Aldo Castellano                                                                                                                             home page

Il novembre 1989 non ha affatto interrotto il mio consueto parlare con Eugenio Battisti. Da allora è stata per me una pratica pressoché settimanale, per informarlo sulle nuove idee, sulle possibilità di azione, sulle scelte culturali, su un’attualità che da quello ’89 non ha mai smesso di sorprendere, entusiasmare o, viceversa, terrorizzare… E la sua immagine che era in me, ascoltava paziente, confortando.

Il risentire la sua voce attraverso la lettura delle sue parole scritte, che quasi suonano da lui parlate, mi fa sempre sobbalzare. Anche questa volta mi è capitato, leggendo, o meglio ascoltandolo parlare in questo volume di saggi sull’archeologia industriale.

E parlava a me con lo stesso affetto, con lo stesso gusto del paradosso, talvolta impiegato strumentalmente solo per diradare nell’interlocutore l’inerzia della mente e rimettere in moto la produzione d’idee, con la stessa irruente caparbietà con la quale difendeva le proprie convinzioni anche nella contraddizione, intervallata però da benevola accondiscendenza quando si trattava di idee diverse di un amico.

Il suono della sua voce, leggermente acuta e quasi sempre concitata, si leva per incanto dalle parole a stampa di questa raccolta di saggi dedicati a un tema – l’archeologia industriale – sul quale abbiamo lavorato a lungo insieme ad altri amici, e sul quale abbiamo a lungo confrontato le rispettive posizioni, non sempre convergenti, con costante entusiasmo e con il gusto quasi cavalleresco della disfida intellettuale ingaggiata tra amici, seppur egli fosse il mio maestro.

Era il 1977, quando a Milano – Battisti promotore – un gruppo di suoi giovani allievi e seguaci organizzarono il I Convegno internazionale d’Archeologia Industriale in Italia, tenuto negli ambienti straordinari, anche se un po’ lugubri, della settecentesca chiesa cimiteriale di San Michele ai Nuovi Sepolcri, detta anche Foppone dell’Ospedale o più comunemente Rotonda della Besana, dai piccoli teschi sui capitelli ad insistente memento mori.

A monte di quel convegno, cui aderirono storici dell’arte, dell’economia, della tecnologia, archeologi medievali, urbanisti e archeologi industrali stranieri,[1] c’era stato l’anno prima, a cura dello stesso gruppo di ricercatori, la costituzione a Milano di un Centro di documentazione e di ricerca sull’archeologia industriale, la cui fresca notizia – ricordo con una certa nostalgia – venne subito entusiasticamente portata da Antonello Negri e dal sottoscritto ai partecipanti al quarto incontro internazionale sul tema, intitolato Patrimoine industriel et société contemporaine, sites, monuments, musées, che si stava tenendo a Le Creusot, in Borgogna.

A valle di quell’incontro fortunato decidemmo, poi, di fondare l’Associazione Italiana d’Archeologia Industriale, articolata in sezioni regionali, sotto la presidenza d’Eugenio Battisti, che mi volle a suo fianco come vicepresidente.

A testimonianza di quel convegno milanese ci fu dapprima l’uscita nel 1978 di un’agile pubblicazione intitolata con una certa enfasi giovanile, Atti del Convegno internazionale di Archeologia industriale, e prodotta con ristrettezza di mezzi dalla cooperativa libraria del Politecnico di Milano, la Clup (ora anch’essa esempio di archeologia dell’industria editoriale più recente),[2] e successivamente il primo importante volume di saggi edito in Italia sull’argomento, di ampio respiro storiografico e innovatore nel taglio critico, La macchina arrugginita. Materiali per un’archeologia dell’industria, di elegante fattura editoriale per i tipi della Feltrinelli, ai tempi della collaborazione di Vittorio Fagone, che era previsto per l’autunno del 1979, ma che uscì solo nel giugno 1982 anche per vicende interne alla casa editrice. Dopo anni di vita (commerciale) stentata, il libro finì al macero, nonostante il tardivo interesse di una casa spagnola alla sua acquisizione e l’ingenuo nostro desiderio di rilevarne a titolo gratuito l’invenduto già sulla via del macero.

