[LETTERA AUTOBIOGRAFICA]
Questa brevissima autobiografia, scritta probabilmente
fra il 1912 e il 1913, apparve nelle colonne del periodico romano Le
lettere (numero del 15 ottobre 1924), con la seguente nota del Direttore,
Filippo Súrico: (L'autobiografia fu integralmente ripubblicata
nello stesso periodico Le lettere (Serie VII, n. 1, 28 febbraio 1938),
come atto di omaggio a Luigi Pirandello dopo la sua morte)
"Circa quindici anni or sono, io chiesi a Luigi Pirandello, che
già allora stimavo moltissimo, alcune notizie sulla sua arte
e sulla sua vita per un profilo critico.
Luigi Pirandello mi fu cortese e mi inviò delle rapide note che
ora io ritrovo nei miei cassetti dopo tanto volgere di tempo. (Ci sono
di mezzo il conflitto mondiale e... tutto il teatro pirandelliano).
Trovo interessante ed utile offrire ai lettori di Lettere queste note
che sono un documento di sincerità e una chiarificazione ancora
opportuna.
Il Pirandello era, allora, un novelliere e un romanziere stimato; ma,
pur maturo d'anni, non aveva nulla dato al teatro: questo pareva addirittura
estraneo al suo temperamento di narratore.
Dallo scritto che ora io pubblico si avverte, però, che al teatro
egli pensava: lo aveva, si può dire, già bello e pronto
nell'anima, o, se si vuole, nel cervello, e nelle sue... novelle.
Finanche qualche frase di questo brano di lettera servì, poi,
al titolo di una commedia pirandelliana.
Colgo l'occasione per augurare all'illustre scrittore ancora lunghi
anni di giovinezza d'arte."
Sono nato in Sicilia, e precisamente in una campagna
presso Girgenti, il 28 giugno del 1867. Venni a Roma la prima volta
nel 1886 e vi stetti due anni. Nell'ottobre del 1888 partii per la Germania
e vi rimasi due anni e mezzo, cioè fino all'aprile del 1891.
Mi laureai là, all'Università di Bonn, in lettere e filosofia.
Nel 1891 ritornai a Roma, e non me ne son piú mosso. Insegno,
purtroppo, da 15 anni Stilistica nell'Istituto Superiore di Magistero
Femminile. Dico purtroppo non solo perché l'insegnamento mi pesa
enormemente, ma anche perché la mia piú viva aspirazione
sarebbe quella di ritirarmi in campagna a lavorare.
Vivo a Roma quanto piú posso ritirato; non esco che per poche
ore soltanto sul far della sera, per fare un po' di moto, e m'accompagno,
se mi capita, con qualche amico: Giustino Ferri o Ugo Fleres.
Non vado che rarissimamente a teatro. Alle 10, ogni sera, sono a letto.
Mi levo la mattina per tempo e lavoro abitualmente fino alle 12. Il
dopo pranzo, di solito, mi rimetto a tavolino alle 2 e mezza, e sto
fino alle 5 e mezza; ma, dopo le ore della mattina, non scrivo piú,
se non per qualche urgente necessità; piuttosto leggo o studio.
La sera, dopo cena, sto un po' a conversar con la mia famigliuola, leggo
i titoli degli articoli e le rubriche di qualche giornale, e a letto.
Come vede, nella mia vita non c'è niente che meriti di essere
rilevato: è tutta interiore, nel mio lavoro e nei miei pensieri
che... non sono lieti.
Io penso che la vita è una molto triste buffoneria, poiché
abbiamo in noi, senza poter sapere né come né perché
né da chi, la necessità di ingannare di continuo noi stessi
con la spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno e
non mai la stessa per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre
vana e illusoria.
Chi ha capito il giuoco, non riesce piú a ingannarsi; ma chi
non riesce piú a ingannarsi non può piú prendere
né gusto né piacere alla vita. Cosí è.
