CIRCOLO "G. FERRERO"

Partito della Rifondazione Comunista di Beinasco (TO)


La nuova sede del Circolo è a Borgaretto in via Gorizia n°22


Sito web : http://digilander.libero.it/beinascoprc3/
E-mail : antoniomaria13@alice.it
E-mail : enr1955@libero.it
Francesco Pereno Cell. 3395927387


IL Circolo ha preso il nome dal Partigiano Giovanni Ferrero che è stato per 10 anni Sindaco di Beinasco

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"Johnny pensò che un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull'ultima collina guardando la città la sera della sua morte.
Ecco l'importante : che ne rimanesse sempre uno".

(dal libro: "Il partigiano Johnny" di Beppe Fenoglio)

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25 Aprile 2012 - Festa della Liberazione

Pubblicazione di una lettera di un condannato a morte


Giordano Cavestro (Mirko)
Di anni 18 - studente di scuola media - nato a Parma il 30 novembre 1925 -.
Nel 1940 dà vita, di sua iniziativa, ad un bollettino antifascista attorno al quale si mobilitano numerosi militanti -
dopo l'8 settembre 1943 lo stesso nucleo diventa centro organizzativo e propulsore delle prime attività partigiane nella zona di Parma -.
Catturato il 7 aprile 1944 a Montagnana (Parma), nel corso di un rastrellamento operato da tedeschi e fascisti - tradotto nelle carceri di Parma -.
Processato il 14 aprile 1944 dal Tribunale Militare di Parma - condannato a morte,
quindi graziato condizionalmente e trattenuto come ostaggio -.
Fucilato il 4 maggio 1944 nei pressi di Bardi (Parma), in rappresaglia all'uccisione
di quattro militi, con Raimondo Pelinghelli, Vito Salmi, Nello Venturini ed Erasmo Venusti.
Parma, 4-5-1944

Cari compagni, ora tocca a noi.
Andiamo a raggiungere gli altri tre gloriosi compagni caduti per la salvezza e la gloria d'Italia.
Voi sapete il compito che vi tocca. Io muoio, ma l'idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella.
Siamo alla fine di tutti i mali. Questi giorni sono come gli ultimi giorni di vita di un grosso mostro che vuol fare più vittime possibile.
Se vivrete, tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care.
La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio.
Sui nostri corpi si farà il grande faro della Libertà.

spirale
Sito del Comune di Beinasco
spirale

ARTESIO E PETRINI (FDS): RITARDI NEL PAGAMENTO DELLA CASSA IN DEROGA,
I LAVORATORI NON POSSONO ATTENDERE PER MESI


Nel periodo gennaio-marzo 2012 è sensibilmente aumentato il numero delle domande della cassa integrazione in deroga passando dalle 3.169 del periodo gennaio-marzo 2011 alle 4.172 (+31,7%). Sono aumentate le imprese che hanno presentato domanda, passando da 2.775 nel 2011 a 3.256 nel 2012 (+18,2%) e i numero dei lavoratori coinvolti: 21.805 nel 2011, 23.337 nel 2012 (+7%)..
“Il moltiplicarsi delle istanze crea ovviamente un carico maggiore di lavoro, perché – ad esempio - la gestione di una domanda breve con 2 lavoratori è nell’insieme analoga, in quanto a tempi di istruttoria, a quella di una domanda di 4 o 6 mesi per 50 lavoratori. Ad oggi, a fronte delle 4.172 pervenute, le istanze per le quali la Regione ha emesso un provvedimento di autorizzazione al pagamento da parte dell’Inps sono 1.340, cioè 1/3 del totale”, sottolineano Eleonora Artesio e Armando Petrini, consigliera e coordinatore regionale della Federazione della Sinistra.
I ritardi che si stanno evidenziando dipendono principalmente dalle complicazioni gestionali introdotte, che da un lato hanno allungato inevitabilmente i tempi dell’istruttoria (a fronte di un aumento delle domande presentate), e dall’altro hanno fatto aumentare la quota di pratiche che contengono imprecisioni o non sono complete della documentazione richiesta (a gennaio sono state quasi la metà del totale).
I funzionari regionali incaricati sono oberati da richieste telefoniche e dirette che rallentano pesantemente la loro operatività. Ai ritardi nella definizione delle verifiche di natura istruttoria, consegue il ritardo nell’autorizzazione all’Inps per liquidazione del trattamento di CIGD ai lavoratori interessati;
Le aziende possono chiedere all'Inps il pagamento anticipato delle indennità di Cig in deroga anche prima dell'emissione del decreto autorizzativo della Regione. L'erogazione anticipata può essere effettuata per un periodo massimo di 4 mesi, trascorso il quale, senza che sia stato emesso il decreto autorizzativo, l'Inps sospende il pagamento e può procedere al recupero delle somme erogate nei confronti dell'azienda motivo per cui le imprese sono restie ad effettuare questo tipo di richiesta.
Non essendo prevista l’anticipazione del trattamento da parte del datore del lavoro, con successivo rimborso da parte dell’Inps, migliaia di lavoratori attendono per 2 mesi e oltre il pagamento della CIGD rimanendo, di fatto, senza reddito.
“Tale gravissima situazione, se non tempestivamente affrontata, rischia di accentuare ulteriormente i pesanti effetti della crisi economica che già colpisce duramente i lavoratori. La Regione dovrebbe dunque istituire una task force per il tempestivo smaltimento delle domande di CIGD ancora da istruire e attivando forme di tutela dei lavoratori che a causa del tardivo pagamento rischiano gravi problemi nel pagamento di affitti, utenze, mutui ecc”, concludono Eleonora Artesio e Armando Petrini.
Torino, 24 Aprile 2012