La composizione di quel primissimo nucleo di studiosi era piuttosto varia, a testimonianza dell’idiosincrasia di Eugenio Battisti per gli orti disciplinari, per le specializzazioni spesso trasformate in sclerotizzazione dell’intelligenza e del sapere. Vi si trovavano architetti che si erano dedicati alla storia dell’architettura, come Ornella Selvafolta e il sottoscritto, laureati al Politecnico di Milano sotto la sua guida con una tesi documentaria sul Corps e l’École des Ponts et Chaussées di Parigi, come egli stesso ricorda nell’intervista a Mondo Operaio del marzo 1983, qui ripubblicata, o architetti che, oltre all’insegnamento universitario della composizione architettonica, si dedicarono alla professione, come Paolo Caputo, anch’egli laureato nello stesso ateneo e con lo stesso relatore e Antonio Piva, con una tesi su San Leucio, celeberrimo insediamento industriale ed esperimento sociale borbonico nei pressi di Caserta. Al gruppo originario partecipavano anche storici dell’arte, come Antonello Negri dell’Università degli Studi di Milano, e studiosi della letteratura e della cultura anglosassone, come Massimo Negri oltre a Marcella Ricci.

Come si vede, si trattava di una compagine piuttosto composita per impostazione culturale e anche per interessi, e per di più niente affatto disposta ad accettare per disciplina di gruppo un’ipotesi di lavoro comune. A cominciare da Eugenio Battisti, ognuno aveva in mente una propria idea di archeologia industriale ed era più che convinto che valesse la pena di incrociare le armi della dialettica per sfidare gli amici colleghi nel tentativo di convincerli.

Col senno del poi, si può dire che fosse inevitabile che la nostra Macchina arrugginita dovesse avere una vita così grama presso il pubblico sino alla sua fine precoce: era troppo articolata, troppo complessa, troppo problematica, troppo… di tutto. A quel tempo il pubblico aveva bisogno, forse, di un’archeologia industriale dai chiari e definiti orizzonti storici, possibilmente coincidenti con concrete esperienze di vita contemporanea, e caratterizzata da un metodo semplice e abbordabile anche da parte di chi non aveva dimestichezza con settori disciplinari specifici, come ad esempio la storiografia, l’archeologia, l’architettura, la tecnologia, la storia dell’arte, la storia economica, ecc., ma era solo interessato alla gestione o alla conservazione del patrimonio culturale, anche semplicemente su un piano giornalistico.

Qualcuno di noi lo comprese e l’accettò, e da allora, insieme ad altri, divenne una delle anime più attive dell’archeologia industriale italiana, organizzando con enti pubblici campagne di schedatura del patrimonio industriale, e iniziative varie, editoriali e didattiche, per sensibilizzare il pubblico sulla necessità di conoscere, conservare e riutilizzare le strutture abbandonate dell’industria.

Altri, invece, pur comprendendo quel punto di vista, non vollero accettarlo mai, convinti, come erano, che l’archeologia industriale costituisse un’occasione troppo importante per arricchire e dilatare i confini della storiografia politica, economica, sociale e culturale, per doverla invece ridurre a una pur commendevole attività giornalistica di organizzazione del consenso attorno ai temi, allora invero assai contestati, della tecnologia e dell’industria.[3] Questo era il caso di Eugenio Battisti e, con varie sfumature, erano insieme a lui tutti gli storici dell’arte e dell’architettura che costituivano, poi, il fulcro di quel primo nucleo di “archeologi industriali” italiani.

Questa scelta intellettuale, che era di natura sostanzialmente aristocratica, in effetti si dimostrò incapace o per lo meno disinteressata a favorire subito la formazione di un movimento d’opinione o di un clima culturale favorevole allo sviluppo di quegli studi, dai quali anche la ricerca universitaria e le politiche editoriali avrebbero potuto trarre vantaggio. Si volle, invece, subito indirizzare la ricerca sul piano alto delle riflessioni storiografiche nella convinzione che alla fine quell’agit-prop giornalistico avrebbe ucciso non solo la ricerca, ma la stessa archeologia industriale.

Ho l’impressione che quei timori si siano oggi in gran parte avverati, nonostante tutti gli sforzi che Battisti ha sempre voluto profondere sino all’ultimo per tener desta l’attenzione dei ricercatori e delle istituzioni sull’argomento.

L’archeologia industriale in Italia si è trovata metabolizzata dalla cultura ancor prima di riuscire a mostrare cosa era in grado di produrre dal punto di vista scientifico e culturale. È stata accolta nel novero delle discipline ufficiali quasi sulla fiducia, non appena ha chiesto di esservi registrata. Non c’è stata battaglia, né polemica, tutt’al più una grande indifferenza.

Come Napoleone in Russia, s’è trovata senza controparte e straniera in un territorio culturale naturalmente ostile, dove tutto era consentito fare, anche se privo di ogni costrutto. È diventata un tema da agit-prop, per far socializzare comunità sfilacciate attraverso la riscoperta di radici locali, anche se spesso estranee alla loro stessa storia.[4] Oppure è stata l’occasione per estendere il progetto di conservazione del costruito a quell’immensa categoria di edifici che tutte le obsolete fasi della produzione industriale hanno lasciato sul territorio, e che la morte ha disinfettato da tutti gli umori velenosi che essi possedevano in vita, quando erano fabbriche sataniche,[5] prigioni odiate e strumenti di schiavitù solo da abbattere. Ma si sa, l’estinto è sempre caro, se non altro perché ha smesso di affliggere.

