Dalla parte dell’homo faber         home page

 

Colpisce nei saggi di questa antologia la costante attenzione alle cose e ai modi di produrle da parte di un vero umanista. Colpiscono la volontà e l’ambizione di connettere le conoscenze erudite ai fatti concreti, di collocare i pensieri nei gesti, i concetti nelle materie. Colpisce in altri termini lo sforzo, certo non facile e neppure oggi scontato, di impiegare una cultura alta e mirabile per penetrare anche dentro agli eventi apparentemente più minuti della civiltà e della storia. “Trivellazioni” è del resto il termine che Battisti usa nel saggio Storia dell'arte e società (1963) indicando, con una parola assai concreta e presa direttamente dal lavoro e dai suoi attrezzi, la necessità di quei sondaggi approfonditi che rifuggono dalle grandi sintesi e dalle tentazione unificanti per scoprire invece nei terreni di studio la stratigrafia nascosta di sostanze diverse.

Una metafora necessaria e ricorrente questa dell’andare in profondità per riportare alla luce zone oscure ma fondamentali (nel senso letterale di fondamenta) per la solidità dell’edificio storico. Una metafora che non a caso Battisti userà in modo ancora più esplicito nell’introdurre i lavori del primo seminario internazionale Il modo di costruire (Roma 1988) dove esortava gli “umanisti a sporcarsi di più, a discendere mentalmente negli scavi e nelle miniere, ad aggirarsi tra i detriti e la ruggine, per guardare con più specifica attenzione e rispetto chi fa, e riconoscere il valore di una moltitudine di sforzi individuali che nell'insieme costituiscono una grande corrente altamente intellettuale”.

L’invito era rivolto principalmente agli studiosi di architettura riunitisi in quell’occasione per proporre una storia di edifici che non eludesse gli aspetti, per lo più trascurati e negletti, inerenti la realizzazione concreta delle opere, ma prestasse attenzione ai livelli della scienza come alle pratiche tecniche, alle circostanze del progetto come alle procedure del cantiere, alle ambizioni del gusto come alla prassi dei mestieri. Poiché se anche l’ “edificio può essere visto come pura immagine, cioè come simbolo”, è pur vero che lo spazio non è solo il riquadro astratto della geometria, le linee non sono solo contorni di forme, ma includono una “vicenda” ricca e complessa “di motivazioni concrete, di applicazioni dirette, […] di strumenti scricchiolanti sotto gli sforzi dell’uso.”

“Discendere mentalmente negli scavi e nelle miniere”, “guardare con attenzione e rispetto chi fa”: questo progetto non appare tanto diverso, fino anzi a configurarsi come una sorta di lascito culturale, da quello intrapreso dalla grande Encyclopédie dove nella voce Arte Diderot aveva invitato gli intellettuali a “uscire dal seno delle Accademie per scendere nei laboratori e raccogliervi i fenomeni delle Arti esponendoli in un’opera che induca gli artisti a leggere, i filosofi a pensare utilmente e i potenti a fare un uso utile della loro autorità e dei loro premi.”. Riferimenti espliciti all’Encyclopédie e al suo immane impegno di inventario e descrizione dei mestieri costellano del resto diversi scritti di Battisti, certamente attratto da un disegno intellettuale che mirava a valorizzare il ruolo dell’artefice e delle sue attività di lavoro quali espressioni di una cultura autentica ed operante nel vivo della società.

Così come altre ben più antiche enciclopedie rientrano negli ampi orizzonti che i saggi includono e sono le raccolte medievali dove si cercano le tracce dell’”architettura”, dell’”urbanistica” e, assai significativamente, anche “del “lavoro”, esaminando con pazienza i lemmi e le loro sequenze, i glossari e il ricorrere di voci, il delinearsi di categorie (Architettura, urbanistica, lavoro nelle enciclopedie medievali). Documenti straordinari che attestano come “interesse erudito e esperienza pratica” procedano “insieme”: come, ad esempio nell’architettura, i contenuti della triade vitruviana possano riflettersi nelle diverse competenze e responsabilità dei mestieri e l’attenzione prestata ai materiali, agli strumenti di lavoro, al concreto delle operazioni, non precluda né la meditazione sull’antico, né la sensibilità estetica. “I tetti sono come alberi”, scriveva infatti Bartholomew Anglicus in De arboribus et plantiis, compendiando in un suggestivo assioma le teorie sull’origine dell’architettura e consegnando all’ammirazione perenne, che suscita la bellezza della natura, le coperture degli edifici bene ideate e bene eseguite, maestose, solide, ottimamente connesse.

Più oltre è Ugo da San Vittore ad essere contemplato come colui che in Eruditionis Didascalicae annulla le distinzioni gerarchiche tra arti meccaniche e arti liberali e la cui trattazione del lanificium, apparentemente povera e arida nomenclatura, indica in realtà una vera e propria “fenomenologia” del lavoro nelle sue varie declinazioni e nel suo concatenarsi di idee, procedimenti, utensili, prodotti. Il tutto rimanda a un Medio Evo estremamente operoso dove c’è spazio per apprezzare la perizia di coloro che “levigano, sgrossano, scolpiscono, limano, scalpellano”, o per descrivere con fervore letterario i movimenti delle mani al telaio.

