Questo tipo di giustapposizione, tra le
due istanze fondamentali della vita psichica, riscuote sempre il nostro assenso immediato,
in quanto da sempre l'uomo è inconsciamente alla ricerca di un equilibrio perfetto, di
una omeostasi fra impulso e struttura, fra immediatezza e ragione.
Dunque il l.m. avrebbe la straordinaria
peculiarità di farci baluginare, attraverso la caratteristica struttura linguistica di
coesione simultanea fra significante e significato, una visione simultanea assai più
ancestrale e più vicina al nostro perturbato mondo emotivo.
Alla luce di quanto è stato
succintamente richiamato il l.m. ci trasmette tramite un codice allusivo, indubbiamente
privilegiato per metafora strutturale, dei veri modelli di realtà (che sono poi le
visioni del mondo delle varie epoche della nostra storia) in cui la musica vive.
Il linguaggio di Palestrina, ad esempio, ci mostra la serenità estatica
ed inattaccabile del rinascimento, giustamente definito lo stile delle forme che posano,
attraverso l'equilibri perfetto, esistente nel linguaggio del polifonista romano, fra
contrappunto, melodia e armonia.
L'equilibrio, è opportuno
ricordarlo, consta di una sapiente mediazione fra la tecnica contrappuntistica, acquisita
dai maestri fiamminghi, e l'atmosfera melodico-armonica più tipica del mondo
mediterraneo.
Ma questo modello di realtà,
espresso dal linguaggio palestriniano, ci riconduce, in verità, all'archetipo eterno
dell'ordine cosmico, che è poi ciò cui tendeva lo stesso linguaggio rinascimentale.
La trasparenza nell'ordito
contrappuntistico di Palestrina sembra stagliarsi luminosa, come un vero e proprio modello
linguistico del mondo rinascimentale attraverso il quale riluce un archetipo, quello
rasserenante dell'equilibrio e della simmetria cosmica che, se da una parte è figlio
dell'epoca in questione, il rinascimento appunto, dall'altra è per noi divenuto un
retaggio interiore legato alla nostra origine.
Poichè il rinascimento fa parte ormai della nostra storia concettuale i suoi
contenuti sono per noi come ingredienti, vissuti dalla nostra identità più profonda
anche se consapevolmente o inconsapevolmente. A parlare di archetipi significa
evocare la figura di Jung, il padre indiscusso della cultura moderna del termine, del
concetto di archetipo.
Contrariamente a Freud - che
identificava nel patrimonio originario gli istinti libidici con forte coloritura sessuale
"la dimensione psicologica in cui l'uomo può riallacciarsi alla propria origine più
profonda" - Jung ravvedeva nel rapporto inconscio fra l'animo umano e il retaggio
ancestrale di simboli e significati contenuti nel mondo archetipale, la possibilità, per
l'uomo, di congiungersi con l'origine e riappropriarsi così della propria identità più
autentica. In questo senso la concezione di archetipo assume i lineamenti di una
certezza infondata per definirla con una terminologia propria del pensiero di Wittgestein.
La certezza infondata è un retaggio acquisito, che noi sentiamo come certo e
indubitabile, senza bisogno di fondarlo intellettualmente, essendo e trattandosi di un
valore sostanzialmente implicito nella memoria culturale della specie.
In questa accezione la parola
"infondato" assume un valore accrescitivo, poichè indica e determina una
certezza che non ha bisogno di una fondazione semantica concettuale aprioristica. Si
mostra nella sua chiarezza, nella sua dadità e in tutta la sua pienezza.
Il linguaggio musicale rende ancora più
immediata la percezione di questa certezza "infondata" dell'archetipo, perchè
lo mostra, lo raffigura allusivamente e ce lo fa pervenire quasi in modo sottocutaneo,
mandandoci un messaggio preciso di tipo archetipale.
Abbiamo visto che la
musica è un linguaggio assoluto che mostra allusivamente, senza esprimere esplicitamemte
dei contenuti concettuali tramite la disposizione del proprio ordito sintattico,
dall'altra parte i contenuti concettuali che il l.m. mostra allusivamente sono dei veri
modelli di realtà pertinenti all'epoca culturale in cui il linguaggio musicale vive e
divenuti per noi, proprio per una sedimentazione inconscia, degli archetipi, dei modelli
assoluti.
Dunque possiamo dire che il l.m. è un linguaggio assoluto, che mostra delle certezze
infondate. Tali sono, come è stato dimostrato, gli archetipi. Il l.m. riesce così a
conciliare un assoluto dedotto dall'alto, cioè la natura intellettualmente predeterminata
della struttura del l.m., con un assoluto emergente dal basso, cioè da un assenso emotivo
immediato.
Con Beethoven ci troviamo di fronte all'archetipo della irripetibilità,
della soggettività singola che vuole da una parte si, legittimarsi alla luce della
tradizione del retaggio della forma, però che vuole anche esistere al di fuori, per certi
versi, dalla costringente struttura ed esprimersi nella sua totale immediatezza.