A parole è stato tutto permesso all’archeologia industriale, meno di dimostrare realmente cosa era in grado di produrre in termini scientifici e culturali. Sono stati catalogati centinaia e centinaia di “monumenti” dell’industria (ma altrettanti nel frattempo scomparivano), nella convinzione che solo su una conoscenza esaustiva del patrimonio si sarebbe potuto impostare una seria politica di conservazione e riuso. Ma quali motivazioni forti, quale aura potevano sprigionare quei monumenti industriali, per lo più edifici correnti e spesso estranei alla memoria collettiva delle comunità locali?

Nell’arco di due decenni l’archeologia industriale si è appassita in Italia. La strategia intrapresa fin dalla fine degli anni settanta l’ha condotta nel cul-de-sac dell’indifferenza collettiva. Perché mai i monumenti dell’industria dovrebbero ancora interessarci?

Una domanda del genere ci spinge immediatamente su un piano diverso da quello sinora praticato, dall’onesto e ragionieristico elencare dati e computare quantità, destinando risorse umane, tecniche e finanziarie casualmente per opportunità via via succedentesi, all’intrigante ricerca dei perché e dei valori, alla qualità degli eventi, alla storia.

Eugenio Battisti aveva ben lucido in mente il dilemma, che qui si rappresenta, quando scriveva contro “ le motivazioni nostalgiche, o estetizzanti, [che finiscono] per trasformare i nuovi musei non in uno strumento interattivo di introspezione, ma in una scenografia decorativa autre, cioè in una marxiana sovrastruttura”,[6] osservando inoltre che occorre saper scegliere fra le diverse tracce del passato, attribuire valore, discriminare tra ciò che è significativo, perché aiuta a capire la nostra storia, illuminando il presente, e ciò che non lo è: “Manca, per l’Italia, un quadro organico, che permetta, fra l’altro, di compiere quella dura e spietata selezione fra ciò che va conservato in modo prioritario e ciò che deve essere per ragioni economiche, di destinazione, di utenza, abbandonato. Non tutto si può restaurare, e assai poco può essere ripristinato in modo operativo; inoltre ogni regione deve salvaguardare quei complessi, grandi o piccoli, che costituiscono tappe essenziali della sua storia, o che sono monumenti unici non solo entro il contesto regionale, ma in quello nazionale e internazionale”.[7]

Il tema della scelta ci pone immediatamente sul piano storiografico. Non si può far storia senza scegliere, ossia discriminare tra documenti e informazioni di eventi. E su questo piano ha perfettamente ragione Battisti a lamentare l’indifferenza e la sordità della cultura italiana verso tutto quanto proviene dalla storia delle tecniche e dell’industria.

Fin quando si trattava di solo antiquariato tecnico-industriale, tutto era lecito e accettato. Dopo tutto il collezionismo moderno ha bisogno di sempre nuove categorie di oggetti, per tenersi in vita e giustificare il proprio mercato. Il mondo dell’industria obsoleta è una miniera di opere affascinanti, dagli edifici alle macchine ai prodotti. Non c’era motivo di escluderlo dal collezionismo moderno. E in effetti non lo è stato. È diventato un fenomeno di moda negli anni ottanta un po’ per nostalgia, un po’ per sofisticazione, di fronte alla perdita definitiva della vecchia industria meccanica e il passaggio dello scettro all’elettronica e all’informatica, per poi essere rimpiazzato da altro e abbandonato nell’oblio.

Quando, invece, da quell’antiquariato si è voluto trarre non il piacere estetizzante delle forme di un mondo che fu, ma la linfa parlante (se opportunamente interrogata, come è ovvio) di una storia di uomini che hanno realizzato le condizioni su cui riposa il nostro mondo attuale, beh, il discorso si fa subito più ispido, confliggendo con un sistema di valori culturali radicati nell’idealismo e intrisi di aristocratico disprezzo per l’homo faber.[8]

Eppure sono gli uomini, e non le cose, gli attori della storia. Battisti impiega una metafora icastica per rappresentare questo concetto: “ la fabbrica, allo stesso modo della casa, va esaminata non come contenitore, ma come contenuto, o anche più drasticamente, non come hardware, ma come software”.[9] Anch’io ero approdato a una conclusione analoga, quando definivo lo studio dell’archeologia industriale come l’antropologia storica della civiltà industriale: “completando così temporalmente il lavoro già intrapreso con importanti risultati da Jacques Le Goff per il periodo pre-industriale, la curiosità intellettuale degli archeologi industriali dovrà espandersi anche verso i settori della famiglia, della biografia degli uomini, verso la storia consensuale e non consensuale, verso l’ouï dire, cioè il folklore e la psicologia collettiva, verso gli aspetti visibili e invisibili della vita in società. Il programma è immenso, ma è sempre immensa la realtà della vita, e, quindi, della storia”.[10]

