Frédèric Bastiat (1801-1850) coniugava lo studioso di grande chiarezza all'umorista devastante. Agli studi di economia si era peraltro dedicato dopo i fallimenti conseguiti negli affari. Ottenne vasta notorietà con un articolo sui dazi inglesi e francesi cui seguirono i Sophisme economique. Assertore del laissez-faire, avverso alla pena di morte, allo schiavismo e alle leggi che impedivano l'associazionismo operaio, nel 1948 fu eletto all'Assemblea Nazionale, ma dovette dimettersi, fra l'altro, per questioni di salute. Soffrendo di tubercolosi fin dall'infanzia, segnata pergiunta dalla precoce perdita dei famigliari, ritenne utile trasferirsi in Italia, dove tuttavia poco dopo morì. Era nato a Bayonne da genitori originari di Mugron, nelle Landes, dove crebbe e dove è stato eretto un monumento in suo onore. Essenzialmente relegato, in Europa, Francia compresa, ai soli studi accademici - e spesso in quella sorta di limbo riservato alle "curiosità" - Bastiat ottenne subito un incredibile successo negli Stati Uniti d'America, dove ancora oggi i suo pamphlet, come La Loi vengono ristampati in migliaia di copie.

lo Stato

Frédéric Bastiat


Vorrei che si istituisse un premio, non di cinquecento franchi, ma di un milione, con corone, croci e nastri, in favore di colui che fornisse una buona, semplice e intellegibile definizione di questa parola: lo Stato. Che immenso servigio renderebbe alla società! Lo Stato! Che cos'è? Dov'è? Cosa fa? Che cosa dovrebbe fare? Tutto ciò che ne sappiamo, è che è un personaggio misterioso, e sicuramente il più sollecitato, il più tormentato, il più affaccendato, il più consigliato, il più accusato, il più invocato e il più provocato che ci sia al mondo. Poiché, Signore, non ho l'onore di conoscervi, ma scommetto dieci contro uno che da sei mesi voi concepite delle utopie; e se le concepite, scommetto dieci contro uno che incaricate lo Stato di realizzarle. E voi, Signora, sono sicuro che voi desiderate dal profondo del cuore guarire tutti i mali della triste umanità, e che non sareste per nulla imbarazzata se solo lo Stato volesse prestarsi a ciò. Ma ahimè! lo sfortunato, come Figaro, non sa chi ascoltare, né da quale parte voltarsi. Le centomila bocche della stampa e della tribuna gli gridano all'unisono: "Organizzate il lavoro e i lavoratori. Estirpate l'egoismo. Reprimete l'insolenza e la tirannia del capitale. Fate esperimenti sul letame e sulle uova. Tappezzate il paese di binari ferroviari. Irrigate le pianure. Rimboschite le montagne. Fondate fattorie sperimentali. Colonizzate l'Algeria. Allattate i bambini. Istruite i giovani. Assistete gli anziani. Inviate nelle campagne gli abitanti delle città. Equilibrate i profitti di tutte le industrie. Prestate soldi, e senza interesse, a coloro che lo desiderano. Liberate l'Italia, la Polonia e l'Ungheria. Allevate e perfezionate il cavallo da sella. Incoraggiate l'arte, dateci dei musicisti e delle danzatrici. Proibite il commercio e, allo stesso tempo, create una marina mercantile. Scoprite la verità e gettate nelle nostre teste un granello di ragione. Lo Stato ha come missione illuminare, sviluppare, ingrandire, fortificare, spiritualizzare e santificare l'anima dei popoli." "Eh! Signori, un po' di pazienza - risponde lo Stato - con aria abbacchiata." "Proverei a soddisfare i vostri desideri, ma per far ciò ho bisogno di qualche risorsa. Ho preparato dei progetti concernenti cinque o sei imposte del tutto nuove e le più benigne del mondo. Vedrete che piacere a pagarle." Ma allora un gran grido si alza: "Dagli! dagli! la bravura di fare qualcosa con le risorse! Non varrebbe la pena di chiamarsi 'lo Stato'. Lungi da noi il voler istituire nuove tasse, vi intimiamo di ritirare le vecchie. Sopprimete: L'imposta sul sale; L'imposta sulle bevande; L'imposta sulle lettere; L'imposta di consumo; Le patenti; Le prestazioni." In mezzo a questo tumulto, e dopo che il paese ha cambiato due o tre volte il suo Stato perché quest'ultimo non ha soddisfatto tutte le sue richieste, ho voluto far