I Nostri Poeti

 

BEPPE MARIANO

SCENARI DI CONGEDO

Il commento del prof. Scavino nella serata di presentazione al Teatro Milanollo

aprile 1997

 

SCENARI DI CONGEDO

Prima di parlare dell'ultima raccolta poetica di Beppe Mariano, "Scenari di congedo", mi pare opportuna una breve riflessione, suggerita dalla frase iniziale che si legge nella postfazione al volume: "è vero che la voce della poesia è voce assoluta". Una affermazione che ogni studioso dei problemi della letteratura non può fare a meno di condividere.

Come studioso ritengo però irrinunciabile il rigore del linguaggio. Il termine "assoluto" significa "sciolto" da ogni altra considerazione o fatto, o valore che possa costituire per il poeta un limite. Significa che la poesia non può essere subordinata a nessuna altra cosa, e a nessun valore per nobile che sia. Significa anche che la poesia nasce senza uno scopo. Essa appartiene, per usare l'espressione della "Critica del giudizio" di Kant, alla sfera della "finalità senza fine". Essa cioè non si propone alcun fine pratico, perchè quando se lo assegna, cessa di essere poesia e diventa il surrogato di qualche altra cosa.

La poesia non è persuasione, non è celebrazione. E' vero che l'arte educa, ma non si propone di per sè il compito di educare. E' vero che risana le ferite della civiltà, ricuce la frattura tra l'uomo e la natura, tra l'intelletto e i sensi, e riconcilia l'uomo col mondo, ma non si propone questi risultati come uno scopo. Non ha neppure il fine di stupire, come credevano i poeti del Seicento, nè di agire coi suoi strumenti sull'apparato emozionale del lettore. In questo fatto, cioè nella presenza o assenza di un fine pratico, sta la distinzione tra la poesia e la retorica, una distinzione che la nostra tradizione umanistica, dalla quale siamo stati educati (o diseducati), ha cercato per secoli di cancellare. Perciò anche il compito dello studioso, non sarà quello di classificare i poeti, di catalogarli, o di costituire, secondo l'uso della retorica, delle gerarchie di valori.

Ogni poeta è una specie a sè, inconfondibile nel suo linguaggio e simile solo a se stesso. E' per questo motivo che ogni tentativo di imitazione o di riproduzione si rivela impossibile.

Di conseguenza anche il compito dello studioso non sarà quello di giudicare, ma quello molto più modesto di cercare di capire, di afferrare il messaggio contenuto nel testo poetico e di proporlo come ipotesi di lavoro, di porsi cioè come intermediario, entro i limiti naturalmente della sua cultura, fra il poeta e il fruitore della poesia, quello che viene di solito chiamato il comune lettore.

La poesia è dunque una voce, cioè un linguaggio, ma anche in questo caso si deve avvertire che essa non si propone lo scopo di comunicare. Il poeta scrive innanzitutto per sè stesso, non per gli altri. Questo spiega perchè la poesia sia una delle attività più universalmente coltivate, anche se tutti sanno che questo tipo di attività non porta alcun vantaggio materiale a chi la pratica. E questo spiega come la poesia sia spesso una voce nel deserto, che nessuno ascolta, nessuno raccoglie, perchè si preferisce tributare al poeta quegli elogi che non si negano a nessuno, anzichè cercare di interpretare il suo messaggio. Si preferisce dire che la poesia parla al cuore, per cercare di dimenticare che essa parla prima di tutto all'intelletto.

La poesia e l'arte nascono da un bisogno interiore di autoliberazione. Esse affondano le loro radici nella sofferenza dell'uomo. Ciò che Leopardi nel Canto ad Angelo Mai diceva della poesia italiana ("dal dolor comincia e nasce l'italo canto") proprio della poesia in quanto tale, nella sua specificità e nella sua universalità.

Non si tratta se non raramente di sofferenza fisica. Radice della poesia è piuttosto quella sofferenza morale che deriva dalla disarmonia del soggetto col mondo in cui vive, quella condizione psicologica a cui Freud in un celebre saggio del 1930 aveva dato il nome di "disagio della civiltà", che Montale in un suo testo chiama il "male di vivere", e che nella lirica inaugurale di "Scenari di congedo" definita da Beppe Mariano "il dolore inavvertito", la sofferenza a cui il poeta si è assuefatto come tutti gli altri esseri umani, ma alla quale, a differenza degli altri, non si è adeguato.

