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Cristoforo Beggiami

Savigliano

LUIGI BOTTA PER SAVIGLIANO

UN'ASSOCIAZIONE CHE SI OCCUPA DI EDITORIA SIN DALL'ORIGINE

UN RICORDO DI LUIGI BACCOLO

Biografo e saggista ha onorato Savigliano

Forse è destino d'una provincia di frontiera quale la nostra aver avuto due Maestri -se «piccoli» o «grandi» non saprei dire, «buoni» sì, sicuramente- formatisi nell'alveo della grande cultura di lingua francese: Clemente Fusero, mancato a Cherasco una decina d'anni fa; Luigi Bàccolo, che ha raggiunto la scorsa settimana la sua amatissima madre e le altre «Care Ombre», come soleva dire con pindarica maestria.

Curioso destino il loro. Che si siano conosciuti e frequentati non mi risulta, eppure hanno avuto comuni interessi: entrambi critici letterari, specialista il primo dell'Ottocento francese, del Settecento francese il secondo, entrambi biografi di stile in epoca di sciatterie biografiche, accomunati sia nella scelta culturale sia nell'indole di uomini miti, appartati più che per regioni geografiche per dignità di salvaguardia spirituale, giacchè hanno dovuto attraversare dapprima le restrizioni intellettuali del fascismo e poi la «lunga penombra» e letteraria e civile dei nostri anni in cui si è barattato con disinvoltura e cinismo l'esprit con il «minimalismo» newyorkese, la conversazione arguta e brillante col chiacchierume televisivo. Bàccolo, in particolare, è stato conversatore «de plume» brillante e raffinato nel senso francese di intrattenitore su cose letterarie in un'epoca in cui la letteratura era sostanziata dal pensiero e felicemente intrecciata alla vita mondana, poiché -come dice Bénichou- «con i Lumi nasce una nuova legislazione del pensiero, senza più veti di sorta e gli scrittori si autodefiniscono "philosophes"».

Bàccolo aveva fatto proprie le convinzioni che uno dei suoi più cari amici letterari, Paul Leautaud, per la penna di Boissard rivolse a Diderot: «Mon cher maitre, quale epoca! La fortuna che avete avuto di vivere nella vostra! Epoca deliziosa, chiaramente, la più bella che il mondo abbia conosciuto e che si conoscerà mai! Il regno dell'esprit, dell'originalità, della fantasia!» Bàccolo non mancò di porlo in incipt del suo «Casanova e i suoi amici». La sua appassionata adesione al «regno dell'esprit» si consolidò verosimilmente nel 1938 al tempo del suo soggiorno alla Normale di Pisa ai tempi di Luigi Russo, chiamatovi in seguito alle attenzioni di Croce per un suo saggio su Pirandello, Bàccolo infatti definì «mormorio delle passioni nascenti» quel periodo, come risulterà dal titolo d'una raccolta di ritratti che vedrà insieme agli amatissimi Casanova e Sade anche i contemporanei Cioran, Céline, Giono (che splendido ritratto, il suo!), libro che vincerà nel 1982 il Premio Estense.

Ma era stato il Prix Casanova ottenuto due anni prima per il «Vita di Casanova» (già affermatosi al «Comisso») ad averlo reso noto in ambito europeo, dieci anni dopo che il suo eccellente «Sade» era passato invece quasi inosservato.

Allo stesso modo ipotizzato per Restif de la Bretonne (altro suo grande «amico» settecentesco) in una biografia del 1982, Bàccolo con il proprio orientamento culturale volle presumibilmente costituire un universo alternativo, più immaginato che reale, di galateo letterario vivificato dall'intelligenza dei «philosophes» e dei loro discendenti diretti, tra cui umilmente si annoverava. Non a caso intitolò «Vivere come sopra una montagna» un suo romanzo del 1965 volutamente «inattuale», o, se volete, in anticipo sui tempi.

Ma fu anche un uomo straordinariamente legato agli affetti della «sua» Savigliano, che gli ispirò nel 1980 un romanzo ben più felice del precedente, «Amore a quattro voci», nel quale con poetica leggiadria e garbata arguzia sa far vivere una Savigliano d'epoca, omaggio ad una donna tanto amata ( e tanto amabile, a quanto pare) della sua prima giovinezza, dissimulando se stesso nell'anagramma di Còlcabo, uno dei protagonisti della storia. «E così addio, diletti Fantasmi! E arrivederci a suo tempo ove Dio, eventualmente, intendesse risparmiarci l'onta del Nulla», scriverà successivamente Còlcabo ne «Il commiato del mago e delle fate», che è stato quasi per una sorta di premonizione il commiato dello scrittore da una sua epoca ideale, in cui la sanità dello spirito può salvare dall'infermità della storia, già prefigurando il distacco definitivo della amata Savigliano e della vita stessa.

Ora che il tempo è venuto, mi sembra doveroso proporre che chi ha tanto onorato, e non soltanto in Italia, il nome di Savigliano venga a sua volta onorato nel famedio cittadino.

Beppe Mariano

(«Il Saviglianese», 17 novembre 1992)

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