osservare che esse erano contraddittorie. A che cosa mi sono azzardato, buon Dio! non potevo tenere per me questa malaugurata osservazione? Eccomi screditato per sempre; ed è ora acquisito che sono un uomo senza cuore e senza viscere, un filosofo arido, un individualista, un borghese, e, in una parola, un economista di scuola inglese o americana. Oh! perdonatemi, scrittori sublimi, che nulla riesce a fermare, nemmeno le contraddizioni. Ho torto, senza dubbio, e mi ritiro molto volentieri. Non chiedo di meglio, siatene certi, che abbiate veramente scoperto, al di fuori di noi, un essere caritatevole e inesauribile, che si chiama Stato, che ha pane per tutte le bocche, lavoro per tutte le braccia, capitali per tutte le imprese, credito per tutti i progetti, unguento per tutte le piaghe, balsamo per tutte le sofferenze, consigli per tutte le perplessità, soluzioni per tutti i dubbi, verità per tutte le intelligenze, distrazioni per tutte le noie, latte per l'infanzia, vino per la vecchiaia, che provveda a tutti i nostri bisogni, prevenga tutti i nostri desideri, soddisfi tutte le nostre curiosità, corregga tutti i nostri errori, tutte le nostre mancanze, e ci risparmi tutti per sempre dal dover usare preveggenza, prudenza, giudizio, sagacità, esperienza, ordine, economia, temperanza e attività. E perché io non lo desidererei? Dio mi perdoni, più ci rifletto, più trovo che la cosa è comoda, e non vedo l'ora di avere, anch'io, alla mia portata, questa sorgente inesauribile di ricchezze e di lumi, questo medicamento universale, questo tesoro senza fondo, questo consigliere infallibile che voi chiamate "Stato". Inoltre chiedo che me lo si mostri, che me lo si definisca, e per questo propongo l'istituzione di un premio per il primo che scoprirà questa fenice. Infine, mi si riconoscerà che questa scoperta preziosa non è ancora stata fatta, poiché, fin qui, tutto ciò che si presenta sotto il nome di Stato, il popolo lo rovescia subito, proprio perché esso non colma le condizioni in qualche modo contraddittorie del suo programma. Bisogna dirlo? Credo che noi non siamo, a questo riguardo, vittime di una delle più bizzarre illusioni che si siano mai impadronite dello spirito umano. L'uomo prova ripugnanza alla Pena, alla Sofferenza. E allo stesso tempo è condannato dalla natura alla Sofferenza della Privazione, se non si prende la Pena del Lavoro. Può scegliere, quindi, solo fra questi due mali. Come fare per evitarli entrambi? Finora non ha trovato e non troverà che un solo mezzo: quello del beneficiare del lavoro altrui; quello di fare in modo che la Pena e la Soddisfazione non calino su ciascuno secondo proporzione naturale, ma che tutta la pena sia per alcuni e tutte le soddisfazioni per altri. Da ciò la schiavitù, da ciò ancora la spoliazione, qualunque sia la forma che assume: guerre, imposture, violenze, restrizioni, frodi, ecc., abusi mostruosi, ma conseguenti al pensiero che li ha originati. Dobbiamo odiare e combattere gli oppressori, non si può dire che siano assurdi. La schiavitù se ne va, grazie al Cielo, e, questa disposizione che abbiamo a difendere il nostro bene, fa in modo che la Spoliazione diretta e ingenua, non sia facile. Ciononostante qualcosa è rimasto. È questa maledetta inclinazione primitiva che tutti gli uomini portano in sé a fare due parti dell'insieme complesso della vita, gettando la Pena sugli altri e tenendo la Soddisfazione per sé stessi. Resta da vedere sotto quale nuova forma si manifesta questa triste tendenza. L'oppressore non agisce più direttamente con le proprie forze sull'oppresso. No, la nostra coscienza è diventata troppo meticolosa per permetterci di fare ciò. Ci sono ancora il tiranno e la vittima, ma tra loro si mette un intermediario che è lo Stato, cioè la legge stessa. Cosa di più indicato per far tacere i nostri scrupoli e, ciò che è forse più apprezzato, a vincere le resistenze? Dunque, tutti, a un titolo qualunque, con un pretesto o con un altro, ci rivolgiamo allo Stato. Gli diciamo: "Non trovo che ci sia, tra i miei godimenti