Una dialettica drammatica fra
particolare e universale che Beethoven esaspera e porta una tensione assoluta proprio per
questa sua componente, allo stesso tempo romantica ma anche eticamente classica. Di voler
dire il tutto nella sua immediatezza del lato romantico del suo carattere e allo stesso
tempo gratificarsi alla luce della tradizione della grande forma. In questo orizzonte,
particolarmente significativo è il terzo stile beethoveniano, quello problematico e più
eroico, dove Beethoven ha la percezione che il linguaggio della forma della tradizione non
riesce più a dire il mondo.
E' un linguaggio che sta estinguendosi e
in cui la società del suo tempo dopo il congresso di Vienna e la restaurazione non si
riconosce più. Per cui Beethoven radicalizza contrariamente ai musicisti immediatamente
successivi a lui come Schubert. Beethoven radicalizza una ricerca di ontologia della
struttura e torna all'indietro, addirittura si mette a praticare la forma della fuga che
è particolarmente presente in molte sonate dell'ultimo stile.
Vi è cioè una tendenza di Beethoven a
volere ripristinare, ricongiungersi a un'origine assoluta della classicità (addirittura
la fuga che rappresenta il modello bachiano per eccellenza) e dall'altro canto una
tensione drammatica del linguaggio verso l'inesprimibile, verso una tenzone che è protesa
a valicare il muro di sottaciuta incomprensione che circondava l'ultimo Beethoven.
Infatti il linguaggio dell'ultimo stile
beethoveniano è contratto, aforistico, per certi aspetti condensato. La propensione che
assistiamo, portati dagli esiti estremi, è quella di voler dire tutto, la vita, il mondo,
la profondità inesauribile del vissuto nella sua immediata intensità. Ma nello
stesso tempo voler autenticarsi nella tradizione cui il tutto, la totalità della vita, la
tradizione sembra sfuggire.
L'assoluto diviene così nell'ultimo
Beethoven, non ciò che sta al di là del linguaggio come nell'accezione bachiana o
dantesca, nel mondo che precede l'avvento dell'illuminismo e dell'idealismo tedesco. Non
è più assoluto ciò che sta al di là del dicibile del linguaggio, ma l'assoluto diventa
ciò che si contrappone dialetticamente e agonisticamente al linguaggio.
Una fuga assolutamente innaturale, che
già nel soggetto e nel tema mostra la sua atipicità, rispetto al modello canonico di
ascendenza bachiana. C'è in questa fuga, da una parte la volontà di far tornare i conti,
dal punto di vista contrappuntistico, imitativo - secondo i criteri tradizionali della
fuga - ma dall'altra un'emergenza disperata della soggettività che vuole dire se stessa e
che vuole trascendere i limiti precostituiti dalla forma. Verso la fine della sonata, il
linguaggio contrappuntistico della fuga viene abbandonato e riemerge la caratteristica
dolente, sofferente, allo stesso tempo lirica e per certi aspetti introvertita del più
autentico linguaggio dell'epoca beethoveniana.
E in questo orizzonte concettuale fra
l'altro va inserito l'elogio di Schonberg a Webern, secondo cui Webern era capace di
esprimere un romanzo in un sospiro.
Alla luce di quanto esposto si può
ribadire che il linguaggio musicale ci offre come una sorta di sogno lirico, attraverso il
quale è possibile contemplare il vissuto concettuale della nostra storia.
Questa contemplazione avviene si con i
toni allusivi e non metaforici del sogno, ma anche con l'intensità concettuale propria
del pensiero.
Vi è una citazione dall'ultima e forse
più enigmatica opera di Shakespeare, che sembra potersi riferire, in chiave traslata,
alla musica intesa come sogno concettuale secondo quanto asserito.
Scrive infatti Shakespeare: noi siamo
fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni e la nostra piccola vita è
circondanta dal sonno. Con queste parole Shakespeare sembra dire che la nostra vita
cosciente è in realtà un sogno. E allora si può aggiungere che tramite la musica che fa
parte del nostro mondo cosciente, noi sogniamo gli archetipi, i modelli assoluti di cui è
disseminata e a cui si ispira la nostra vita.
Un estremo, rarefatto linguaggio che si
colloca al tramonto della grande tradizione culturale dell'occidente. La sua castità
semantica così tesa verso l'indicibile ci ricorda ciò che sosteneva Nietzsche quando
affermava che attraverso la musica noi possiamo ascoltare il ritmo dell'essere.
E d'altro canto la dimensione estatica del suono weberniano che radicalizza in termini
più astratti una propensione, che già fu di Debussy, questa sorta di terso stupore
insito nel linguaggio e nella poetica di A. Webern sembra consegnarci in termini di puri
suoni il postulato di Wittgestein secondo cui: "non come il mondo è ma che
esso è, questo è il mistico ".