Per Eugenio Battisti la storia di uomini è qualcosa di più di una pura e semplice evidenza concettuale, non potendo esistere a rigor di logica una storia di cose, semplicemente perché non sono né soggetti viventi né soggetti storici. Essa è il fine cui tende il suo umanesimo radicale, incardinato sulla figura dell’uomo “produttore” o faber, umanamente fragile, ma anche capace di grandi eroismi intellettuali. I prodotti che quest’uomo è capace di ideare e realizzare, sono le tracce visibili della sua esistenza, della sua intelligenza e della sua capacità di dominare le forze della natura. Ammirare quelli significa esaltarne l’artefice e la sua condizione umana.

Se mai dovesse esistere un unico filo conduttore nella multiforme attività intellettuale di Battisti, credo che debba ricercarsi proprio in questo amore per l’uomo in società, per l’uomo attivo, ricercatore e costruttore, che agisce in mezzo agli altri e per gli altri. Troviamo opportunamente raccolti in questo libro di saggi anche una serie di interventi di Battisti che interessano tangenzialmente il tema centrale dell’archeologia industriale. Eppure, sono proprio questi testi che danno la chiave di interpretazione del volume stesso.

Sono articoli e saggi che sprizzano un autentico affetto per l’uomo concreto, il lettore, che, incerto, si avvicina ad essi per conoscere. Battisti non si accontenta di offrire conoscenza, come può essere l’elemosina data al bisognoso. No, vuole muovere anche coscienze e sentimenti, senza i quali ogni conoscenza è sterile. Vuole entusiasmare; vuol far trovare in ciascuno dei lettori la forza di reagire al presente; vuole insegnare a utilizzare tutte le proprie capacità intellettuali e sentimentali per modificare l’esistente insieme agli altri. Leggete, ad esempio, il bellissimo testo “Della difficoltà di essere contemporanei” per sentire le parole, le frasi sprigionare non solo informazioni, idee, sensazioni, ma vero e proprio pathos, quello di un illuminista romantico, che insegna a guardare al passato per agire nell’oggi e scrutare il futuro.

Non posso concludere queste note, ormai già lunghe, senza entrare in un problema nel quale Battisti mi coinvolge in più occasioni nei testi pubblicati in questa raccolta. Si tratta della definizione cronologica dell’archeologia industriale. Al tema Battisti ha dedicato più di un saggio, e sempre in tono affettuosamente polemico con me. Purtroppo non c’è stato tempo per parlarne ancora con lui in vita, per spiegarsi, per sciogliere quegli inevitabili equivoci che la troppa passione facilmente produce. Ora resta solo il rimpianto di un dialogo interrotto e monco da parte sua. A quale periodo storico deve applicarsi lo studio dell’archeologia industriale? Senza rete, Battisti rispondeva che il limite inferiore dovesse essere posto almeno a partire dalla rivoluzione industriale medievale.

In effetti, più che su questo limite temporale, il quale mi trovava consenziente, come già scrissi nel 1982 nella Macchina arrugginita[11], la diversità di vedute con Battisti si incentrava sulla definizione stessa di “rivoluzione industriale”, che per lui aveva avuto origine nell’Italia dell’XI secolo, anche sulla scorta degli orientamenti storiografici di Fernand Braudel e Roberto S. Lopez,[12] o ancora di Charles H. Haskins,[13] H. Pirenne, G. Cohen e Henri Focillon,[14] Lynn White jr.[15] o Jean Gimpel,[16] mentre a mio avviso quella fortunata etichetta storiografica doveva essere attribuita solo agli eventi complessi che hanno prodotto l’industrializzazione moderna, iniziata all’incirca nella tarda seconda metà del XVIII secolo in Inghilterra per poi radicarsi in Europa, America del Nord, Giappone e Australia tra il XIX e il XX secolo, e poi ancora oltre in India, in alcuni paesi africani, in Sud America ed Estremo Oriente.