e il mio lavoro, una proporzione che mi soddisfi. Vorrei, per stabilire l'equilibrio desiderato, appropriarmi appena un pochino dei beni altrui. Ma è pericoloso. Non potreste facilitarmi la cosa? Non potreste darmi un buon impiego? O intralciare il lavoro dei miei concorrenti? O ancora prestarmi dei capitali che voi avrete sottratto ai loro possessori? O allevare i miei figli a spese della collettività? O accordarmi degli incentivi economici? O assicurarmi il benessere quando avrò cinquant'anni? Attraverso ciò, arriverò al mio scopo, con la coscienza del tutto tranquilla, poiché la legge stessa avrà agito per me, e avrò tutti i vantaggi della spoliazione senza sobbarcarmi né i rischi né l'odiosità! Come è certo che, da una parte, rivolgiamo tutti allo Stato qualche richiesta simile, e che, dall'altra, è assodato che lo Stato non può procurare soddisfazioni a taluni senza aumentare il lavoro degli altri, in attesa di un'altra definizione di "Stato", mi sento autorizzato a dare qui la mia. Chissà se questa vincerà il premio? Eccola: Lo Stato, è la grande finzione attraverso la quale tutti si sforzano di vivere sulle spalle degli altri. Perché, oggi come sempre, ciascuno, chi più chi meno, vorrebbe usufruire del lavoro altrui. Questo sentimento, non osiamo ostentarlo, ce lo nascondiamo da soli; e allora cosa facciamo? Immaginiamo un intermediario, ci rivolgiamo allo Stato, e ogni classe volta per volta viene a dirgli: "Voi che potete prendere legalmente, onestamente, prendete alla comunità, e noi faremo le parti." Ahimè! Lo Stato ha fin troppa inclinazione naturale a seguire il diabolico consiglio; poiché è composto di ministri, di funzionari, di uomini in fin dei conti, che, come tutti gli uomini, portano nel cuore il desiderio e afferrano sempre con sollecitudine ogni occasione di veder aumentare le loro ricchezze e la loro influenza. Lo Stato comprende dunque molto presto i vantaggi che può trarre dal ruolo che la gente gli assegna. Sarà l'arbitro, il maestro di tutti i destini: prenderà molto, quindi conserverà molto per se stesso; moltiplicherà il numero dei suoi agenti, allargherà la cerchia delle mansioni; finirà per raggiungere dimensioni opprimenti. Ma quello che bisogna sottolineare, è la stupefacente cecità del pubblico in tutto ciò. Quando dei soldati felici riducevano i vinti in schiavitù, erano barbari, ma non erano assurdi. Il loro scopo, come il nostro, era di vivere a spese degli altri; ma, come noi, non lo evitavano. Che cosa dobbiamo pensare di un popolo presso il quale non sembra che si dubiti sul fatto che il saccheggio reciproco non è meno saccheggio perché reciproco; che non è meno criminale perché si esegue legalmente e con ordine; che non aggiunge niente al benessere pubblico; che anzi lo diminuisce, di tutto ciò che ci costa questo dispendioso intermediario che noi chiamiamo Stato? E questa grande chimera, l'abbiamo messa, per edificare il popolo, sul frontespizio della Costituzione. Ecco le prime parole del preambolo: "La Francia si è costituita in Repubblica per... chiamare tutti i cittadini a un grado sempre più elevato di moralità, di progresso intellettuale e di benessere." Così, è la Francia o l'astrazione, che chiama i Francesi o le realtà, alla moralità, al benessere, ecc. Non è forse esagerare in questa bizzarra illusione che ci porta ad aspettarci tutto da una energia che non è la nostra? Non è darsi ad intendere che c'è, vicino e al di sopra dei Francesi, un essere virtuoso, illuminato, ricco, che può e deve versare su di essi i suoi favori? Non è supporre, e di certo gratuitamente, che ci sia tra la Francia e i Francesi, tra la semplice denominazione sommaria, astratta, di tutte le individualità e queste stesse individualità, dei rapporti da padre a figlio, da tutore a pupillo, da professore a scolaro? So bene che si dice qualche volta metaforicamente: La patria è una tenera madre. Ma per prendere in flagrante delitto di vacuità la proposizione costituzionale, è sufficiente mostrare che essa può essere ribaltata, non certo