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  racconti  

 Morthylla
 Clark Ashton Smith
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Morthylla - 1953 


Ad Umbri, la Città del Delta, le luci sfolgoravano con vivace splendore dopo il tramonto di quel sole che era ormai una stella decadente e rosseggiante come una brace, invecchiata oltre ogni cronaca e oltre ogni leggenda. Le più brillanti e sgargianti di tutte erano le luci che rischiaravano la casa del vecchio poeta Famurza, i cui canti anacreontici gli avevano procurato le ricchezze che egli sperperava in orge per i suoi amici ed adulatori. Lì, nei portici, nelle gallerie e nelle camere, le torce erano fitte come le stelle in un firmamento senza nubi. Si sarebbe detto che Famurza volesse dissipare tutte le ombre, eccetto quelle delle alcove ornate di arazzi, preparate per gli amori convulsi dei suoi ospiti.
    Per accendere tali amori c’erano vini, cordiali, afrodisiaci. V’erano carni e frutti che risvegliavano gli impulsi flaccidi. C’erano strane droghe esotiche che suscitavano e prolungavano il piacere. C’erano bizzarre statuette in nicchie semivelate; e pannelli a muro che raffiguravano amori bestiali, o amori umani o sovrumani. C’erano cantori prezzolati di tutti i sessi, che cantavano distici diversamente erotici, e danzatori le cui contorsioni erano ideate per ravvivare i sensi esausti quando tutti gli altri metodi erano falliti.
    Ma a tutti questi incitamenti Valzain, discepolo di Famurza, famoso tanto come poeta quanto come libertino, era del tutto insensibile.
    Con un’indifferenza che sfumava nel disgusto, una coppa semivuota nella mano, egli osservava da un angolo la folla festosa che gli stava davanti, e distoglieva involontariamente gli occhi da certe coppie troppo svergognate o troppo ebbre per cercare l’ombra dell’intimità ai loro vezzeggiamenti. Una sazietà improvvisa s’era impadronita di lui. Si sentiva stranamente distaccato dalla mania di vino e di carne in cui, fino a poco tempo prima, si immergeva ancora con diletto. Gli pareva di trovarsi su di una spiaggia aliena, oltre la distesa d’acqua della separazione.
    - Che ti affligge, Valzain? Un vampiro ti ha succhiato il sangue? – Era Famurza, rosso in viso sotto ai capelli grigi, leggermente corpulento, che gli stava accanto. Posando affettuosamente la mano sulla spalla di Valazain, il poeta levò con l’altra la coppa da un litro, ornata di motivi fescennini, nella quale egli usava bere soltanto vino, rifuggendo dai liquori drogati e violenti spesso preferiti dai sibariti di Umbri.
    - È biliosità? O un amore non ricambiato? Qui abbiamo rimedi per entrambi. Basta che tu chieda la medicina che preferisci.
    - Non vi è medicina per ciò che mi affligge – ribatté Valzain. – In quanto all’amore, non mi interessa più se è ricambiato o non ricambiato. Io posso assaporare soltanto la feccia in ogni coppa. E il tedio si affaccia anche tra i baci.
    - Il tuo è veramente un caso di malinconia. – La voce di Famurza era preoccupata. – Ho letto alcuni dei tuoi versi più recenti. Tu scrivi solo di tombe e di cipressi, di vermi e di fantasmi e di amori disincarnati. Sono argomenti che mi danno la colica. Ho bisogno di almeno mezzo gallone di onesto succo di vite dopo ognuna delle tue poesie.
    - Sebbene l’abbia scoperta solo recentemente – ammise Valzain, - vi è in me la curiosità per l’invisibile, l’aspirazione a cose al di là del mondo materiale.
    Famurza scosse il capo con aria di commiserazione. – Sebbene io abbia vissuto più del doppio dei tuoi anni, mi accontento ancora di ciò che vedo e odo e tocco. Buone carni succose, donne, vino, le canzoni a piena gola mi sono sufficienti.
    - Nei sogni del sonno più profondo – fece in tono meditabondo Valzain, - ho abbracciato succubi che erano più che carne, ho conosciuto delizie troppo intense perché il corpo, allo stato di veglia, possa sopportarle. Tali sogni hanno forse un’origine al di fuori del cervello terreno? Pagherei qualunque cosa per scoprire tale fonte, se esiste. Ma intanto per me non vi è altro che la disperazione.
