LE MINIERE





 
 



Partendo da piazza della Repubblica, andando verso la chiesetta di San Rocco e proseguendo oltre, si percorre una parte della Panoramica; a Pila, svoltando a sinistra si scende rapidamente in fondo alla valletta dove scorrono le acque del torrente Assa.
Nei pressi del ponticello si può ammirare il torrente prodursi in una cascata di circa 40 metri. La strada continua tra betulle, castagni, conifere, gaggie e scende fino a Calea (frazione di Lessolo).
Questa velocemente descritta è la strada delle miniere, detta “delle Vote”, che per i Brossesi è ricca di memorie storiche legate al secolare sfruttamento delle miniere di ferro.
 

LE MINIERE DI BROSSO

Le miniere di Brosso sono conosciute da tempo remoto per l’abbondanza e la grande varietà dei suoi minerali dei quali esistono campioni in tutte le collezioni mineralogiche d’Europa. L’inizio della coltivazione di queste miniere si fa risalire, stando alle notizie riportate nella “Monografia” dei fratelli Sclopis, al tempo dei Romani che pare estraessero galena argentifera. Ai tempi della Repubblica Romana lo sfruttamento delle miniere spettava al proprietario della superficie del suolo, in quanto era spesso ignorata la proprietà sotterranea; ma, sotto la legislazione imperiale, prevalse il diritto regale per il quale l’imperatore dava o toglieva la facoltà di coltivare miniere.
Questo diritto di consolidò nel medio evo ed i conti di San Martino, signori di Brosso, lo esercitarono sin dall’XI secolo.
Gli abitanti della Val di Brosso non tolleravano, oltre alla tirannia, anche il diritto di sfruttamento che i Conti di San Martino esercitavano sull’unica fonte di reddito che la natura aveva loro riservato. Tant’è che fin dal 1262 tra mediazioni, richieste e guerre, sempre cercarono di svincolarsi dai gravosi tributi che dovevano ai Signori di Brosso.

Si arrivò così al 17 gennaio 1448 quando il Conte di Savoia stipulò la concessione per mezzo della quale la coltivazione delle miniere di ferro nella Val di Brosso veniva dichiarata e stabilita libera da ogni tributo a da ogni altro peso, riservandosi i diritti per i minerali d’oro e d’argento.
Il 1 gennaio 1497, con atto pubblico, gli uomini di Brosso diedero forma ai primi statuti che dovevano regolare i lavori minerari, il taglio dei boschi, i pascoli e l’amministrazione della confraternita di Santo Spirito (una sorta di patronato che distribuiva vitto ai poveri e li assisteva con i proventi ricavati dall’autotassazione dei lavoratori).
Si stabilirono così gli obblighi ed i diritti, nonché i tempi di sfruttamento e di lavoro che sia i proprietari dei terreni sia i vari artigiani dovevano rispettare.
Questi statuti furono più volte rivisti ed aggiornati fino al 25 gennaio 1561, anno in cui il duca Emanuele Filiberto sanciva il principio del “diritto classico romano”, che consisteva nel riconoscere al proprietario del suolo anche la proprietà del sottosuolo e di qualsiasi minerale in questo contenuto. Tale facoltà fu in vigore fino al 1840, epoca in cui il Re Carlo Alberto con l’editto del 30 giugno sancì il principio opposto (questo editto fu tradotto in legge nel 1859 ed è tuttora vigente sul territorio nazionale), che limitava la proprietà del suolo al possesso della sola superficie.
In tutti questi secoli gli abitanti della Val di Brosso inventarono e coltivarono un metodo semplice per curare il minerale della miniera alla fornace  e fabbricarne del ferro, senza passare per la fusione della ghisa.
La tecnologia usata era quella del “Basso Fuoco”, nella versione locale detta “alla Brossasca”, ed era suddivisa in varie fasi che consistevano:
Verso la fine del XVIII secolo, sia per la mancanza di combustibile sia, soprattutto per l’affermazione della tecnologia dell’alto forno, la produzione del ferro con la tecnologia del basso fuoco subì un notevole rallentamento, per cessare completamente nei primi decenni del 1800. Le testimonianze di questo lungo periodo di lavoro si hanno lungo la strada delle “Vote” a sinistra del torrente Assa. Recenti studi compiuti in loco hanno riportato alla luce dei reperti che convalidano i vari scritti esistenti sull’argomento; tali studi sono raccolti nel volume “Maestri Ferrai in terra canavesana” di Marco Cima. Mentre l’industria del ferro decadeva, cominciava ad affermarsi un’altra industria che sfruttava la pirite di ferro (minerale che accompagna sempre l’ematite), considerato fino ad allora meteriale inservibile e gettato perciò nelle discariche. Nacque così nel 1769 in regione “Bore” la fabbrica del vetriolo verde (solfato di ferro). In essa si sottoponeva a torrefazione in speciali forni la pirite, trasformandola in solfato di protossido di ferro; il materiale torrefatto veniva liscivato e si trasformava in solfato di ferro, che trovava un esito commerciale nell’industria tintoria. I primi proprietari della fabbrica, nonché concessionari della miniera di Brosso, furono in società il Conte di Valperga ed il sig. Francesco Chinnino, maggiore di fanteria delle truppe del Re.
Nel 1824 la concessione passò alla famiglia Ballauri e nel 1839 definitivamente ai fratelli Sclopis che erano già proprietari in Torino di una fabbrica di acido solforico.
Nel 1858, in sostituzione dello zolfo, i fratelli Sclopis impiegarono le piriti di Brosso per la fabbricazione dell’acido solforico, dando un notevole sviluppo alla produzione.


Non presentando più nessuna convenienza produrre vetriolo verde, la fabbrica di Bore cessò l’attività e nel 1872 venne completamente demolita. L’industria dell’acido solforico portò ad un più razionale sfruttamento delle miniere di Brosso; furono adottati nuovi mezzi di trasporto interni ed esterni, costruiti piani inclinati e ferrovie funicolari aeree (una funicolare aerea lunga 3500 metri trasportava il materiale da Valcava -402 m.- alla stazione ferroviaria di Montalto Dora –247m.-); ed infine in regione Valcava fu costruito uno stabilimento speciale per la preparazione meccanica dei minerali e per l’arricchimento delle piriti povere di zolfo.
L’attività mineraria cessò definitivamente nel 1964 quando ne aveva la concessione la ditta Montecatini.




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