senza inconvenienti, ma di certo vantaggiosamente. La precisione ne soffrirebbe se il preambolo avesse detto: "I Francesi si sono costituiti in Repubblica per chiamare la Francia a un grado sempre più elevato di moralità, di progresso intellettuale e di benessere?" Ora, qual' è il valore di un assioma in cui soggetto e complemento possono scambiarsi senza inconvenienti? Tutti capiscono se diciamo: la madre allatterà il figlio. Ma sarebbe ridicolo dire: il figlio allatterà la madre. Gli Americani si sono fatti un'altra idea delle relazioni dei cittadini con lo Stato, quando hanno messo in cima alla loro costituzione queste semplici parole: "Noi, il popolo degli Stati Uniti, per formare un'unione più perfetta, stabilire la giustizia, assicurare la tranquillità interna, pervenire alla difesa comune, accrescere il benessere generale e assicurare i benefici della libertà a noi stessi e ai nostri posteri, decretiamo, ecc." In queste parole nessuna creazione chimerica, nessuna astrazione alla quale i cittadini chiedono tutto. Non si aspettano nulla se non da loro stessi e dalla loro propria energia. Se mi sono permesso di criticare i primi passi della nostra Costituzione, è perché non si tratta, come si potrebbe credere, di una pura sottigliezza metafisica. Sostengo che questa personificazione dello Stato è stata nel passato e sarà nell'avvenire una fonte feconda di calamità e di rivoluzioni. Ecco la gente da una parte, lo Stato dall'altra, considerati come due esseri distinti, quest'ultimo tenuto a spargere sul primo, e il primo avente il diritto di reclamare dal secondo il torrente delle felicità umane. Che cosa deve succedere? Tutto sommato, lo Stato è abile, non è monco e non può esserlo. Ha due mani, una per ricevere e l'altra per dare, in altri termini, la mano dura e la mano dolce. L'attività della seconda è necessariamente subordinata all'attività della prima. Di regola, lo Stato può prendere e non rendere. Ciò si è visto e si spiega con la natura porosa e assorbente delle sue mani, che trattengono sempre una parte e qualche volta la totalità di ciò che toccano. Ma ciò che non si è mai visto, ciò che non si vedrà mai e non si può nemmeno concepire, è che lo Stato renda al pubblico più di quanto gli ha preso. È quindi oltremodo folle che attorno a lui assumiamo l'umile atteggiamento di mendicanti. È matematicamente impossibile che lui possa conferire un vantaggio particolare ad alcuni individui che costituiscono la comunità, senza infliggere un danno superiore alla comunità intera. Lo Stato è messo quindi, dalle nostre esigenze, in un circolo vizioso manifesto. Se rifiuta il bene che esigiamo da lui, è accusato di impotenza, di mal volere, di incapacità. Se prova a realizzarlo, è ridotto a colpire il popolo con tasse raddoppiate, a far più male che bene, ad attirarsi, per altro verso, la disaffezione generale. Così, nel pubblico troviamo speranze, nel governo due promesse: molti benefìci e niente tasse. Speranze e promesse che, essendo contraddittorie, non si realizzano mai. Non è là la causa di tutte le nostre rivoluzioni? Poiché, tra lo Stato che prodiga promesse impossibili, e il pubblico, che ha concepito delle speranze irrealizzabili, si interpongono due classi di uomini: gli ambiziosi e gli utopisti. Il loro ruolo è disegnato da questa situazione. A questi cortigiani della popolarità basta gridare alle orecchie del popolo: "Il potere ti inganna; se noi fossimo al suo posto, ti riempiremmo di benefìci e ti alleggeriremmo dalle tasse". E il popolo crede, e il popolo spera, e il popolo fa una rivoluzione. "Datemi dunque del lavoro, del pane, dei soccorsi, del credito, istruzione, colonie, dice il popolo, e allo stesso tempo, secondo le vostre promesse, liberatemi dalla morsa del fisco". Il nuovo Stato, non è meno imbarazzato del vecchio Stato, poiché, su cose impossibili, si può certamente promettere ma mai mantenere. Cerca di prendere tempo, gliene occorre per far maturare i suoi grandi progetti. Prima, fa qualche timido tentativo; da una parte estende un