Non è difficile contrapporre a quei celebri testimonial, indicati da Battisti a favore della propria tesi su una rivoluzione industriale, originatasi all’indomani della rinascita europea dopo l’anno Mille, depressasi verso metà del Trecento anche in concomitanza di una lunga sequela di sciagure, culminata nella tragica epidemia di peste nera,[17] ma sempre vitale, sia pur sotto la cenere, sino al suo riemergere prepotente nel corso del Settecento, altri non meno prestigiosi, come, per citarne solo alcuni, Carlo M. Cipolla,[18] oppure Piero Melograni[19] o ancora Friedrich A. Hayek,[20] T.S. Ashton,[21] R.M. Hartwell,[22] tutti convinti che la moderna rivoluzione industriale abbia rappresentato invece una profonda soluzione di continuità rispetto al corso della storia dell’umanità, una “rivoluzione”, appunto, non solo di carattere quantitativo, o produttivo o economico, ma di carattere più ampio, sociale, culturale e mentale. Walt W. Rostow, autore del celebre The Stages of Economic Growth. A Non-Communist Manifesto,[23] e, in collaborazione con altri, di The Economics of Take-Off into Sustained Growth,[24] introdusse la felice metafora del decollo di un aereo per definire la caratteristica prima del moderno processo di industrializzazione, che è appunto quello di autosostenersi, una volta raggiunto una data forza di propulsione per un certo periodo di tempo.

L’aereo del decollo economico già altre volte nella storia ha tentato di sollevarsi da terra, per spiccare il volo, non riuscendo però mai prima della seconda metà del Settecento a raggiungere quella massa critica, che è la forza propulsiva della Rivoluzione industrale, scaturita dalle nuove attrezzature produttive, da una superiore quantità della produzione e dalla crescente ampiezza dei mercati, dell’adeguata disponibilità e capacità della forza lavoro, da una superiore protezione sociale, garantita dai progressi dell’igiene e della difesa della salute e, non ultimo, dall’abbondanza di alimentazione, senza la quale non è possibile alcuna modernizzazione della struttura sociale e produttiva.[25]

Come per la storia dell’arte ci furono molte rinascenze della classicità durante e dopo la frantumazione dell’Impero Romano d’Occidente, ma uno solo fu il Rinascimento,[26] anche per la storia economica ci furono molti periodi di grande crescita, sostenuti da innovazioni tecnologiche e gestionali, ma uno solo fu il periodo che accumulò tanti e tali cambiamenti rivoluzionari da innescare il take-off nel processo di modernizzazione dell’intera struttura economica, sociale e culturale del mondo occidentale.

In più occasioni Eugenio Battisti ha riconosciuto che per le pur superbe trasformazioni manifatturiere e produttive del medioevo europeo “non scattarono i benefici dovuti alla creazione artificiale dell’energia, ai grandi mercati coloniali, e alle conquiste della moderna tecnologia” (p. 205), indicando con ciò la differenza a suo avviso principale che distingue la prima e “vera” rivoluzione industriale del Medioevo dalla seconda, settecentesca, più impetuosa e potente. In base a questo punto di vista, la differenza tra la prima e la seconda rivoluzione appare solo di grado, più che di sostanza. Il fenomeno storico sembra unitario, pur con oscillazioni in avanti e indietro.

Questa visione pare riferirsi soprattutto alla realtà manifatturiera, economica e tecnologica della “rivoluzione industriale”, registrando le performance e i record raggiunti. Non sembra invece preoccuparsi dell’altrettanto importante fenomeno della destrutturazione industriale e produttiva, che ha interessato non solo singole regioni, ma l’intero continente a partire dal XIV secolo. Perché già prima della peste nera l’Europa si incamminò verso il declino economico e produttivo? I mutamenti climatici (non certo causati dall’azione umana) sembrano i principali responsabili delle carestie che impedirono di sfamare la crescita demografica, originata dalla precedente crescita economica. Cosa significa tutto questo? Che la battuta d’arresto della “prima e vera” rivoluzione industriale medievale fu determinata dalla insufficiente produzione agricola? Sì, è proprio così.

Il fenomeno è noto agli storici economici. Lo chiamano trappola malthusiana: il prodotto marginale nella produzione agricola tende a cadere al crescere della popolazione, dato che, tranne circostanze particolarmente favorevoli, quali concimazioni più abbondanti o allevamento di bestiame più numeroso da una parte, o estensione della terra coltivata dall’altra, “prima delle innovazioni agricole dei secoli XVIII e XIX, la produzione dei campi era vincolata dalle esistenti condizioni naturali”.[27] Ne deriva che sia in caso di un’economia puramente agricola, sia in quella protoindustrializzata (che sempre dalla prima dipende per la sopravvivenza fisica), l’aumento della popolazione derivante da un periodo di crescita economica è frenato in ultima analisi proprio dalla barriera produttiva nel settore agricolo che, seppure non rigidamente statico, non è in grado di soddisfare le crescenti richieste imposte dall’incremento demografico, se non a condizione di una sua profonda trasformazione nelle funzioni produttive e nell’organizzazione economica delle campagne.[28]