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PRC CONSEGNA 1.000 FIRME IN COMUNE
PER CONSIGLIO COMUNALE APERTO
SU PRIVATIZZAZIONE NIDI


Rifondazione Comunista ha consegnato questa mattina in Comune mille firme
contro la privatizzazione dei nidi e per chiedere un Consiglio Comunale aperto
alla città sul tema dei servizi educativi.
"Nel caso della privatizzazione degli asili nido e delle scuole materne il risultato,
checché se ne dica, sarebbe il peggioramento dell’offerta educativa per i bambini,
il peggioramento delle condizioni di lavoro per educatrici e insegnanti
oltre che disagi e costi maggiori per migliaia di famiglie.
Il Sindaco, la Giunta e il Consiglio Comunale devono ascoltare i cittadini
e aprire la discussione alla città.
Ci auguriamo che il Consiglio Comunale metta in calendario al più presto
una seduta pubblica e aperta a tutti gli interessati".

Torino, 24 Aprile 2012

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22 Aprile 2012
Giornale : Il Mnifesto
Alfio Nicotra

Caro Bertinotti, l’errore del Prc è stato il governo

Rifondazione non doveva sciogliersi, ma ha perso credibilità per le sue scelte politiche. Una risposta all’ex segretario del Prc
Quella maledetta notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 fui tra i primi ad entrare nella scuola Diaz. Ricordo ancora ogni passo su quelle scale, il cuore in gola che pompava sangue. Sangue fresco come quello che vedevamo sui muri, sugli spigoli delle porte sui sacchi a pelo per terra. Zaini sventrati, indumenti e spazzolini da denti sul pavimento, computer e vetri in frantumi. Era ancora calda la violenza esercitata dai teppisti in divisa.
L’avevamo sentita per ore fuori dalla scuola fronteggiando il cordone invalicabile di polizia e carabinieri. Adesso la “sentivamo” in quella palestra, nelle aule devastate, nel pensiero e nell’angoscia dei nostri compagni portati via in barella, con i loro volti tumefatti, con le bende bianche che coprivano la vergogna. Sì, lo confesso, la visione del film Diaz mi ha restituito quella sensazione, quel pugno nello stomaco che provavo mentre salivo uno ad uno ogni scalino della scuola.
Devo dire che da questo punto di vista l’utilità del film è indiscutibile. A mio figlio, che ora ha diciannove anni, il film può meglio di tante parole raccontate da suo padre restituire il senso di quella repressione, far percepire la fisicità di quella brutalità, costringerlo ad interrogarsi su come tutto questo abbia potuto accadere nella “democratica e civile” Italia.
Il film è un’opera artistica, parla il suo linguaggio, non si può pretendere che spieghi tutto. Per noi del Genoa social forum che conosciamo ogni dettaglio di quella repressione il film non basta. Non può bastare: è ovvio, è naturale che sia così. Ma sarebbe un errore imperdonabile non comprenderne il suo effetto di denuncia, il suo mettere in evidenza quei corpi violentati e l’odio – allo stato puro – delle forze dell’ordine nei confronti di quei cittadini che per la legge avrebbero invece dovuto difendere. Il film ha tra l’altro il merito di evidenziare il carattere internazionale della mobilitazione, con i suoi protagonisti non italiani presi di mira dall’ossessiva macchina repressiva. Non mi unisco per questo ai detrattori del film, anche se è vero che omette diverse cose, lucidamente riportate da Vittorio Agnoletto. Ma un film sull’esperienza di Genova, su quell’assalto al cielo del mondo globalizzato, non so se esiste al mondo un regista in grado effettivamente di girarlo. D’altronde anche la copiosa letteratura sul G8 2001 non ha mai avuto il gusto o la voglia di indagare su come sia stato possibile la sperimentazione del Genoa social forum, sul suo lungo percorso di avvicinamento, quasi che 200 mila persone si potessero materializzare in un luglio afoso sul lungomare di Genova semplicemente per moda o per miracolo. Chi ha intrecciato i fili perché mondi così diversi, dalle suore di Boccadasse ai disobbedienti del Carlini, parlassero ed agissero insieme? Quale mastodontica opera di pazienza e di costruzione politica c’è stata dietro nei due anni che hanno preceduto il G8? Molti si sono accontentati di individuare nel Forum sociale mondiale di Porta Alegre il cemento dentro il quale è stato incubato il Genoa social forum.