tantino l'istruzione primaria; dall'altra ritocca un po' l'imposta sulle bevande (1830). Ma la contraddizione gli si para sempre davanti: se vuole essere filantropo, è costretto a restare fiscale; se rinuncia alla fiscalità, bisogna che rinunci alla filantropia. Queste due promesse si scontrano sempre e necessariamente l'una con l'altra. Consumare credito, cioè divorare l'avvenire, è proprio un mezzo attuale di conciliarle; si cerca di fare un po' di bene nel presente caricandosi di molto male in avvenire. Ma questo processo evoca lo spettro della bancarotta che allontana il credito. Che fare dunque? Allora il nuovo Stato prende coraggio; raduna forze per mantenersi, soffoca le opinioni, diventa dispotico, ridicolizza le sue vecchie massime, dichiara che per amministrare bisogna essere impopolari; in breve, si dichiara governativo. Ed è così che altri cortigiani della popolarità l'aspettano al varco. Sfruttano la stessa illusione, percorrono la stessa via, ottengono lo stesso successo, e sprofondano presto nello stesso baratro. È così che siamo arrivati al Febbraio. A quell'epoca, l'illusione che è il soggetto di questo articolo era penetrata più che mai nelle idee del popolo, con le dottrine socialiste. Più che mai, si aspettavano che lo Stato sotto forma di repubblica, aprisse del tutto la sorgente dei benefìci e fermasse quella delle imposte. "Mi hanno spesso ingannato, diceva il popolo, ma vigilerò io stesso affinché non mi si inganni ancora una volta". Che poteva fare il governo provvisorio? Ahimè! ciò che si fa sempre in situazioni simili: promettere, e guadagnare tempo. Non si astenne dal farlo, e per dare alle sue promesse più solennità, le fissò in dei decreti. "Aumento del benessere, diminuzione del lavoro, soccorso, credito, istruzione gratuita, colonie agricole, e allo stesso tempo riduzione delle tasse sul sale, sulle bevande, sulle lettere, sulla carne, tutto sarà accordato... venga l'Assemblea nazionale". L'Assemblea nazionale è arrivata, e siccome non si possono realizzare due contraddizioni, il suo compito, il suo triste compito, si è limitata a ritirare, il più dolcemente possibile, uno dopo l'altro, tutti i decreti del governo provvisorio. Allo stesso tempo, per non rendere il disinganno troppo crudele, si è dovuto transigere un po'. Alcuni impegni sono stati mantenuti, ad altri è stato dato appena l'inizio all'esecuzione. Inoltre l'amministrazione attuale si sforza di immaginare nuove tasse. Ora porto il pensiero in avanti qualche mese, e mi chiedo, con la tristezza nel cuore, ciò che succederà quando nuovi agenti andranno nelle nostre campagne a prelevare le nuove imposte sulla successione, sui redditi, sui profitti delle attività agricole. Che il Cielo smentisca i miei presentimenti, ma là vedo ancora un ruolo da giocare per i cortigiani della popolarità. Leggete l'ultimo Manifesto dei Montanari, quello che hanno emesso a proposito delle elezioni presidenziali. È un po' lungo ma, dopotutto, si riassume in due parole: Lo Stato deve dare molto ai cittadini e prendere poco. È sempre la stessa tattica, o, se vogliamo, lo stesso errore. "Lo Stato deve dare gratuitamente l'istruzione e l'educazione ai cittadini". Deve: "Un insegnamento generale e professionale quanto più possibile appropriato, ai bisogni, alle vocazioni e alle capacità di ogni cittadino". Deve: "Insegnargli i doveri nei confronti di Dio, degli uomini e di esso stesso; sviluppare i suoi sentimenti, le sue attitudini e le sue facoltà, dargli infine la scienza del suo lavoro, l'intelligenza dei suoi interessi e la conoscenza dei suoi diritti". Deve: "Mettere alla portata di tutti le lettere e le arti, il patrimonio del pensiero, i tesori dello spirito, tutte le gioie intellettuali che elevano e fortificano l'anima". Deve: "Riparare ogni incidente, incendio, inondazione, ecc. (questo etcaetera dice più della sua effettiva dimensione) di cui il cittadino sia vittima". Deve: "Intervenire nei rapporti del capitale col lavoro e farsi regolatore del credito". Deve: "Incoraggiare seriamente