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Cristoforo Beggiami

Savigliano

LUIGI BOTTA PER SAVIGLIANO

UN'ASSOCIAZIONE CHE SI OCCUPA DI EDITORIA SIN DALL'ORIGINE

Dedicata a Luigi Bàccolo, una testimonianza di dieci anni fa.

L'INCONTRO CON IL GENTILUOMO

Rimando ad altra occasione il mio omaggio al professore ed amico, per lasciare spazio a questo scritto che un'altra «allieva» dell'indimenticabile maestro Luigi Bàccolo «visse» circa dieci anni fa, dopo un incontro avvenuto in Cuneo. Poco tempo dopo usciva in libreria la «Vita del Marchese di Sade»... (Enrico Sanna)

Sono in Piazza Galimberti quando vedo l'esile figura del prof. Bàccolo avanzare con passo inceppato tra la folla del mercato. È convalescente da un malanno di stagione ed è uscito a fare quattro passi per scacciar la noia: «passeggiare avanti e indietro, come un animale in gabbia, da una stanza all'altra, prendere un libro e posarlo di nuovo...», dice. Ci affianchiamo e proseguiamo per corso Nizza, verso un'ipotetica tabaccheria. E tutto assume sempre una forma ipotetica e improbabile, vaga e fluttuante, come quel sorriso di chi ha molto vissuto, in compagnia di Gino Bàccolo, figura nota tra l'intellighenzia cuneese, èlite intellettuale di provincia tinta di nostalgia, così diversa dal compostismo anche solo di Torino. Bàccolo, personaggio affascinante con quella sua aria tra il filosofo antico e il gentiluomo settecentesco, assiduo frequentatore di Sade, di Casanova, di Restif de la Bretonne. Questa la triade che subito si affaccia alla mente di chi conosce le deliziose biografie delle antiche ombre che questo erudito predilige, in quella porzione vastissima che è il Settecento di quel campo sterminato che è la letteratura. La sua prosa è come i suoi discorsi: piana, elegante e spoglia, ironica e cortese. Suoi scritti sono lui, vivo e immediato: come le sue parole, intessute di cultura vissuta e assimilata da sempre.

Ricordo il nostro primo incontro; da tempo lettrice delle sue opere, studentessa al primo anno di università, impregnata di letteratura, grondavo entusiasmo per tutta una folla di spettatori che per me avevano spessore e consistenza reale. Mi stavo arrischiando, inoltre, proprio allora, sul terreno accidentato dello scrivere, e sentivo urgere in me grandi passioni e ideali, dei quali spesso non riuscivo a trasporre sulla carta che il fugace bagliore, creando, così, prosa, e, rarissimamente, quando riuscivo a coglierne una favilla, creando «la mia poesia».

Finalmente gli accennarono di me, e lui subito volle conoscermi, suppongo per quella deformazione professionale degli insegnanti che, sempre e inspiegabilmente, amano prendersi la briga di «guidare la gioventù». Mi recai da lui e seduti nel salotto, alla luce soffusa di un'abat-jour restammo a parlare per ore. Toccammo tutti gli argomenti che mi interessavano, e altri ne trovammo: Bàccolo parlava con quella sua voce pacata e gentile, l'eterno sorriso che gli indugiava sul volto, la malizia negli occhi saggi, dava forma ai miei pensieri e me ne rivelava talvolta addirittura l'esistenza, qualora essi non erano, nella mia mente giovanile, che una sostanza amorfa e incandescente, galassie in formazione. Non andò in estasi di fronte ai miei primi incerti abbozzi letterari, come io irragionevolmente speravo, ma disse quietamente «Il faut passer par là». C'incontrammo altre volte: egli disse, durante quelle conversazioni, cose sagge e vere che io purtroppo ho in gran parte dimenticato; mi disse di prendere ogni cosa come un piacere, e di farla solo se c'è entusiasmo, gioia; e qui citò un altro dei suoi aforismi prediletti, «Il faut bien que je m'amuse»...

Adesso, durante questo breve incontro vengo a sapere delle sue ultime pubblicazioni. «Ho amoreggiato letterariamente con la marchesa di Brinvilliers...»

Come dice Proust, «La vraie vie ... c'est la littérature»!

L'atteggiamento «serio» di fronte all'esistenza, rettaggio della sua generazione: «Bisogna fare le cose sul serio, non da dilettanti. Se un giorno mi accorgessi che faccio le cose solo più da dilettante, smetterei. Bisogna imporsi un certo rigore, dei termini... Non ho mai avuto un hobby tranne, un tempo, la pesca. Poi mi sono detto che se per divertirmi avevo bisogno di uccidere quelle bestioline ho smesso.

Camminiamo lentamente; siamo sul viale del tramonto? Un pizzico d'orgoglio, legittimo peraltro: «Quando scriveranno la mia biografia...». E, sottile, una vena di malinconia, ma classica: «Il mio epitaffio». L'ha composto in latino e irride ai medici, me lo ha recitato a memoria. O solitudine della vecchiaia, il suo spirito è tutto con i morti -l'ha scritto lui stesso- e parla di morte per bocca di coloro che non sono più...!

Il suo parlare si colora sovente di una autoironia leggera, garbata e gentile come nello stile del suo settecento... parliamo delle «Liaisons dangereuses», opera stupenda che ho letto nel giro di due mesi e che,

naturalmente, lui adora, «soprattutto appena l'ho scoperta, dice, da giovane». Abbiamo dunque la medesima sensibilità, oppure la gioventù è una malattia i cui sintomi e i cui entusiasmi sono universali?

Mi saluta al semaforo -fosse per me non lo lascerei ancora, ma lui dev'essere affaticato, e si vede... «Giusy!», esclama, e mi stringe la mano, e mi ammonisce: «Si riposi, si distragga (gli ho parlato dei miei studi), però non come me, il mio è un riposo forzato; devo illudermi che sia libero arbitro...» La vera illusione è quella che nutre su di me, caro ex professore liceale, cara antica ombra che si muove a suo agio nell'inferno dantesco dei filosofi, come dice lui stesso, che lascia agli altri l'incombenza del reale, essendo vissuto a lungo -confessa con candore- senza sapere come si fa un assegno; la sua vita è trascorsa nel dolce limbo di un mondo ideale, e lei crede che io le somigli. Ebbene, sotto molti aspetti non ha torto, ma ahimè, da tempo Baudelaire non mi fa più rabbrividire, né mi esalto tanto facilmente dietro al fantasma allegro di Whitman o al pallido Keats, non posso dire che la vera vita è l'altra, quella concreta che pulsa minuto per minuto, poiché da quella mi sento schiacciare con il polso dei mille dettagli del quotidiano. Caro prof. Bàccolo, spero che lei possa ancora a lungo amoreggiare con i fantasmi dolcissimi del passato, che il suo «Commiato del mago e

delle fate» non siano che una finzione letteraria e che continui a narrarci di questo mondo ideale in cui noi ci rispecchiamo, e chissà che, tra un libertino di due secoli fa e un'evocazione intenerita della sua giovinezza, non sia possibile, per noi, ritrovare noi stessi e la nostra via.

Giuseppina Peirone

(«La Masca», 16 dicembre 1992)

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