Veniamo così all’ultimo punto di questa ormai lunga introduzione. La moderna rivoluzione industriale, ossia quella che solo nella seconda metà del Settecento ha fornito il propellente necessario e sufficiente per far decollare l’economia, facendola entrare in uno stadio nuovo e rivoluzionario, quello dello sviluppo autosostenuto (proprio come l’aria sostiene le ali di un aereo di crociera fornito di spinta adeguata), non ha interessato unicamente il mondo della produzione manifatturiera: dapprima ha rivoluzionato la gestione del mondo agricolo, aumentando la produttività dei campi, poi ha industrializzato la produzione agricola con nuove tecnologie, rendendo così possibile la sostenibilità dell’aumento demografico, fucina indispensabile dello sviluppo economico nel suo complesso; quindi ha trasformato il settore manifatturiero con nuovi sistemi gestionali e tecnologici; e infine ha modernizzato il settore dei servizi (dal commercio alle attività d’intermediazione economico-finanziaria, dall’istruzione alla cultura, ecc.), senza il quale il propellente dell’industria si sarebbe presto esaurito.

La moderna Rivoluzione industriale è un fenomeno assolutamente nuovo, perché autorigenerantesi (vedi la successione impetuosa di nuove rivoluzioni tecnologiche, succedutesi alla prima di fine Settecento sino ai giorni nostri), che interessa non solo la vita materiale o produttiva, ma l’uomo e la società nel suo complesso, compresa la cultura, i valori e la mentalità.

Questa dirompente novità non è, ovviamente, comparsa nella storia all’improvviso. Ha avuto un lungo periodo di incubazione, iniziato nel Medioevo e durato sino all’Illuminismo. In tutto questo tempo si sono meglio potuti conoscere i segreti della natura, dell’uomo e della vita in comunità, senza i quali il processo di modernizzazione avviato compiutamente nel Sette-Ottocento sarebbe stato impensabile. Per questo motivo, per poter comprendere davvero la natura del fenomeno, che ha sconvolto la nostra vita in Occidente, non solo è auspicabile, ma indispensabile volgere lo sguardo al nostro lontano passato, quando si mossero i primi passi verso questa avventura.

Con grande intelligenza, erudizione e passione Eugenio Battisti ci ha aperto gli occhi su questo passato dalle forti tinte chiaroscurali, ma ancor più ci ha fatto entusiasmare e inorgoglire di questa nostra storia, stimolandoci a ritornare protagonisti, come i nostri progenitori, artefici del nostro futuro.

Qui il mio accordo con Eugenio Battisti si fa completo, sciogliendosi nell’ammirazione per un uomo e un intellettuale che ha dato molto alla cultura del suo tempo, e con i suoi scritti continua ancora a dare.

 

Aldo Castellano

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[1] Ancora incredulo per essere riusciti a tanto (ma alle spalle avevamo il nome di Eugenio Battisti, che spendemmo con giovanile baldanza), mi piace ricordare la bella e nutrita schiera di partecipanti che riuscimmo a coinvolgere al convegno. Incominciando dagli stranieri: Neil Cossons, direttore dell’Ironbrifge Gorge Museum Trust; Wojciech Kalinowki, direttore del Centro di documentazione dei monumenti storici, Varsavia; Dianne Newell, presidente della Society for Industrial Archeology (North America), University of Western Ontario, London; Marie Nisser dell’Università di Uppsala; Bernard Rignault e Dominique Sauvageot, Ecomusée de la Communauté urbaine, Le Creusot, Montceau-les-Mines. I partecipanti italiani erano, in ordine alfabetico: Giuseppe Berta, Fondazione Luigi Einaudi; Carlo Bertelli, soprintendente alle belle arti di Brera; Silvia Bordini, Facoltà di Lettere, Università di Roma La Sapienza; Rossana Bossaglia, Università di Genova; Danilo Cabona, Centro Ligure per la Storia della Cultura materiale; Enrico Castelnuovo, Università di Losanna; Carlo Cresti, Facoltà di Architettura, Università di Firenze; Severino Fossati, Centro Ligure per la Storia della Cultura Materiale; Naria Cristina Gozzoli; Fabio Levi, Università di Torino; Simonetta Lux, Facoltà di Lettere, Università di Roma La sapienza; Franco Mancuso, Istituto Universitario di Architettura di Venezia; Franco Minissi, Facoltà di Architettura, Roma La Sapienza; Alberto Mioni, Istituto Universitario di Architettura di Venezia; Giorgio Mori, direttore dell’Istituto di Studi economici, Università di Firenze; Paolo Ranieri, assessorato alla cultura della Comunità montana, Comune di Chiavenna; Giusi Rapisarda, Facoltà di Lettere, Università di Roma La Sapienza; Piercarla Richetta, studente della Facoltà di Magistero, Università di Torino; Marco Rosci, Università di Torino; Paolo Thea, studente della Facoltà di Magistero, Università di Torino; Roberto Togni, assessorato alle attività e beni culturali, Regione Lombardia; e Marcello Vindigni, assessore al Patrimonio e Opere pubbliche, Comune di Torino. Tra i presenti al convegno figuravano anche Carlo Poni e Carlo Maccagni.