È una verità parziale, che non tiene conto di un percorso più lungo. Perché affronto questo argomento? Perché mi pare che questa menomazione della storia induca una persona di pensiero lucido e profondo come Fausto Bertinotti ad una autocritica sbagliata. Sia chiaro, Bertinotti fu tra i dirigenti del Prc – tra di loro inserirei tra i più esposti in questa direzione Ramon Mantovani e Roberto Musacchio ad investire l’organizzazione e il progetto della Rifondazione anima e corpo in quello che allora in Italia si chiamava “movimento no global”. Per chi ha rappresentato il Prc come portavoce del Genoa social forum, come chi scrive, il sostegno e il consiglio di Bertinotti sono stati fondamentali.
Senza la sua copertura e condivisione non avremmo mai potuto superare le tantissime resistenze che incontravamo nel partito locale e nazionale, in quella che per molti era una bizzarra idea di sedere alla pari con altri soggetti non partitici, di essere parte e non tutto del movimento. Avevamo imparato dagli zapatisti ad ascoltare e ad imparare dagli altri. Nelle giornate di Genova il Prc era in tutte le piazze tematiche: quelle fatte dalla Rete Lilliput, dalla Rete contro il G8 , da Attac dai Cobas, dai disobbedienti. Non scegliemmo una nostra piazza, ma decidemmo di stare ovunque. Avevamo la consapevolezza di funzionare da collante dei vari pezzi, senza apparire troppo e sempre con spirito di servizio. Bertinotti ci dice che dovevamo avere più coraggio: sciogliersi nel movimento e costruire con quelle diverse soggettività una nuova forza. A me pare che questo sia un ragionamento influenzato a posteriori dall’attuale marginalità della sinistra di alternativa e totalmente assente nel dibattito del movimento di allora.
Il movimento ci riconosceva perché eravamo coerenti tra le cose che dicevamo (in parlamento, nei talk show televisivi) e quello che facevamo con le lotte. Quando tra le enunciazioni e i fatti è sorta una separazione prima, una contraddizione aperta poi, il rapporto tra Prc e le altre anime del movimento è entrato in crisi. Se non sei quello che dici, insomma, sei come tutti gli altri animali politici. Dovevamo al contrario scegliere ed accentuare la nostra attitudine di movimento e di fare società. Invece c’è stato un corto circuito figlio di scelte politiche. Fu la scelta – una vera e propria virata – di spostare verso l’alternativa di governo a Berlusconi e dunque all’alleanza nell’Unione, la linea politica del partito a portare serissimi contraccolpi alla nostra credibilità nel movimento. Anche la parola d’ordine «movimento pesante, governo leggero» si è rivelata aleatoria e irrealistica perché i pesi della compatibilità governativa si spostavano decisamente sul secondo e non sul primo.
In sintesi, penso che il Prc venne trasformato profondamente dalla preparazione e dalla generosa partecipazione alle giornate di Genova ma che non abbiamo avuto il coraggio di spostare in modo più duraturo il partito nella società. D’altronde dobbiamo pur farci la domanda di come sia stato possibile che una generazione di giovani comunisti sia passata in dieci anni dallo stadio Carlini al Partito socialista europeo del direttore del Wto Pascal Lamy. Questa idea di una grande occasione persa non può funzionare da rimozione dei nostri veri errori, che devono essere – e su questo concordo totalmente con Bertinotti – affrontati senza remore e in profondità.



