Comunicazione Facilitata e Scuola


   Nell'ambito del mondo scolastico la Comunicazione Facilitata si propone al di
fuori della rete istituzionale nata negli anni '70 e sviluppatasi poi gradualmente in un contesto non omogeneo al fine di integrare i soggetti handicappati gravi nella scuola. Come richiesto dalla L. 104/92, si è definito e siglato infatti un accordo di programma tra Provveditorato, Comune e UU.SS.LL. allo scopo di favorire tale processo di integrazione, dichiarando le competenze specifiche di ciascun interlocutore e ridefinendo, alla luce della più recente normativa, finalità e modalità di rapporto tra operatori dei diversi enti. A tal fine, sin dagli anni settanta, si era costituito presso il Provveditorato un Gruppo di lavoro, successivamente sostituito dal G.L.I.P. (Gruppo Di Lavoro Interistituzionale Provinciale).
   Ma la Comunicazione Facilitata, dal di fuori di questa rete, si sviluppa grazie soprattutto ad
alcuni genitori, in numero sempre crescente, che cercarono il coinvolgimento degli insegnanti su questa "nuova tecnica", che non si configura come riabilitazione e neppure come puro intervento didattico.
   Si potrebbe pensare che un contesto organizzato, nel quale la collaborazione tra diverse figure ed istituzioni è da anni oggetto di attenzione ed è regolamentato, sarebbe il terreno più fertile per accogliere questa nuova proposta, ma non è stato e non è così. La prima risposta delle istituzioni è stata infatti il rifiuto, un rifiuto non espresso, ma sorretto dall'incredulità nei confronti della tecnica e dalla scarsa disponibilità a modificare criteri diagnostici e prognostici, modalità di lavoro e progetti educativo didattici.
   Inoltre parve anomalo il fatto che una proposta "tecnica" provenisse da genitori e non da altri tecnici professionisti. Da che mondo è mondo i tecnici preferiscono confrontarsi con i tecnici e non avviene facilmente il confronto con un genitore di un ragazzo inserito.
   La "rete" istituzionale ha quindi sempre avuto una posizione, non concordata, ma omogenea nei confronti della Comunicazione Facilitata: 
prudenza.
   Ma ogni rete, per quanto rigida, ha sempre le sue smagliature, attraverso le quali sono fortunatamente filtrati i rapporti personali tra singoli operatori, genitori ed insegnanti, ed al di là della prudenza istituzionale alcune esperienze hanno avuto il loro avvio.
   Ciò che emerge da queste esperienze è spesso a dir poco sconcertante: nel giro di pochissimo tempo alunni per i quali gli insegnanti avevano calibrato la proposta educativa individuando obiettivi minimi, perseguibili attraverso attività pratiche, supponendo, corroborati da diagnosi mediche, una ridotta capacità intellettiva e cognitiva, esprimevano invece raffinate considerazioni dimostrando non solo di possedere tali capacità ma anche una insospettabile presenza attiva e partecipe nella realtà.
   La pratica della Comunicazione Facilitata nell'ambiente scolastico ha avuto particolare sviluppo nel
territorio genovese, dove opera la Cadei. La prima considerazione scaturita da queste esperienze riguarda la capacità di intendere e volere dei ragazzi autistici: le persone autistiche, attraverso la Comunicazione Facilitata, hanno dimostrato una intatta capacità di intendere, di "intelligere".
Scatta qui la questione, posta proprio da queste esperienze di
che cosa si intenda con il termine "intelligenza", accorgendosi di come tanti strumenti standard per "misurala" siano notevolmente parziali e ideologizzati.
   Di conseguenza, si è capito che l'azione educativa deve essere rispettosa di una non facilmente definibile capacità di intendere, e che non può privare nessun alunno dell'opportunità di apprendimenti concettuali.
   La comunicazione è un elemento imprescindibile poi non solo nella relazione e nell'apprendimento, ma anche nella
valutazione di un soggetto: non dobbiamo definire con il termine di insufficienza mentale l'incapacità o l'impossibilità di comunicare; l'insegnamento deve, non solo fornire contenuti, ma principalmente strutture e schemi che consentano la costruzione di un organico "archivio" di conoscenze, collegando e recuperando informazioni e saperi frammentari.
   La Comunicazione Facilitata si è configurata quindi non solo come metodo rivolto alla persona, ma anche come spunto per una riflessione pedagogica sulle finalità e modalità di integrazione nel mondo scolastico. Entrambe queste valenze sono importanti e da valorizzare.

   In sintesi, ciò che bisognerebbe realizzare consiste in:

  • conoscere e valorizzare le diverse e positive esperienze in atto;
  • riconoscere ad alcune di queste esperienze il carattere di sperimentalità;
  • individuare una sede di confronto e di arricchimento per gli insegnanti che stanno utilizzando la Comunicazione Facilitata;
  • promuovere, anche in sede locale, la ricerca universitaria;
  • interessare i rappresentanti degli enti istituzionali coinvolti, per legge, nei processi di integrazione;
  • riconoscere la centralità del ruolo della famiglia, e del soggetto stesso, dell'associazione nelle scelte e nelle strategie educative;
  • favorire la corretta conoscenza del metodo, attraverso un corso di "alta qualificazione" ad un certo numero di insegnanti di sostegno, impegnati od impegnabili nei confronti di alunni che utilizzano la Comunicazione Facilitata;
  • promuovere incontri, presso le diverse scuole, dei vari interlocutori istituzionali e non, coinvolti nel processo di integrazione dei singoli alunni che utilizzano la Comunicazione Facilitata, per valutare la situazione e definire obiettivi e modalità di intervento.
   Ciò che si è costituito, o che si sta costituendo, non è forse una vera e propria "rete", sembrerebbe piuttosto una ragnatela che, a diversi livelli mette in relazione operatori e figure diverse, chiamate a collaborare per conoscere, organizzare e realizzare, in modo integrato, gli interventi opportuni, in modo rispettoso del ragazzo handicappato, delle finalità dell'integrazione e della specificità e delle competenze dei diversi interlocutori.



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