Necessità del contatto fisico

   Molti dibattiti e perplessità sono stati causati, come è stato affrontato nel capitolo circa la storia della Comunicazione Facilitata, proprio da una serie di impressioni che può dare a un osservatore esterno il fatto che questa tecnica si avvalga di un supporto e contatto fisico.
   Si pensi che è raro che un facilitato possa arrivare a comunicare senza nessun supporto di questo genere e che, addirittura, anche tra chi vi riesce non c'è mai stato ancora nessuno in grado di usufruire della tecnica senza avere almeno in fianco, seduto a pochissima distanza, il proprio facilitatore.
   Il contatto fisico nella Comunicazione Facilitata è comunque necessario, proprio perché il problema del facilitato è molto spesso di tipo neuromotorio, come affermavo poco fa. Qui desidero riproporre in maniera più ampia questo concetto del tutto centrale per la comprensione del compito e delle risorse di questa tecnica. Se vi è un'incomprensione in questo senso, sarà molto probabile avere forti pregiudizi nei confronti della Comunicazione Facilitata.
   Non si deve pensare che i soggetti con difficoltà a iniziare e portare avanti un'azione volontaria, come gli autistici, vivano semplicemente un problema di impedimento fisico del tipo di una paralisi. Avviene qualcosa di più complesso a livello neurologico, che si definisce con il termine di
disprassia, ossia come un problema di avvio ed esecuzione dell'azione volontaria intenzionale: "in pratica l'incapacità di fare ciò che desideri fare nel momento in cui lo vuoi fare".
   Non si tratta di un semplice problema di movimento, ma di
un disturbo di programmazione e sequenziazione che, partendo da una mancata "propriocezione", influenza tutti i sistemi di "funzionamento".
   Tale disturbo influirebbe sulla capacità di organizzare e riadattare in modo volontario i programmi motori. I ragazzi con Sindrome autistica presentano una dissociazione automatico-volontaria: chiediamo loro di saltare e non lo fanno, come se non lo sapessero proprio fare, o non comprendessero il comando, ma, dopo un po', verosimilmente, li vediamo saltare. Chiediamo di pronunciare una lettera e non otteniamo risposta, ma, poco dopo li sentiamo pronunciare una frase che contiene diverse di quelle lettere con le quali aveva fallito la ripetizione.
   Quando si ha un difetto di programmazione, per iniziare un programma motorio è necessario l'aiuto di uno
starter. Il facilitatore ha proprio questa funzione di starter che esercita sia con il contatto fisico che con la sollecitazione verbale e il messaggio empatico.
   La programmazione di un movimento non è cosa facile, è una concatenazione e sinergia di eventi e capacità quali:

  • corretta informazione sulle caratteristiche della stimolazione esterna in entrata (corretta integrazione sensoriale);
  • corretta integrazione centrale dello stimolo;
  • decisione di agire in un certo modo (intenzionalità);
  • previsione dello schema motorio necessario per agire;
  • attivazione dello schema motorio e controllo di esso durante il corso dell'azione (corretta propriocezione per il feed-back);
  • feed-back di ritorno che confermi il fatto che l'atto motorio è stato compiuto secondo le previsioni.
   La non funzionalità o l'imperfetta sinergia di una di queste componenti genera la scorretta motricità che, alla fine porterà ad una caduta dell'intenzionalità stessa e al rifiuto di concentrarsi sull'azione da compiere. La Comunicazione Facilitata ha il compito di ovviare agli inconvenienti di tale scorretta o scoordinata motricità, cercando di equilibrare continuamente il bisogno di supporto e contatto fisico con una graduale e progressiva capacità di indipendenza.


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