QUELLO CHE “DIAZ” NON DICE. Vittorio Agnoletto, il manifesto 11 aprile 2012


<4> Un grande battage pubblicitario annuncia da mesi l’ uscita del film “Diaz.Don’t clean up this blood”.
Molti critici e giornalisti hanno convalidato quanto più volte ripetuto sia dal produttore che dal regista: “I fatti narrati in questo film sono tratti dagli atti processuali e dalle sentenze della corte di appello di Genova”; come dire: quello che si vede nel film è la verità oggi accertata.
Non c’è dubbio che le lunghe sequenze che mostrano le gravissime violenze agite dalla polizia alla Diaz e le torture praticate a Bolzaneto rendono visibile per la prima volta quanto è avvenuto nella scuola e nella caserma; su questo ha ragione Angelo Mastrandrea (il manifesto 7 aprile).
Questo è senza dubbio un merito che di per sé può motivare la visione del film. Il rischio dell’oblio è forte e non c’è dubbio che i nostri governanti siano impegnati, da quasi undici anni, a cancellare dalla memoria collettiva quei fatti.
Chiunque uscirà dalla proiezione si sentirà fortemente coinvolto e indignato dalla ferocia delle violenze istituzionali alle quali avrà assistito. E’ l’efficacia del film, un pugno nello stomaco che non si dimentica. Ma tale riconoscimento non può esimerci dall’esercitare, anche in questo caso, un’analisi critica, tanto più rigorosa quanto più il film tende a essere presentato come aderente alla verità storica e processuale.
Ecco quindi le mie principali critiche:
1) Il film “sorvola sui nomi di chi allora quell’operazione condusse e giustificò” scrive su il corriere della sera del 13 febbraio Giuseppina Manin dopo aver visto il film al festival di Berlino. E racconta che il produttore Domenico Procacci rispose: “In un primo tempo la sceneggiatura prevedeva l’elenco completo dei ragazzi e dei responsabili del massacro. Poi però la parte offesa ci ha chiesto di non citare i loro nomi. E a quel punto abbiamo deciso di togliere anche gli altri.” Il rispetto per le vittime avrebbe spinto gli autori a non citare i nomi dei carnefici! Non si capisce quale sia la connessione. Eppure quei nomi sono scritti proprio negli atti giudiziari ai quali il film fa riferimento: si ritrovano nella lista dei condannati. Sono personaggi importanti, di potere, condannati in appello per gravi reati e che oggi ricoprono ruoli di primissimo piano nelle forze dell’ordine. Nemmeno nelle poche righe che precedono i titoli di coda compaiono i loro nomi e nemmeno si spiega che costoro sono stati tutti promossi.Guardando il film mi è tornato in mente quanto scrive Luis Mario Borri, uno dei sopravvissuti alla dittatura argentina, quando commenta le ricostruzioni di quella tragedia storica: “Da tempo alcuni puntano ossessivamente i riflettori sulla verità con il subdolo proposito di cacciare nella penombra la giustizia”.Mi domando qual è il motivo di tanta cautela e mi chiedo se sia in relazione con la scelta pubblicizzata dal produttore di inviare, ancora prima di cominciare le riprese del film, una copia della sceneggiatura all’attuale capo della polizia Antonio Manganelli. Manganelli, all’epoca vicecapo della polizia, è colui che, stando a quanto affermato dall’ex questore Colucci, in una telefonata intercettata durante l’inchiesta, avrebbe detto: “Dobbiamo dargli una bella botta a ’sto magistrato “, riferendosi al pm Zucca. Difficile capire che titolo avesse Manganelli per leggere in anteprima la sceneggiatura.
2) La responsabilità di quanto è accaduto nella notte della Diaz sembra venir scaricata sul personaggio giunto da Roma, che poi sarebbe Arnaldo La Barbera, deceduto da tempo per malattia. E’ esattamente una delle tesi sostenute a suo tempo dagli imputati. Nulla emerge dal film sulla figura dell’allora capo della polizia, oggi potentissimo capo dei servizi segreti, Gianni De Gennaro.Il Pubblico Ministero del processo Diaz, Enrico Zucca, in un’intervista rilasciata ad Altreconomia dopo aver assistito al film, ricorda i filmati d’archivio con “la presenza dei funzionari che comandavano l’operazione, un direttorio spesso riunito sul campo che decide nelle svolte cruciali. Quel gruppo…. scompare invece dal film”.Uno dei dirigenti di polizia, la controfigura di Michelangelo Fournier, il funzionario che aveva il comando operativo del suo reparto durante l’assalto alla Diaz, viene persino dipinto come una persona logorata da dubbi amletici al punto di scusarsi con le vittime. Resta da capire quali siano in questo caso le fonti documentali.Non si dice una parola invece sui due infermieri che per aver denunciato le torture di Bolzaneto hanno dovuto abbandonare l’amministrazione penitenziaria, sul poliziotto che per aver collaborato coi giudici si è trovato le quattro ruote dell’auto tagliate, sul vice capo vicario della polizia Andreassi che, per aver scelto di non partecipare all’operazione della Diaz, ha avuto la carriera stroncata. Tutti fatti, questi, ampiamente documentati.