Dal "male di vivere" l'uomo comune si libera - e il testo di Montale a cui abbiamo accennato lo insegna - attraverso l'indifferenza, l'insensibilità, o l'istinto di rapina del "falco alto levato", che ricava il proprio vantaggio personale dal male comune e pertanto ne annulla a proprio beneficio gli effetti dolorosi. Il poeta e l'artista dal canto loro "estetizzano" il "male di vivere", cioè lo trasformano in opera d'arte. E allora, come scrive Beppe Mariano, "si versifica o si dipinge". Dalla sofferenza sublimata nasce la poesia, e nasce l'arte. Poesia e arte che esercitano una funzione liberatoria nei confronti della mente, dalla sofferenza quotidiana del vivere.

La scoperta del valore liberatorio della poesia e dell'arte risale ai tempi antichi. Aristotele aveva dato nella sua Poetica a questo fenomeno il nome di "catarsi". Il pensiero moderno ha ereditato la sua teoria e l'ha fatta propria ampliandone per˜ il significato. Nei primi decenni del nostro secolo Freud ne ha dato una formulazione scientifica, estendendo il raggio d'azione della catarsi dall'ambito della tragedia, a cui l'aveva confinata Aristotele, a tutto il complesso della produzione letteraria ed artistica, e la sua efficacia dai semplici fruitori dell'opera d'arte, all'artista stesso che l'ha creata.

La poesia nasce dunque da un bisogno di liberazione interiore. Secondo la teoria classica della psicoanalisi la creazione poetica, o artistica, è uno dei meccanismi di difesa dell'apparato psichico, è una delle alternative alla nevrosi o alla psicosi, alle tentazioni mortali, alla disperazione intellettuale. Noi sappiamo con certezza che la composizione del Werther costituÏ per Goethe l'alternativa al suicidio, e che la stessa funzione esercitò per Foscolo l'Ortis, e per Leopardi l'Infinito. Trasformando la realtà in finzione lo scrittore supera, attraverso l'esperienza estetica, le tentazioni mortali e afferma nuovamente la sua volontà di vivere.

Il "dolore inavvertito" è la consapevolezza inconscia che nel mondo nel quale viviamo la realtà storicamente esistente non corrisponde alla realtà logica, che il mondo e la società non soddisfano i bisogni dell'uomo, che l'ordine esistente è in realtà un ordine rovesciato che appare diritto solo per un errore di prospettiva, per effetto di illusione ottica, come il paesaggio che sembra fuggire quando è guardato dal treno in corsa.

Nei primi decenni del nostro secolo, nell'età del relativismo, il pensiero scientifico ha messo in dubbio quel sistema di certezze su cui l'uomo aveva fondato la propria sicurezza e posto le basi del suo equilibrio interiore. Ha messo in luce l'assenza, nel sistema di cose in cui viviamo, di ordine e di fini, ha messo in evidenza la distanza tra l'essere e il parere. I poeti hanno espresso il disagio sociale dell'uomo come conseguenza dell'alienazione che è la condizione comune di tutti gli esseri umani. CosÏ facendo ha perfettamente assolto la propria funzione.

Il contenuto della poesia è perciò universale, perchè il poeta nell'esprimerlo attinge ad un fondo di esperienza comune. Da questo fatto nasce una duplice conseguenza: che il lettore di un libro è innanzitutto lettore di se stesso, come ha scritto Proust nella "Recherche", perchè riconosce nell'esperienza dell'autore la sua propria esperienza, e in secondo luogo che il lettore immette nel libro che legge il proprio contenuto di esperienza in misura maggiore di quanto ne estrae, viene a sapere di sè stesso ciò che senza la lettura del libro non avrebbe mai saputo. L'opera letteraria diventa pertanto mediazione tra l'Io e il Sè, non solo dell'artista, ma anche del lettore.