    - Così giovane… e già così esausto! Ebbene, se sei stanco delle donne, e vuoi invece i fantasmi, potrei darti un suggerimento. Conosci la vecchia necropoli, situata a mezza via tra Umbri e Psiom… a circa tre miglia da qui? I caprai dicono che sia infestata da una lamia… lo spirito della principessa Morthylla, che morì molti secoli fa e venne sepolta in un mausoleo tuttora esistente, che domina le tombe minori. Perché non vai là, questa notte, a visitare la necropoli? Dovrebbe essere più adatta al tuo umore che non la mia casa. E forse Morthylla ti apparirà. Ma non biasimare me, se non dovessi ritornare affatto. Dopo tutti questi anni, la lamia è ancora avida di amanti umani: e potrebbe incapricciarsi di te.
    - Certo, conosco quel luogo, - disse Valzain… - Ma credo che tu voglia scherzare.
    Famurza scrollò le spalle e passò oltre, tra i suoi compagni di baldoria. Una ridente danzatrice, dalle snelle membra bionde, si accostò a Valzain e gli gettò intorno al collo un cappio di fiori intrecciati, reclamandolo come prigioniero. Egli spezzò gentilmente il cappio, e diede alla fanciulla un tepido bacio che l’indusse ad una smorfia ironica. Senza farsi notare, ma alla svelta, prima che altri cercassero di attirarlo, uscì dalla casa di Famurza.
    Senz’altri impulsi che un desiderio assillante di solitudine, volse i passi verso i sobborghi, evitando le taverne ed i lupanari dove si affollava il popolo. Musiche, risa, brani di canzoni lo seguivano dalle case illuminate dove ogni notte i cittadini più ricchi offrivano festini. Ma incontrò poca gente per le strade: era troppo tardi perché gli ospiti di tali feste si radunassero, troppo presto perché si disperdessero.
    Le luci si diradarono, spaziate da intervalli sempre maggiori, e le strade si rabbuiarono dell’antica notte che opprimeva Umbri, e che avrebbe soffocato le ardite galassie delle finestre rischiarate dalle lampade con l’oscurarsi del sole senescente di Zothique. A queste cose, e al mistero della morte, erano rivolti i pensieri di Valzain mentre si immergeva nell’oscurità dell’esterno, gradita ai suoi occhi abbagliati.
    Gli fu gradito anche il silenzio della strada fiancheggiata di campi che egli seguì per un certo tratto senza rendersi ben conto della direzione. Poi, giunto a un punto di riferimento che gli era familiare nonostante l’oscurità, rammentò che quella strada andava da Umbri a Psiom, la città gemella del Delta: la strada tortuosa lungo la quale era situata la necropoli abbandonata cui Famurza gli aveva ironicamente consigliato di recarsi.
    In verità, egli pensò, Famurza aveva scoperto l’esigenza che stava alla base del suo disincanto nei confronti di tutti i piaceri sensoriali. Sarebbe stato piacevole recarsi a soggiornare, per un’ora o poco più, in quella città i cui abitanti avevano da tempo superato le bramosie della mortalità, la sazietà e la disillusione.
    La luna, che stava passando dal primo quarto alla metà, salì dietro di lui quando giunse ai piedi della bassa collina su cui sorgeva il cimitero. Egli lasciò la strada lastricata, e cominciò a salire l’erta, semicoperta da stente ginestre spinose, alla cui sommità si vedevano i lucenti marmi bianchi. Non vi erano sentieri, solo le trazzere spezzate, aperte dalle capre e dai loro custodi. Buia, allungata e attenuata, la sua ombra lo precedeva come una guida spettrale. Nella sua fantasia gli parve di salire il seno dolcemente incurvato di una gigantessa, costellato in distanza da gemme pallide che erano pietre tombali e mausolei. Si chiese, in quel capriccio funereo, se la gigantessa era morta o soltanto addormentata.
    Giunto all’ampio spiazzo alla sommità, dove tassi nani morenti disputavano a rovi privi di foglie gli spazi tra le lapidi chiazzate di licheni, ricordò la leggenda cui aveva accennato Famurza, la lamia che si diceva infestasse la necropoli. Famurza, egli lo sapeva bene, non credeva a tali leggende, e aveva inteso soltanto burlare il suo umore funereo. Eppure, poiché era un poeta, cominciò a baloccarsi con la fantasia di una presenza, immortale, bellissima e perversa, che dimorasse tra i marmi antichi e rispondesse all’evocazione di chi, senza una credenza sicura, aveva aspirato invano a visioni dell’aldilà.
    Tra le file di lapidi, nella solitudine illuminata dalla luna, egli giunse a un maestoso mausoleo, ancora eretto con poche tracce di rovina al centro del cimitero. Sotto di esso, gli era stato detto, vi erano ampie cripte che ospitavano le mummie d’una famiglia reale estinta, che aveva regnato sulle città gemelle di Umbri e Psiom nei secoli precedenti. La principessa Morthylla era appartenuta a quella dinastia.