3) Non una parola è detta sul ruolo dei politici coinvolti nei fatti di Genova: nulla su Fini, niente su Scajola. Un solo passaggio di repertorio, alla fine, su Berlusconi. viene taciuta persino la visita che Roberto Castelli, allora ministro della Giustizia, fece alla caserma di Bolzaneto nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001. La politica sembra non aver avuto alcuna responsabilità.
4) Enrico Zucca nell’intervista citata, dopo aver ricordato la forte rimozione attuata dalla politica e dalle istituzioni sulle responsabilità, afferma: “Il film cautamente si adegua e non solo, in alcuni passi ricostruttivi sceglie la versione degli imputati (n.d.a. i poliziotti) rispetto a quella contrastante delle vittime. Se vogliamo l’unico messaggio netto che ha dato è che i black bloc erano – anche – alla Diaz”.Non è un fatto di poco rilievo. La destra ha costruito tutta la sua campagna di criminalizzazione del movimento sostenendo la contiguità tra Genoa Social Forum e Black Bloc. Su argomenti di simile importanza non sono ammesse licenze da romanzo, specie se si afferma di fare un film basandosi sulle inchieste giudiziarie.
5) Il racconto è completamente decontestualizzato; non viene mai spiegato perché 300.000 persone quel luglio 2001 si siano recate a Genova. Cosa può capirne un giovane che oggi ha vent’anni? Per non parlare di chi lo vedrà tra qualche anno. C’è stata un forte repressione, ma perché? Cosa volevano quelle persone massacrate di botte? Mistero.Gli autori replicano che il loro obiettivo non era raccontare la storia del movimento. Ma sarebbe stato sufficiente inserire qualche spezzone tratto da filmati di repertorio, ad esempio dall’intervento di Susan George in apertura del Forum il 16 luglio 2001, per dare un’idea delle nostre ragioni. Immagini facilmente recuperabili tra la documentazione video alla quale la produzione del film ha avuto pieno e illimitato accesso. Se non si spiegano le ragioni del movimento diventa impossibile spiegare le ragioni della repressione. Infatti.Inutile anche cercare di capire che cosa sia stato il Genoa Social Forum. Non se ne parla, anzi sono inserite alcune scene dove viene rappresentata una riunione del GSF piena di zombie totalmente inconsapevoli della realtà che li circonda. Eppure è stata una delle esperienze più interessanti di organizzazione dei movimenti negli ultimi decenni. La ricostruzione di quella riunione è semplicemente un’invenzione. Viene da domandarsi: perché, dopo non averne spiegate le ragioni, si ritiene di dover squalificare il GSF? In sintesi: lo spettatore resta sconvolto dalle violenze commesse dalla polizia, ma legittimato a pensare di trovarsi di fronte ad episodi isolati, appartenenti al passato e dovuti all’azione di alcune “mele marce.” Non ad azioni progettate e gestite da chi ancora oggi è ai vertici delle nostre istituzioni di sicurezza; e tutto ciò sta nella carte processuali, non nella fantasia di qualche estremista.
Certo se racconti le responsabilità, le documenti e fai nomi, se racconti tutti i tentativi, illegali, che sono stati fatti per impedire lo svolgimento dei processi, rischi la censura dei grandi media e un’ostilità politica generalizzata come avvenuto per il libro “L’eclisse della democrazia. Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova” che ho scritto insieme a Lorenzo Guadagnucci, una delle vittime della Diaz..
Se invece si sceglie di non toccare i punti più delicati e impegnativi, allora non si può affermare di raccontare nel film quanto emerso dalle verità processuali. La verità è tale se, oltre a non raccontare falsità, la si racconta tutta, senza scegliere quale parte di verità raccontare e quale tacere. Per questo concordo con Guadagnucci: un film così si poteva fare nel 2002, non nel 2012, ad inchieste concluse..
Siamo di fronte a un film commerciale, costruito con astuzia, che riesce ad essere molto attento e rispettoso delle compatibilità politiche e degli attuali rapporti di forza negli apparati, senza pestare i piedi a nessuno, e nello stesso tempo capace di presentarsi come paladino dei diritti e solidale con le vittime.
Queste cose, almeno tra di noi, dobbiamo dircele