l'agricoltura e proteggerla efficacemente". Deve: "Comprare le ferrovie, i canali, le miniere," e senza dubbio anche amministrarle con quella capacità imprenditoriale che lo caratterizza. Deve: "Provocare i tentativi generosi, incoraggiarli e aiutarli attraverso tutte le risorse capaci di farli trionfare. Regolatore del credito, finanzierà largamente le associazioni industriali e agricole, alfine di assicurarne il successo". Lo Stato deve fare tutto ciò, senza penalizzare i servizi ai quali fa fronte oggi; e, per esempio, bisogna che assuma sempre nei confronti degli stranieri un atteggiamento minaccioso; poiché, dicono i firmatari del programma, "legati da questa solidarietà santa e dai precedenti della Francia repubblicana, noi portiamo le nostre voci e le nostre speranze al di là delle barriere che il dispotismo eleva tra le nazioni: il diritto che noi vogliamo per noi stessi, lo vogliamo per tutti coloro che sono oppressi dal giogo della tirannia; vogliamo che la nostra gloriosa armata sia ancora, se bisogna, l'armata della libertà". Vedete che la mano dolce dello Stato, questa buona mano che dà e dispensa, sarà molto occupata sotto il governo dei montanari. Credete forse che lo sarà meno la mano rude, quella mano che penetra e attinge nelle nostre tasche? Ricredetevi. I cortigiani della popolarità non eserciterebbero il loro mestiere, se non avessero l'abilità, mostrando la mano dolce, di nascondere la mano rude. Il loro regno sarà sicuramente il giubileo del contribuente. "È il superfluo, dicono, non il necessario che le imposte devono colpire." Pensiamo che staremo bene solo quando, per accordarci dei benefìci, il fisco si accontenterà di intaccare il superfluo? Non è tutto. I montanari aspirano a che "l'imposta perda il suo carattere oppressivo e sia solo un atto di fratellanza". Bontà del cielo! sapevo bene che è di moda ficcare la fratellanza dappertutto, ma non immaginavo che la si potesse mettere nel bollettino dell'esattore. Venendo ai dettagli, i firmatari del programma dicono: "Noi vogliamo l'abolizione immediata delle imposte che colpiscono i generi di prima necessità, come il sale, le bevande, etcaetera. "La riforma delle imposte fondiarie, delle concessioni, delle patenti. "La giustizia gratuita, cioè la semplificazione delle procedure e la riduzione dei costi." Così, imposta fondiaria, concessioni, patenti, timbri, sale, bevande, poste, vi si comprende tutto. Questi signori hanno scoperto il segreto per dare un'attività frenetica alla mano dolce dello Stato paralizzando completamente la sua mano rude. Ebbene, lo chiedo al lettore imparziale, non è questo infantilismo, e, di più, infantilismo pericoloso? Come pretendere che il popolo non farà rivoluzione su rivoluzione, se si è deciso una volta a non fermarsi finché non avrà realizzato questa contraddizione: "Non dare niente allo Stato e riceverne molto!" Crediamo che se i montanari arrivassero al potere, non sarebbero vittime dei mezzi che impiegano per raggiungerlo? Cittadini, in ogni tempo si sono avuti due sistemi politici, e tutt'e due si possono per buone ragioni sostenere. Secondo l'uno, lo Stato deve fare molto, ma deve anche prendere molto. Poi l'altro, questa doppia azione si deve sentire poco. Bisogna scegliere fra questi due sistemi. Ma quanto al terzo sistema, miscuglio degli altri due, e che consiste nell'esigere tutto dallo Stato senza dargli niente, è assurdo, puerile, contraddittorio, pericoloso. Coloro che lo sbandierano, per darsi il piacere di accusare tutti i governi d'impotenza ed esporli così ai vostri colpi, vi illudono e vi ingannano, o per lo meno si ingannano da soli. Quanto a noi, noi pensiamo che lo Stato, è, o dovrebbe essere, solo la forza comune istituita, non per essere uno strumento di oppressione e spoliazione reciproca tra tutti i cittadini, ma, al contrario, per garantire a ciascuno il suo, e fare regnare la giustizia e la sicurezza.

"Journal des Débats", 25 settembre 1848

(traduzione di Fabio Lazzarin)

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