    Con suo grande sbalordimento una donna, o ciò che pareva tale, era seduta su di una colonna caduta accanto al mausoleo. Non poteva scorgerla distintamente: l’ombra della tomba l’avvolgeva ancora dalle spalle in giù. Solo il volto, che luceva fiocamente, era levato verso la luna nascente. Il profilo era simile a quelli che egli aveva veduto su antiche monete.
    - Chi sei? - chiese, con una curiosità che sopraffaceva la cortesia.
    - Io sono la lamia Morthylla – ella rispose, con una voce che lasciava dietro di sé una fioca, sfuggente vibrazione simile a quella di un’arpa. – Guardati da me… perché i miei baci sono proibiti a coloro che vogliono rimanere tra i vivi.
    Valzain fu sbalordito da quella risposta che riecheggiava le sue fantasie. Eppure la ragione gli diceva che l’apparizione non era uno spirito delle tombe, ma una donna viva che conosceva la leggenda di Morthylla e voleva divertirsi tentandolo. Eppure, quale donna si sarebbe avventurata sola, di notte, in un luogo tanto strano e desolato?
    Più credibilmente, ella era una prostituta recatasi a un appuntamento tra le tombe. Vi erano, Valzain lo sapeva, alcuni depravati che avevano bisogno di un ambiente sepolcrale per solleticare i loro desideri.
    - Forse stai attendendo qualcuno – egli disse. – Se è così, non voglio disturbare.
    - Io attendo solo colui che è destinato a venire. E l’ho atteso a lungo, poiché da duecento anni non ho avuto amanti. Rimani, se vuoi: non vi è nessuno da temere, tranne me.
    Nonostante le ipotesi razionali che Valzain aveva formulato, si sentì scorrere lungo la spina dorsale il brivido di chi, senza credere pienamente, sospetta la presenza di qualcosa di preternaturale… Eppure sicuramente era tutto un gioco… un gioco che anch’egli poteva giocare per alleviare il suo tedio.
    - Sono venuto qui sperando di incontrarti – dichiarò. – Sono stanco delle donne mortali, stanco di ogni piacere… stanco persino della poesia.
    - Anch’io mi annoio – ella disse semplicemente.
    La luna era salita ancora, e splendeva sull’abito di foggia antiquata della donna. Era aderente alla vita, ai fianchi e al seno, ed aveva ampie pieghe cadenti. Valzain aveva veduto abiti simili soltanto negli antichi disegni. La principessa Morthylla, morta da tre secoli, doveva averne effettivamente indossati di simili.
    Chiunque fosse, egli pensò, la donna era stranamente bella, con un tocco di bizzarria nei capelli pesantemente annodati il cui colore era indistinguibile nel chiaro di luna. La sua bocca era dolce, e un’ombra di stanchezza o di tristezza le circondava gli occhi. All’angolo destro delle labbra, scorse un piccolo neo.
    Gli incontri di Valzain con la sedicente Morthylla si ripeterono ogni notte, mentre la luna cresceva come il seno tondeggiante d’una gigantessa e sminuiva di nuovo nella senescenza. Ella lo attendeva sempre accanto allo stesso mausoleo… che, dichiarava, era la sua dimora. E sempre lo congedava quando l’oriente diventava cinereo all’alba, dicendo di essere una creatura della notte.
    Inizialmente scettico, Valzain la giudicò una persona dalle tendenze e dalle fantasie macabre affini alle sue, con cui egli continuava un amoreggiamento dal fascino singolare. Eppure non riusciva a trovare in lei traccia della mondanità che sospettava: pareva non conoscere nulla del presente, ma aveva una strana familiarità con il passato e la leggenda della lamia. Sembrava sempre più un essere notturno, intimo solo dell’ombra e della solitudine.
    I suoi occhi e le sue labbra parevano serbare segreti dimenticati e proibiti. Nelle risposte vaghe e ambigue alle sue domande, egli leggeva significati che lo facevano fremere di speranza e di paura.
    - Ho sognato della vita – ella gli diceva, enigmaticamente. – E ho sognato anche della morte. Ora, forse vi è un altro sogno… nel quale sei entrato tu.
    - Anch’io, allora, sognerei - disse Valzain.