Noir et rouge


22 Aprile 2012
Giornale : Il Manifesto
Autore : Anna Maria Merlo

Stando ai sondaggi, il voto di oggi dei 44 milioni di elettori, è già deciso e verrà confermato il 6 maggio: salvo sorprese il socialista François Hollande dovrebbe essere il prossimo presidente della Repubblica e il presidente uscente, Nicolas Sarkozy, uscirà sconfitto dal ballottaggio. Tutto è ancora meno che certo. Ma dal voto di oggi verranno comunque le risposte che determineranno i prossimi cinque anni.
Chi sarà in testa al primo turno? Gli ultimi sondaggi danno Hollande tra il 27 e il 30%, Sarkozy tra il 25 e il 27%. Il candidato-presidente spera in una «sorpresa», di arrivare in testa per poter ribaltare la situazione il 6 maggio. E chi sarà il terzo uomo? Per la medaglia di bronzo la battaglia è tra Jean-Luc Mélenchon del Front de Gauche (dato tra il 12 e il 14,5%) e Marine Le Pen del Fronte nazionale (14-17%). La conquista del terzo posto sarà determinante sia a destra che a sinistra. Un buon risultato di Mélenchon peserà sulle scelte di Hollande, un’impennata di Marine Le Pen sposterà ancora più a destra l’asse politico. Quale sarà il rapporto destra-sinistra? La somma dei voti dei due campi dirà dove il paese vuole andare. Quanto peserà infine l’astensione, che si annuncia molto elevata? La disaffezione dalla politica e il disincanto sono fattori non trascurabili per il futuro. C’è stata una certa delusione sulla campagna elettorale che si è appena chiusa.
Hollande è in pole position per la vittoria ma non suscita entusiasmo. Peserà sul voto soprattutto il rigetto di Sarkozy, la disillusione verso il decisionismo in politica che ha più distrutto che costruito. I candidati «anti-sistema», a destra come a sinistra, sono stati incisivi, ma si sono tenuti su promesse generali, presentando ricette che guardano più al passato che all’avvenire: la chiusura sulla «Francia nazionale» per Marine Le Pen, il ritorno di una «società di eguali» per Jean-Luc Mélenchon. Il MoDem di François Bayrou poi è stato del tutto spiazzato, spaccato tra la vecchia fedeltà alla destra e alle ricette di austerità da un lato e, dall’altro, una parte del partito che ieri ha chiaramente invitato a votare Hollande al secondo turno.
C’è la sensazione diffusa che la vera e sola questione – la crisi e come se ne esce – sia stata in qualche modo rimossa. Eppure, malgrado alcuni scarti e dei dibattiti assurdi (come quello sulla carne halal musulmana o sulla patente di guida), i problemi veri sono stati tutti almeno sfiorati.
Ma nel vantaggio che i sondaggi danno a Hollande, il «Monsieur Normal», al candidato che ha scelto di fare campagna passo dopo passo, senza mai perdere la bussola della ragionevolezza, cioè senza promettere la luna, si può leggere la presa di coscienza collettiva di una svolta nella V Repubblica voluta da De Gaulle: non c’è più spazio per l’uomo della provvidenza, l’«eccezione francese» si sta fondendo nel più vasto spazio europeo, le soluzioni saranno comuni e non più nazionali. La transizione è ancora acerba. La prova al contrario viene dal flop della campagna di Europa Ecologia, che avrebbe potuto portare nel dibattito pubblico le grandi questioni che attraversano tutti gli stati, ma non ha saputo farsi ascoltare, neppure sul proprio terreno, quello ambientalista.
Se i sondaggi saranno confermati, alla fine i francesi sceglieranno il candidato che ha dato una prospettiva ragionevole, a breve termine: rinegoziare il «Fiscal Pack» voluto dalla Germania per immettere uno stimolo all’economia europea, malata di disoccupazione e di deindustrializzazione. E un buon risultato di Mélenchon potrebbe costringere Hollande a mettere un po’ di anima in questo programma, introducendo una buona dose di equità in una società sempre più ingiusta ereditata dagli anni Sarkozy (8 milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà, la disoccupazione o sotto-occupazione tocca più di 5 milioni), ridando fiato ai servizi pubblici, dalla scuola alla sanità. L’entusiasmo che ha accompagnato i grandi meeting in piazza di Mélenchon, che poi sia Hollande che Sarkozy hanno cercato di riprodurre, mostra che esiste un forte rigetto delle ineguaglianze che si sono scavate negli anni, grazie al predominio della finanza. Ma nessuno, neppure Hollande (e neppure Bayrou, un tempo il più europeista tra i politici francesi assieme ai Verdi) ha voluto impostare la campagna su temi europei, coltivando così l’illusione che alla fine la Francia potrebbe riuscire a cavarsela da sola.
La minaccia di una forte astensione, i sondaggi sul voto dei giovani (dove Marine Le Pen arriva alla pari di Hollande e addirittura in testa tra chi vota per la prima volta) rivelano che la campagna non è riuscita ad andare a fondo alle questioni che rodono la società. Oggi i francesi votano con un fondo di paura. E’ da anni ormai che si è radicata la convinzione che i figli vivranno peggio dei genitori. Nessun candidato è riuscito a convincerli che il domani, forse, potrebbe essere diverso.