Ma se il contenuto è universale, il linguaggio è sempre personale, perchè il poeta lo trae dal fondo della propria cultura e dalla propria esperienza recente, o anche passata che si sia impressa con maggiore forza nella sua mente. Questo spiega la frequenza con cui ricorrono in "Scenari di congedo" le immagini tratte dalla realtà impoetica, prosaica, in contraddizione con le norme delle retorica umanistica, o dalla natura seconda, quella manipolata e reificata dall'intervento dell'uomo, la natura plastificata, gli oggetti dell'auto - lo sterzo, le lamiere, il tergicristallo, il motore che s'ingolfa - intelligentemente inserite nel discorso poetico. Questo perchè l'autore ha perfettamente compreso, a mio modo di vedere, ciò che di solito sfugge ai più, e cioè che la poesia è qualcosa che non agisce solo sul piano emozionale, ma si rivolge in primo luogo direttamente all'intelletto.

Questo spiega anche la presenza - in Scenari di congedo - di immagini tratte dal teatro, un genere che Beppe Mariano ha coltivato con originalità di risultati, e la sua concezione della vita come una partitura o un copione da interpretare sulla scena del mondo. L'influsso dei teatro e dei suoi moduli, ravvisabile nello stesso titolo della raccolta, si trasmette dal linguaggio alle strutture del pensiero. Il teatro è la metafora dell'esistenza, che esso rappresenta nella varietà delle situazioni che si presentano nella vita - "il nostro modo altalenante di essere" - e che l'attore-personaggio recita di volta in volta, come una parte non sua, non scelta, ma imposta dagli altri, dal caso, dal destino, in cui la tragedia della vita è vissuta come in un'operetta.

Non si tratta solo di un rapporto formale della poesia di Beppe Mariano col mondo del teatro. Sappiamo che da Pirandello in poi il mondo è visto come una grande scena in cui tutti gli esseri umani sono attori, in cui ciascuno recita la propria parte, anche se non è cosciente di farlo, quella dell'esistenza inautentica, in cui anzichè vivere si è vissuti da una realtà, materiale e sociale, che si rivela più forte di colui che l'ha prodotta e crede conseguentemente di esserne signore.

Analogamente la trama di "Scenari di congedo" è una partitura di azioni sceniche staccate, che nel loro complesso e nella loro successione formano un intero perfettamente compiuto. La loro collocazione, sia essa regolata dalla mente del poeta o dal sapiente ed oscuro lavoro dell'inconscio, non è mai casuale. Nella successione delle varie parti si disegna la biografia intellettuale dell'artista.

Una biografia interiore, scandita dalle impressioni o dalle emozioni della giornata, da osservazioni che perseguono il mito della conoscenza e tendono a ricavare la "forma mentale della creazione", sia essa il senso della vita o il mistero dell'universo. Un mistero che non si può cogliere con l'intuizione, ma solo con le categorie dell'intelletto. In una delle liriche centrali l'osservatore-poeta aggiunge di suo, nell'intrico di luci che costella il cielo nella notte illune, lo schema geometrico di punti e di linee, che corrisponde alle forme a priori della conoscenza. L'esito dell'operazione non ? detto, ma solo suggerito, perchè il poeta non dice chiaramente, ma parla per allusioni e suggerimenti. Nella lettura dell'opera il lettore diviene pertanto collaboratore dell'autore, il quale gli lascia il suo raggio di autonomia, uno spazio vuoto da riempire alla luce della sua intelligenza.

La lettura di "Scenari di congedo" diviene pertanto un gioco intellettuale, che lasciando da parte le ragioni del cuore, per coloro che amano le esperienze emozionali, diventa un gioco di intese fra la mente dell'autore e quella del lettore, il quale ha la possibilità di cogliere quei significati che l'autore stesso non ha coscienza di avere messo nella sua opera. Questo perchè il linguaggio poetico non si serve dei termini esatti della matematica, della filosofia o della scienza, ma si identifica col linguaggio allusivo dei simboli, la cui ricchezza di significato è impossibile da esaurire.