Le stesse mani che nel XVI secolo, ama ricordare Battisti in La storia delle tecniche come nuova frontiera storiografica, lo scienziato napoletano Giambattista della Porta (nella Chirofisionomia) elogia in quanto tramiti della felicità collettiva, responsabili di “tutte le arti “ e senza di cui, anche “l’uso della ragione […] sarebbe stato […] privo d’ogni operatione & affetto.” Le stesse mani che l’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert avrebbe poi celebrato nella fecondità degli atti e delle intelligenze dedicando loro le numerose e splendide tavole di dita in azione, agili e esperte nel cardare il cotone, intagliare il legno, modellare la creta o cesellare gli argenti.

Nel 1977 quasi un’incarnazione di questo permanente elogio dell’homo faber verrà proposta da Battisti allestendo alla mostra milanese San Leucio. Archeologia storia progetto una sezione attiva dove un vero, grande telaio settecentesco era azionato da un artigiano che ancora custodiva la sapienza del tessere arazzi e pregiate stoffe di seta. Era un modo nuovo, coinvolgente e immediato di ragionare sulla storia. Meglio, citando ancora Giambattista della Porta, di “vedere le cose” oppure, riferendosi a Heidegger, di intendere la tecnologia come “disvelamento di verità”, per offrire, scrive Battisti, “il programma interno dello spettacolo” e “non solo il palcoscenico dietro le quinte”.

Il telaio voluminoso e complesso, trasportato e rimontato a fatica a Milano dalla lontana San Leucio, rivelava quindi il suo sofisticato meccanismo e, “scricchiolando sotto gli sforzi dell’uso”, rendeva possibile la percezione concreta dell’impegno, del tempo, della misura, delle cadenze dei gesti, della consistenza dei  manufatti. Rappresentava inoltre una dichiarazione di intenti, opponendosi con la sua lampante fisicità a dimenticanze e volute omissione, alle storie di fabbriche in cui il lato in ombra è spesso costituito proprio dai processi di lavoro e dal prodotto, alle storie della scienza prevalenti su quelle della tecnica, all’oblio degli atti, dei movimenti, degli arnesi, delle prassi.

Fu del resto in quell’occasione che l’archeologia industriale venne “ufficialmente” portata all’attenzione del pubblico e che gli interessi sempre coltivati intorno alla storia della cultura materiale trovarono un’ulteriore possibilità di elaborazione e comunicazione nell’applicarsi espressamente al lavoro, ai suoi luoghi e strumenti, nel confrontarsi con il presente in trasformazione e nel misurarsi con l’urgenza dell’attualità. Poiché un altro aspetto che contrassegna questi scritti è il bisogno di saldare la cognizione dell'antico con la comprensione del contemporaneo, di usare il documento del passato per affrontare i percorsi della modernità, di non “fare solo lo spettatore, o astioso, o partecipe del presente”, anche a rischio di “attualizzare all’estremo” e di sentirsi “costretti” a trasformare ogni risposta in un nuovo enigma.

In Un’archeologia senza confini, gli interrogativi si susseguono fitti e incalzanti senza risposte palesi; di fatto ampliano i riferimenti, suggeriscono intrecci, prospettano i sentieri di nuove ricerche, soprattutto rendono consapevoli dell’esistenza di un campo di studio potenzialmente assai fertile, ma instabile, soggetto a rapide trasformazioni e quindi bisognoso di continue cure. Il titolo di “archeologia industriale” apposto a questa raccolta indica quindi anche l’impegno di Battisti per la salvaguardia culturale delle testimonianze del fare e dei suoi processi; indica la vigilanza su mestieri e edifici, macchine e oggetti, disegni e fotografie, scritti e voci, archivi e filmati che raccontino la storia della materia trasformata dal lavoro. Fino a proporre di “frequentare gli stessi ambienti fisici, sentendo la stessa oppressione di spazio, ripetendone gli sforzi e ricalcandone i passi”: certamente una metafora, e tuttavia non troppo lontana dalla sua accezione letterale per un umanista che ha voluto “discendere negli scavi e nelle miniere”, e che ha inteso superare ogni ostacolo culturale trovando uguale motivo di interesse nello studio delle più eccelse opere d’arte come in quello della produzione più umile e utilitaria.

Nel saggio Storia della tecnologia e storia della scienza: una rivoluzione da fare Battisti ricorda come nel Settecento la fabbricazione dello spillo, “l’oggetto più piccolo, il più comune e il meno pretenzioso”, presupponesse una tale varietà, pertinenza e armonia di operazioni da farlo considerare un “prodigio dell’arte”, sottolineando poi come nell’attualità un analogo apprezzamento dovrebbe coinvolgere il mondo dei mestieri. Gli interventi di ricognizione e registrazione, da parte della Soprintendenza dell’Aquila, delle diverse fasi di lavoro per la fabbricazione tradizionale di un paiolo in rame suscitano quindi il suo entusiasmo, poiché se non si fossero fissate nelle illustrazioni e nelle fotografie le sequenze operative dell’artigiano, se non si fossero raccolti i ricordi e le spiegazioni degli ultimi esperti, anche quest’”arte” sarebbe andata irrimediabilmente perduta.

E con la sua uscita di scena si sarebbero grandemente impoverite le menti dei posteri, lasciati “privi tanto di tecnica che di scienza” o, per usare ancora le parole di Giambattista della Porta, tanto di “operatione” che di “affetto”, nonché della coscienza di quella straordinaria “tradizione fabbrile” che emerge da queste pagine come “nodo primario di civiltà” e “scrigno” di preziose “esperienze intellettuali.”

 

 

Ornella Selvafolta

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