greca

Mario Monti? Pappa e ciccia con le banche


Debiti dello Stato con le imprese: perché devono guadagnarci gli istituti di credito?
Chi l’ha detto che il governo Monti è il governo delle banche e dei banchieri? Tutto falso, quello di Monti è il governo dell’equità e del rigore per tutti, che lavora senza sosta per la ripresa generale del Paese e i suoi interessi diffusi. Ne dubitate?! Basta guardare come affronta la questione economicamente d’attualità dei ritardati pagamenti e dei debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese private (specie le piccole che sono le più a soffrirne).
Ora, a parte la drammatizzazione di un problema “storico”, che è la crisi a rendere materialmente più acuto, ma che sembra scoperto solo ora ed è mediaticamente sovaesposto; a parte, quindi, il fatto che viene indicato come fondamentale un problema che fondamentale non è, forse per oscurare altre emergenze più “vere”, perché metterci di mezzo le banche? E perché il governo consente che le banche, che non fanno niente contro la crisi, ci guadagnino addirittura sopra?!
Cerchiamo di documentare queste affermazioni critiche, per non farle apparire arbitrarie. Punto primo: quello dei ritardati pagamenti è un problema reale dell’intero sistema economico italiano e delle imprese, non solo attribuibile alla pubblica amministrazione. Anzi, si può dire che la parte riguardante lo Stato e le altre istituzioni o enti pubblici costituisce, per vari motivi, la parte “minore” del problema: perché i privati fornitori del “pubblico” quando assumono commesse o stipulano contratti sono consapevoli di cosa li aspetta; perché il più delle volte “scaricano”, con le revisioni prezzi o altri sistemi di maggiorazione dei costi, gli oneri derivanti dai tempi lunghi delle riscossioni; perché preferiscono comunque lavorare con l’ente pubblico perché, come si dice, sono soldi sicuri anche se arrivano tardi. Perché infine in un Paese come l’Italia (e in particolare in certe sue aree) la spesa e gli investimenti pubblici sono una componente assolutamente decisiva del ciclo economico, che, senza di essi, sarebbe rimasto e rimarrebbe in uno stato atrofico.
Il problema vero dell’Italia è la subfornitura. Il 60% delle piccole e medie imprese (che rappresentano più dell’80% della struttura economica del Paese) lavora per imprese, italiane o in alcuni casi straniere, più grandi di loro, legate a queste ultime da un rapporto, appunto, di subfornitura, un legame che consente all’impresa committente (in genere una grande impresa) di sottoporre l’azienda fornitrice a condizioni veramente jugulatorie. Queste riguardano, non soltanto e forse non tanto i tempi di pagamento ritardati (uguali o maggiori di quelli del pubblico), quanto la assoluta “flessibilità” che è richiesta al fornitore in termini di tempi ravvicinati degli ordini, assenza di contratti scritti e quindi violazioni unilaterali, modifiche improvvise alla tipologia ed ai quantitativi di prodotto richiesto ecc. E’ questo tipo di rapporto (sul quale, tra parentesi, è per gran parte fondato il “miracolo del nord est”) che costringe, in molti casi, le Pmi italiane a quello stato di “nanismo” denunciato dalle associazioni di categoria, obbligate come sono da questa condizione di soggezione alla grande impresa, a lavorare dovendo ricorrere al credito bancario e senza la possibilità di “capitalizzarsi” abbastanza. La legge sulla sbfornitura, approvata dal Parlamento alcuni anni fa (per spinta fondamentale di Rifondazione Comunista), che raccoglieva le aspirazioni dei piccoli imprenditori, è stata sabotata ed è sostanzialmente rimasta inapplicata.