    Notte per notte, il disgusto e la sazietà si allontanavano da lui, in un incanto alimentato dall’ambiente spettrale, dal silenzio avvolgente dei morti, dal suo allontanamento della città chiassosa e carnale. A poco a poco, tra l’alternarsi dell’incredulità e della fede, pervenne ad accettarla come la vera lamia. L’insaziabilità che sentiva in lei poteva essere solo quella della lamia: la sua bellezza era quella di un essere non più umano. Era come l’accettazione, in sogno, di cose fantastiche esistenti oltre il sonno.
    E insieme alla fede, cresceva il suo amore per lei. I desideri che aveva creduti morti rinascevano dentro di lui, più selvaggi e aggressivi.
    Ella pareva ricambiare il suo amore. Eppure non mostrava traccia dell’indole leggendaria della lamia, poiché sfuggiva ai suoi abbracci e gli rifiutava i baci da lui implorati.
    - Una notte, forse – prometteva. – Ma prima tu devi conoscermi per ciò che sono, devi amarmi senza illusioni.
    - Uccidimi con le tue labbra, divorami come si dice che tu abbia divorato gli altri amanti – la supplicava Valzain.
    - Non puoi attendere? – Il suo sorriso era dolce… e tentatore. – Non desidero la tua morte così presto, perché ti amo troppo. Non è dolce questo appuntamento tra i sepolcri? Non ti ho forse sottratto al tedio? Devi dunque porre fine a tutto?
    La notte successiva egli l’implorò di nuovo, invocando con tutto l’ardore e l’eloquenza la consumazione negata.
    Ella lo burlò: - Forse io sono soltanto un fantasma incorporeo, uno spirito senza sostanza. Forse mi hai sognata. Vorresti rischiare di ridestarti dal sogno?
    Valzain avanzò verso di lei, protendendo le braccia in un gesto appassionato. Lei si ritrasse, dicendo:
    - E se al tuo tocco io mi trasformassi in cenere e chiaro di luna? Allora rimpiangeresti la tua avventata insistenza.
    - Tu sei la lamia immortale – insistette Valzain. – I miei sensi mi dicono che non sei un fantasma, non sei uno spirito disincarnato. Ma per me hai trasformato in ombra ogni altra cosa.
    - Sì, a modo mio sono abbastanza reale – ella riconobbe, ridendo sommessamente. Poi all’improvviso si protese verso di lui, e gli sfiorò la gola con le labbra. Egli ne sentì per un momento l’umido tepore… e la fitta acuta dei denti che gli trapassarono appena la pelle, ritirandosi istantaneamente. Prima che egli potesse stringerla, ella gli sfuggì di nuovo.
    - È il solo bacio che ci è permesso al momento – gridò, e fuggì rapida con passi silenti tra gli scintillii e le ombre dei sepolcri.
    Il pomeriggio seguente, un affare urgente e sgradito richiamò Valzain nella vicina città di Psiom: un breve viaggio, che egli tuttavia compiva assai di rado.
    Passò davanti all’antica necropoli, pensando con desiderio all’ora notturna in cui avrebbe potuto affrettarsi di nuovo ad incontrare Morthylla. Il bacio pungente, che aveva tratto qualche goccia di sangue, aveva lasciato in lui una grande febbre e una grande angoscia. Come la necropoli, anch’egli era stregato: e l’incantesimo lo seguì a Psiom.
    Aveva ormai concluso l’affare, il prestito di una somma di danaro presso un usuraio. Sulla soglia dell’usuraio, mentre questo individuo sgradevole ma necessario gli stava accanto, egli vide passare per via una donna.
    Il suo volto, anche se non il suo abbigliamento, era quello di Morthylla; e vi era persino lo stesso minuscolo neo a un angolo della bocca. Nessun fantasma del cimitero avrebbe potuto sconvolgerlo o sbigottirlo più profondamente.
    - Chi è quella donna? – chiese all’usuraio. – La conosci?
    - Il suo nome è Beldith. È molto nota a Psiom, poiché è ricca e ha avuto numerosi amanti. Ho avuto a che fare con lei, sebbene ora ella non mi debba nulla. Vorresti conoscerla? Potrei facilmente presentarti a lei.
    - Sì, vorrei incontrarla – disse Valzain. – Somiglia stranamente a qualcuna che conoscevo molto tempo fa.
    L’usuraio scrutò ironico il poeta. – Potrebbe essere una conquista non facile. In questi ultimi tempi, dicono, si è ritirata dai piaceri della città. Alcuni l’hanno veduta avviarsi la notte verso la vecchia necropoli, o tornare da essa alle prime luci dell’alba. Strani gusti, direi, per una che è poco più di una cortigiana. Ma forse si reca a incontrare qualche amante eccentrico.