[2] Il volume degli atti era caratterizzato da grafica poverissima – come mi ricorda l’amica Ornella Selvafolta – con testi dattiloscritti dai singoli autori e pubblicati tali e quali, e immagini da fotocopia raccolte alla fine del libro. Negli atti compaiono, oltre agli interventi dei partecipanti al convegno, anche i saggi di Giovanna Rosso del Brenna, Università Cattolica di Rio de Janeiro, e di Nina Smurova dell’Istituto di Teoria e Storia dell’Architettura, di Mosca.

[3] Si era all’indomani del secondo grave shock petrolifero, quello del 1980, seguito a quello traumatico del 1974, che aveva chiuso l’epoca dell’energia a buon mercato per i paesi industrializzati, dando inizio, seppure forse senza un diretto legame di causa-effetto, a una crisi economica mondiale caratterizzata da un altissimo tasso di inflazione. Gli anni settanta avevano visto il prepotente irrompere sulla scena internazionale delle ideologie “verdi”, anti-tecnologiche e anti-capitalistiche, che si riconobbero in quello studio terroristico che il System Dymamics Group del MIT, diretto da Dennis L. Meadows, aveva redatto per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità, intitolandolo I limiti dello sviluppo (The Limits to Growth, The First Report to the Club of Rome, Universe Book, New York 1972), Mondadori, Milano 1972, estratto da S&T 72, Annuario della EST. Di fronte a conclusioni così apodittiche, come quelle contenute nel rapporto citato, era quasi impossibile poter nutrire una minima fiducia sul futuro della civiltà occidentale: “Gli ‘ottimisti tecnologici’”, vi si legge “confidano che la tecnologia giungerà a rimuovere o ad allontanare i limiti allo sviluppo della popolazione e del capitale; Abbiamo dimostrato peraltro, nel modello del mondo, che l’applicazione della tecnologia ai problemi dell’esaurimento delle riserve naturali, dell’inquinamento, della mancanza di alimenti, non risolve il problema essenziale, quello cioè determinato da uno sviluppo esponenziale in un sistema finito e complesso. I nostri tentativi d’introdurre anche le più ottimistiche previsioni sugli effetti della tecnologia nel modello, non impediscono il verificarsi del collasso finale della popolazione e dell’industria, in ogni caso non oltre il 2100”! (p. 504).

[4] La maggioranza delle comunità che ora abitano i luoghi dell’archeologia industriale proviene molto spesso da altre storie ed altre esperienze sociali. Il fenomeno dell’immigrazione ha alterato profondamente le tradizioni, determinando una soluzione di continuità nella memoria collettiva locale.

[5] Una per tutte, si veda il paragrafo intitolato appunto “Fabbriche sataniche” del bellissimo studio di Francis D. Klingender, Arte e rivoluzione industriale (tit. orig. Art and the Industrial Revolution, Adams and Mackay, Londra 1968), Einaudi, Torino 1972, pp.175-184.

[6] E. Battisti, “Storia della tecnologia e storia della scienza: una rivoluzione da fare”, qui pubblicato, p. 181.

[7] Ibidem. Lo stesso concetto è espresso anche in “L’altro aspetto dell’industrialesimo” del 1980, quando Battisti scriveva a p. 121 che “mentre un progetto di conservazione generale sarebbe folle, una scelta di campioni, un riciclaggio a tempo opportuno, un più abile sistema di compromessi fra vecchio e nuovo (come è accaduto in molte ditte che invece di distruggere i vecchi capannoni li hanno destinati ad attività marginali) può conservare come esempio vivo, oltre che come memoria a lungo, un patrimonio umano altrimenti destinato a disperdersi, o meglio, ad annullarsi in monti di detriti irrecuperabili”.