La mia arte è piena di compassione amara per tutti quelli che
si ingannano; ma questa compassione non può non essere seguíta
dalla feroce irrisione del destino, che condanna l'uomo all'inganno.
Questa, in succinto, la ragione dell'amarezza della mia arte, e anche
della mia vita.
Il mio primo libro fu una raccolta di versi, "Mal
giocondo", pubblicata prima della mia partenza per la Germania.
Lo noto, perché han voluto dire che il mio umorismo è
provenuto dal mio soggiorno in Germania; e non è vero: in quella
prima raccolta di versi piú della metà sono del piú
schietto umorismo, e allora io non sapevo neppure che cosa fosse l'umorismo.
Scrissi in Germania, invece, "Pasqua di Gea", che è
un poemetto primaverile in lasse rimate di settenarii, per nulla umoristico,
e le "Elegie renane".
Tornato a Roma, tradussi in distici italiani le Elegie romane del Goethe.
Fino a tutto il 1892 non mi pareva possibile che io potessi scrivere
altrimenti, che in versi. Devo a Luigi Capuana la spinta a provarmi
nell'arte narrativa in prosa (e dico arte narrativa in prosa, perché
fino a poco tempo fa avevo nel cassetto il manoscritto di una lunga
narrazione in versi, un poema su l'arcidiavolo Belfagor, composto anch'esso
prima che partissi per la Germania, e anch'esso umoristico).
La mia prima prova nell'arte narrativa in prosa fu il romanzo "L'Esclusa",
raccolto in volume dal Treves e molti anni dopo, riveduto e corretto.
La prima raccolta di novelle stampata fu "Amori senza Amore":
tre lunghe novelle intitolate L'onda, La Signorina, L'amica delle mogli,
aride, rigide, d'indole psicologica e nel fondo, amarissime.
A me non piacciono piú, quantunque dall'ultima, L'amica delle
mogli, ci sarebbe da trarre una gustosa e originale commedia.
Seguì ad "Amori senza Amore", il romanzetto comico-umoristico
d'argomento siciliano "Il Turno", che tra poco il Puccini
d'Ancona ripubblicherà intatto. Seguì al Turno la raccolta
di rime agresti "Zampogna", preceduta dal poemetto "Padron
Dio", che forse, tra le mie cose in versi, è quella a cui
tengo di piú.
Dopo "Zampogna", presso lo Streglio di Torino pubblicai "Quand'ero
matto", novelle umoristiche, e presso il Lumachi di Firenze "Beffe
della Morte e della Vita", in due serie, per insipienza dell'editore
quasi a tutti sconosciute.
Eppure in queste due serie vi sono 4 o 5 delle mie migliori novelle,
come Notizie del mondo, Se..., Il giardinetto lassú, Il marito
di mia moglie.
Poco dopo, presso lo Streglio, pubblicai "Bianche e nere";
poi, su la "Nuova Antologia", "Il fu Mattia Pascal".
Dopo questo romanzo fortunato entrai nella Casa Treves, che ha già
pubblicato tre mie raccolte di novelle, "Erma bifronte", "La
Vita nuda" e "Terzetti", oltre la ristampa de "L'Esclusa"
e dello stesso "Fu Mattia Pascal". Ultimamente il Formíggini
di Genova ha pubblicato le rime ironiche "Fuori di chiave"
e il Quattrini di Firenze "Suo marito", romanzo che il Treves
non poté pubblicare per sue ragioni particolari, e ne fu dolentissimo.
Ora attendo a compiere il vasto romanzo "I Vecchi e i Giovani",
già in parte apparso su la "Rassegna contemporanea":
il romanzo della Sicilia dopo il 1870, amarissimo e popoloso romanzo,
ov'è racchiuso il dramma della mia generazione. E un altro romanzo
ho anche per le mani, il piú amaro di tutti, profondamente umoristico,
di scomposizione della vita: "Moscarda, uno, nessuno e centomila".
Uscirà su la fine di quest'anno nella "Nuova Antologia".
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