Se è così, perché le associazioni imprenditoriali hanno assecondato il governo nel porre sotto accusa un problema tutto sommato secondario rispetto a quello principale? La risposta è semplice: Confindustria è dominata dalla grande impresa, vuole “glissare” sulle responsabilità di quest’ultima e, insieme al governo, intende ideologicamente “criminalizzare” il “pubblico” per motivare le politiche di privatizzazione e liberalizzazione. Le associazioni dell’artigianato e della piccola impresa sono “ricattate” dal bisogno indotto dalla stretta economica e creditizia e sono piegate a mendicare qualche soldo per i loro associati a qualsiasi costo.
Ma, il bello, per così dire, di questa vicenda, si scopre nella modalità scelta e proposta dal governo per, come dicono, dare “una boccata di ossigeno immediata” alle imprese creditrici dello Stato e degli enti pubblici. La soluzione avrebbe dovuto e potuto dovrebbe essere semplice e lineare, come tutti possono comprendere, anche coloro che non hanno esperienza di governo: la pubblica amministrazione estingue il debito che ha con i privati attribuendo loro un corrispettivo in termini di credito fiscale, cioè consentendo ad essi (siamo peraltro vicini alla denuncia dei redditi di primavera) di ridurre o annullare, per una o più rate, il pagamento delle tasse. E’ stato proposto dalle associazioni di categoria e farebbe la felicità degli imprenditori, che non passa giorno che non si lamentino dell’insopportabilità del “carico fiscale”.
Se così non si vuol fare o se non fosse nell’immediato sufficiente, lo Stato potrebbe autorizzare la Cassa Depositi e Prestiti e, in accordo con le Regioni, gli istituti di credito pubblici regionali ad intervenire subito con assegnazioni e sovvenzioni a favore delle imprese creditrici, salvo poi a rimborsare questi istituti. Facile, no?!
E invece niente di tutto questo. Si mettono in mezzo le banche private. In base all’accordo tra associazioni bancaria (Abi) e imprenditoriali, proposto e imposto dal governo, saranno gli istituti di credito ad acquisire i crediti verso lo stato, acquistandoli dalle imprese per poi rivalersene con la parte pubblica. Che lo facciano col sistema del pro soluto o del pro solvendo (le associazioni delle piccole imprese sono molto ostili a questa seconda soluzione), a rimanere “fregate” saranno sempre le imprese (e anche lo Stato). Perché nel primo caso, in cui il creditore “vende” solo l’”esistenza” del credito, la banca lo acquista a prezzo inferiore al suo reale valore, mentre nel secondo caso il creditore prenderà una cifra simile al credito vantato, ma sarà tenuto a rispondere anche della eventuale insolvenza del debitore (da qui la protesta delle imprese). E poi, siamo sicuri che le banche non chiederanno e percepiranno dalla pubblica amministrazione un congruo interesse per il tempo che dovranno aspettare per esigere la risoluzione del debito? E le stesse benamate banche con quali soldi acquisteranno i crediti delle imprese? Con quelli avuti all’irrisorio tasso dell’1%, gentile regalo della Banca Centrale europea e, di conseguenza, anche se non voluto, di tutti noi contribuenti, che faranno fruttare con diversi punti di maggiorazione di interesse rispetto a quello di acquisizione?
Insomma, a conti fatti, a fare il vero affare saranno le banche. Chi l’ha detto che quello di Monti e Passera è il loro governo?!

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