Beppe Mariano Il Sorriso e le Lune del Monviso

Novi Ligure, Edizioni Joker, 2000

 

Il sorriso e le lune del Monviso, Beppe Mariano, Novi Ligure, Joker, 2000, 49 p, 21 cm.

(I moderni)

 

La vasta e significativa produzione poetica di Beppe Mariano, che si ricorda quale co-fondatore unitamente a Sebastiano Vassalli, della rivista «Pianura», redattore di «Salvo Imprevisti» e «La luna e i falò», critico teatrale e letterario per la «Gazzette del Popolo» e «Stampa Sera», si è arricchita lo scorso anno di un nuovo punto fermo.

Dopo Ascolto dell'erba (1990) e Scenari di congedo (1996, forse l'opera più celebrata - in Biblioteca alla collocazione SL.E.127), breve sosta, come per ogni serio poeta, in un incessante cammino di ricerca, Il sorriso e le lune del Monviso si distingue per il sottile gioco di piani: un campo lungo e un campo corto che sono connaturati al senso stesso di poesia moderna. Un Io che, pur senza pretese universalistiche, esce da sé e si racconta, non per insegnare, quanto solo per comunicare qualcosa.

Come nota Mauro Ferrari, la parola di Mariano giunge in tal modo mediata al lettore, quasi ci si trovasse di fronte ad uno schermo «come può essere il finestrino di un treno», davanti al quale scorre un mondo «sospeso fra realtà e dubbio».

Essenziale e decisivo è il momento dell'osservazione; il campo lungo infatti inganna: «soltanto con il primo piano / puoi cogliere quel ch'è strano, in dettaglio il buffo delle tue azioni» (p. 13). È a questo punto che la conoscenza del piccolo, del personale, messa a fuoco da vicino, può essere adeguatamente tradotta in linguaggio e allargata ad una dimensione maggiore.

Il dettaglio, significativamente, è «buffo»: il libro nel suo insieme lascia infatti trasparire un carattere «leggero», sorridente, talvolta canzonatorio» (Giorgio Luzzi). Un canzonatorio che si traduce in un linguaggio a volte forzatamente ironico e «basso», a partire dai «pernacchi e scorreggette, / come in una ballata di tarocchi» degli iniziali «Folletti» delle Langhe (p. 17).

Ma la cifra di Mariano, pur comprendendo a tratti il tecnico di Scenari di congedo, è alta, o meglio un riuscito miscuglio di «frigorifero», «forno» e «Lode a Talete». È un tessuto ricco di neologismi, al limite del gioco: l'automobile «barolata», il carro «florarmato», i libri «ammontagnati». La parola stessa, d'altra parte, è spunto di riflessione: il "marasma" è quasi, nel mezzo di uno scomposto tuffo, un mare malato d'asma, velo per una riflessione più profonda su un mare forse non vero (Balneare, p. 21).

Nel mezzo della registrazione del tempo inesorabile che passa ("Ho cinquant'anni [...]/ Ogni giorno scarto qualche cosa / di me. Già cigola la mente ...", p. 19) c'è però lo spazio per il sereno, per una sia pur momentanea scintilla di felicità: è una immagine che sconcerta chi osserva il sorriso, perché, pare di capire, l'uomo è oggi disabituato alla serenità (Come 'l mat, p. 20).

A tratti il dettato rasenta la massima epigrammatica: una concisione efficace, come nell'azzeccata similitudine di Anche l'amore tra il caffè sorbito in tazza "innaturalmente leggera" e il sentimento amoroso, con la sua sproporzione "tra propositi e attuazione" (p. 35, ma vedi anche Nevrosi o Deduzione). È infatti la forma breve, concisa a farla da padrone nella silloge, che solo raramente presenta composizioni superiori ai 12-15 versi, quasi a far prevalere, secondo l'insegnamento di quel grande teorico della poesia che fu E. Allan Poe, la "bellezza della rosa": per descriverla infatti, secondo il celebre scrittore americano, necessitano poche parole. Così la riuscita registrazione poetica di un sentimento, d'una sensazione, un'immagine, deve concentrarsi nel breve, e del verso e della poesia nel suo insieme.

Esemplare, in quest'ottica, l'autoritratto di Similitudine: "Come la mosca che attratta dalla luce / a lungo sbatte contro la vetrata / prima di fuggirsene per un'apertura, / anch'io m'ostino a cercare quel varco / che mi è prossimo e che pure / non so scorgere, o non so volere" (p. 38).

Nella ricerca della bellezza "che non si mostra", della verità "che non appare" (Esortazione, p. 39), il paesaggio (umano e naturale) riveste una centralità determinante. In esso spicca, quale riferimento ultimo del guardare, quel Monviso che è, per larga parte del Piemonte almeno, orizzonte e bussola visiva. È, naturalmente, un faro che presto lascia la dimensione puramente fisica, per incarnarne una superiore, metaforica, la vita stessa: il Monviso negato è infatti la negazione dell'amore, l'approssimarsi della fine (p. 41). Una fine che può essere riscattata dalla poesia (p. 49: Nel farsi della poesia).

GianPiero Casagrande

La Pagina, 06 / !12 / 2001