In questo gioco d'immagini e di parole, anche gli oggetti della realtà quotidiana - le parti dell'auto o la macchina da presa - diventano allusivi della condizione umana. Il desiderio del movimento, che è ansia di mutamento, si fonde col desiderio di fissare la realtà, di renderla immobile con l'aiuto della macchina da presa, e il desiderio di avvicinare ciò che è lontano con l'aiuto del binocolo.

La tensione del movimento è la figura dell'eterna insoddisfazione dell'uomo - perchè ciò che è appagato è anche perfettamente immobile come lo sfero di Parmenide - e si attua in una duplice direzione - un andare verso mete ignorate, e il ritornare costantemente all'atmosfera che più è familiare, e, sullo sfondo del viaggio, amore, affetti, ambizioni, propositi e il disincanto della vita.

Il disegno della raccolta, nel suo ordine un po' informe, rivela la contradditorietà dell'uomo, che è un segno del rapporto imperfetto dell'uomo e del poeta con la realtà in cui vive, e che può essere superata solo attraverso un processo di estetizzazione. Come nel suo teatro, nelle liriche di "Scenari di congedo" l'autore riflette il rapporto-opposizione tra arte e vita, com'è stato messo in luce da un illustre critico, e che è un'eredità della grande cultura letteraria di Beppe Mariano, che ha diramazioni di origine classica, celtica e germanica - e lo dimostra la presenza di figure come il triscele, l'elfo o l'accenno alla fonte scaturita dallo zoccolo del cavallo alato - e affonda le sue radici nel clima di inquietudine e di rinnovamento del primo Novecento, nella feconda età che si colloca tra Decadentismo e Relativismo, quando si avverte per la prima volta che la vita autentica è quella interiore, del pensiero, della poesia e dell'arte, che sono virtù, nel senso classico del termine, bellezza e verità, liberazione dell'uomo.

Con la creazione poetica l'artista si lascia alle spalle la contraddizione, non ignorandola o negandola e neppure identificando i sintomi - il dolore inavvertito - con la malattia, ma superandola e rendendola innocua attraverso il processo del riconoscimento.

La creazione poetica, come il trattamento psicoanalitico, assolve infatti il compito di portare alla coscienza ciò che è "inavvertito", la condizione di malessere sepolta nell'inconscio dell'uomo. Ed è in questo modo che ha luogo quella liberazione che col vecchio e insostituibile termine aristotelico noi chiamiamo "catarsi".

Ma la poesia di Beppe Mariano annovera anche le immagini positive, della felicità e della speranza, collocate in una lontananza indefinita, ma familiare e raggiungibile da parte dell'uomo. Tra queste immagini luminose ve n'è una che si staglia nel cielo azzurro con la sua perfezione piramidale: il Monviso è nella poesia di Beppe Mariano ciò che è il mito dell'infanzia in Pascoli o la collina nell'opera di Pavese, il simbolo di ciò che può riscattare l'uomo dalla sua condizione alienata, frutto della civiltà moderna, e restituirgli l'autenticità della sua condizione originaria. Il Monviso, è l'invito all'avventura che realizza nell'uomo l'aspirazione ai "giorni leggendari" dei suoi "monchi propositi", e nello stesso tempo il "materno presagio" che avverte, con la presenza delle sue nubi tempestose, dei rischi dell'esistenza, e ricorda ad ogni essere umano i limiti della sua condizione. E' il simbolo dell'intatta natura, dell'intramontabile speranza dell'uomo, della sua aspirazione verso l'alto, verso la vita dello spirito. Ma è anche simbolo della solitudine di tutto ciò che è nobile e grande nel mondo. Esso rappresenta per l'uomo comune la speranza l'utopia o l'illusione, ma per il poeta rappresenta quel desiderio di perfezione che è insito in ogni opera di vera poesia

Con questo riconoscimento che "Scenari di congedo" è un'opera di vera poesia, lasciando ai posteri il piacere e la fatica di classificarla, formulo a titolo personale, ma credo di poterlo fare a nome di tutto il pubblico, all'amico Beppe Mariano, il quale con la sua opera nel campo della poesia, della pubblicistica, del teatro, della narrativa, onora il mondo della cultura, l'augurio di quel successo che il suo talento certamente merita

 

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