    - Insegnami la via per giungere alla sua casa – chiese Valzain. – Non avrò bisogno che tu mi presenti.
    - Come vuoi. – L’usuraio scrollò le spalle, leggermente deluso. – Del resto non è lontana.
    Valzain trovò subito la casa. La donna, Beldith, era sola. Lo accolse con un sorriso malinconico e turbato che non lasciva dubbi sulla sua identità.
    - Mi accorgo che hai appreso la verità, - disse. – Intendevo rivelartela presto, perché l’inganno non poteva continuare ancora a lungo. Non vuoi perdonarmi?
    - Ti perdono – rispose tristemente Valzain. – Ma perché mi hai ingannato?
    - Perché tu lo desideravi. Una donna cerca di compiacere l’uomo che ama: e in ogni amore vi è sempre un po’ d’inganno.
    - Come te, Valzain, mi ero stancata dei piaceri. E ho cercato la solitudine della necropoli, così remota dalle cose carnali. Poi sei venuto anche tu, cercando solitudine e pace… o qualche spettro ultraterreno. Ti ho subito riconosciuto. E avevo letto le tue poesie. Conoscendo la leggenda di Morthylla, ho pensato di giocare con te: e giocando, ho preso ad amarti… Valzain, tu mi hai amata come la lamia. Non puoi amarmi ora per ciò che sono?
    - Non è possibile – dichiarò il poeta. – Temo il ripetersi della delusione che ho trovato nelle altre donne. Eppure ti sono riconoscente per le ore che mi hai dato. Sono state le più belle che io abbia conosciuto… anche se ho amato qualcosa che non esisteva e non poteva esistere. Addio, Morthylla. Addio, Beldith.
    Quando egli se ne fu andato, Beldith si distese bocconi tra i cuscini del suo giaciglio. Pianse un poco, e le lacrime formarono una chiazza umida che si asciugò presto. Più tardi si alzò energicamente e si occupò delle faccende della sua casa.
    Dopo qualche tempo ella ritornò agli amori e alle baldorie di Psiom. Forse, alla fine, trovò la pace che può appartenere soltanto a coloro che sono troppo vecchi per i piaceri.
    Ma per Valzain non vi fu pace, né balsamo per sanare quell’ultima disillusione, la più amara di tutte. Non poté ritornare alle carnalità della vita di un tempo. E perciò finì per uccidersi, recidendosi la gola con un coltello affilato nello stesso punto in cui i denti della falsa lamia erano affondati facendo spicciare un po’ di sangue.
    Dopo la morte, egli dimenticò di essere morto: dimenticò il passato immediato, con tutti i suoi avvenimenti.
    Dopo la sua conversazione con Famurza, egli ne aveva lasciato la casa e aveva preso la strada che passava accanto al cimitero abbandonato. Preso dall’impulso di visitarlo, aveva salito l’erta verso i marmi, sotto la luce crescente che saliva dietro di lui.
    Giunto all’ampio spiazzo alla sommità, dove tassi nani morenti disputavano a rovi privi di foglie gli spazi tra le lapidi chiazzate di licheni, ricordò la leggenda cui aveva accennato Famurza, la lamia che si diceva infestasse la necropoli. Famurza, egli lo sapeva bene, non credeva a tali leggende, e aveva inteso soltanto burlare il suo umore funereo. Eppure, poiché era un poeta, cominciò a baloccarsi con la fantasia di una presenza, immortale, bellissima e perversa, che dimorasse tra i marmi antichi e rispondesse all’evocazione di chi, senza una credenza sicura, aveva aspirato invano a visioni dell’aldilà.
    Tra le file di lapidi, nella solitudine illuminata dalla luna, egli giunse a un maestoso mausoleo, ancora eretto con poche tracce di rovina al centro del cimitero. Sotto di esso, gli era stato detto, vi erano ampie cripte che ospitavano le mummie d’una famiglia reale estinta, che aveva regnato sulle città gemelle di Umbri e Psiom nei secoli precedenti. La principessa Morthylla era appartenuta a quella dinastia.
    Con suo grande sbalordimento una donna, o ciò che pareva tale, era seduta su di una colonna caduta accanto al mausoleo. Non poteva scorgerla distintamente: l’ombra della tomba l’avvolgeva ancora dalle spalle in giù. Solo il volto, che luceva fiocamente, era levato verso la luna nascente. Il profilo era simile a quelli che egli aveva veduto su antiche monete.
    - Chi sei? - chiese, con una curiosità che sopraffaceva la cortesia.
    - Io sono la lamia Morthylla - ella rispose.



    * da L’Universo Zothique (Nord, 1992)