterà molta ricchezza, più di quanto le previsioni degli advisor non dicano: terreni, sulle due sponde, già acquisiti dalla previdenza della ‘ndrangheta e di Cosa nostra, appalti a girandola, reti di subappalto, ditte di movimentazione terra, cementificatori di razza, consulenze professionali a cascata, binari d'oro e non più "tristi e solitari" come quelli che ancora attraversano la geografia sconsolata di questo Mezzogiorno a perdere. Insomma, sarà un'opera di mafia per definizione, anzi per eccellenza. Inutile dal punto di vista del miglioramento delle condizioni di viaggio, visto che porterà a risparmiare 20/30 minuti per l'attraversamento ad un prezzo presumibilmente alto. Dannoso dal punto di vista del modello dei trasporti, visto che bisognerebbe svoltare in direzione di una mobilità più flessibile e articolata: cominciando a spostare le merci, che viaggiano prevalentemente su gomma, sui circuiti della ferrovia o del cabotaggio marittimo. A che serve, dunque, il Ponte sullo Stretto di Messina? Io penso che serve a legare due sponde di affari, la costa scintillante dell'economia lecita e la costa frastagliata e ombrosa dell'economia mafiosa. Serve ad ingannare oggi più di ieri le genti del Sud. Serve a celebrare un'idea della crescita e della ricchezza che sa contare i soldi privati anche sperperando i beni pubblici. Serve a dire che il mare e il cielo, l'acqua e la terra, la storia e la geografia, l'alba e il tramonto, l'orizzonte e il mito, i mulinelli e le onde e il tuffo dei delfini: tutto questo non ci appartiene, è merce tra le merci, moneta di scambio tra lobby e clan. E dunque addio, orribili creature delle notti di tempesta. Addio Scilla, addio Cariddi: questo è il tempo di Lunardi e Berlusconi.








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