[8] Si veda in particolare l’introduzione di Battisti al convegno Il modo di costruire del Dipartimento di Ingegneria civile edile e di storia dell’architettura e dell’edilizia della Seconda Università di Roma, Tor Vergata, Roma, 6-8 giugno 1988, intitolato “La storia delle tecniche come nuova frontiera storiografica”, pp. 224-236, in cui lamenta lo scarso riconoscimento, soprattutto in Italia, del ruolo centrale che la storia delle tecniche e dell’industria ha avuto nella storia della cultura e della società. Una certa nostalgia per questo disprezzo verso l’homo faber sembra avvertirsi, solo per fare un esempio molto recente, anche nello studio di un grande storico tedesco, Karl Ferdinand Werner, che in Nascita della nobiltà, Einaudi, Torino 2000, osserva che il passaggio dall’età nobiliare a quella borghese con la rivoluzione del 1789 ha anche contrassegnato l’ingresso nell’era dell’homo faber. Ora è l’occupazione il termine ultimo per definire una persona, e in base al quale essa ha diritto morale all’esistenza: è il più prosaico e borghese “che fai?”. Un aneddoto chiarisce bene la distanza abissale che separa le due epoche, aristocratica e borghese, nella sensibilità collettiva. Alla domanda rivolta nel 1954 da un giornalista circa la sua professione, Giuseppe Tomasi principe di Lampedusa e duca di Palma aveva risposto icasticamente “Principe!”; e di fronte all’insistenza di quello, certamente non soddisfatto della risposta, “Ma che fate nella vita?”, con grande flemma confermò, “Sono principe”.

[9] E. Battisti, “Storia della tecnologia e storia della scienza: una rivoluzione da fare”, cit., p. 182.

[10] Si veda il mio “Per un’antropologia storica della civiltà industriale”, in La macchina arrugginita. Materiali per un’archeologia dell’industria, a mia cura e con prefazione di E. Battisti, Feltrinelli, Milano 1982, p. 141.

[11] Ibid. A pp. 140-141 scrivevo: “L’ipotesi da cui sono partito è che l’unico limite legittimo per una ricerca storiografia è l’argomento dello studio, non la caratteristica del tipo di documentazione, né la metodologia, né ancora una aprioristica limitazione cronologica. È il tema, quel che conta e l’obiettivo può essere raggiunto con tutti i mezzi a disposizione, e quante più voci saranno ascoltate e raccolte, tanto più si potrà sperare di avvicinarsi alla complessità del reale”. A p. 115 precisavo meglio: “Se l’archeologia industriale aspira ad esser ricerca storica e non semplice antiquaria delle strutture fisiche nelle quali si è svolta la produzione industriale, essa può essere definita, in via di ipotesi nel modo seguente:

1.        L’archeologia industriale è lo studio del processo di industrializzazione;

2.        I limiti cronologici del suo studio non possono essere rigidamente definiti e dipendono dai singoli aspetti in cui può essere affrontata la complessa realtà del processo di industrializzazione: e, precisamente, se si accetta l’ipotesi di Pierre Lebrun valida anche per l’Italia, dal secolo XI alla rivoluzione industriale del nostro secolo;

3.        L’oggetto dello studio non è limitato al solo settore industriale, ma è esteso a tutti i settori della produzione;

4.        (come estensione delle proposizioni 1 e 3) in base all’ipotesi che l’industrializzazione sia anche una mutazione delle strutture mentali collettive, la ricerca avrà per oggetto non solo la civiltà materiale, ma anche la storia culturale e quel residuo lasciato inesplicato da ogni analisi razionale degli eventi storici che è la storia della mentalità collettiva, la storia del privato, del segreto e dell’inconscio, insomma l’intera storia degli uomini in società, che si può definire, secondo un’espressione da me già utilizzata, l’antropologia storica della società industriale”.

[12] Si veda qui in particolare il saggio “La vera rivoluzione industriale”, pp. 193-223, di cui mi sfugge la data di edizione, forse appena posteriore al 1986, anno più recente della bibliografia citata, e il suo gustoso incipit.

[13] Vedi di Haskins il volume The Renaissance of the 12th Century, 1927.

[14] H. Pirenne, G. Cohen, H. Focillon, Histoire du Moyen Age, 1933.

[15] L. White jr., Medieval Technology and Social Change, 1962.

[16] J. Gimpel, La Révolution Industrielle du Moyen Age, 1975.

[17] Ma quanta della feroce virulenza della peste nera era da imputare anche alla debolezza intrinseca di una popolazione, alla quale la presunta rivoluzione industriale del Medioevo non aveva evidentemente ancora portato i benefici di benessere e longevità, che saranno poi registrati invece tra le conseguenze più eclatanti della moderna Rivoluzione industriale. Marcel R. Reinhard, André Armengaud e Jacques Dupaquier, nella Storia della Popolazione mondiale (ed. orig. Parigi 1968), Laterza, Bari 1971, osservano che la straordinaria crescita demografica del tempo (per lo meno 60 milioni di abitanti in tutta Europa verso il 1300) “era andata troppo oltre le possibilità economiche del tempo e specialmente quelle alimentari”, p. 127. Grazie anche a una probabile variazione climatica, che aveva portato a una nuova avanzata dei ghiacciai e all’inizio di una miniglaciazione (freddo e umido) durata fino al XVIII secolo, il XIV secolo era stato caratterizzato da almeno tre periodi di carestie generalizzate, che su un paese relativamente sovrappopolato provocano spesso un riflusso demografico duraturo: il 1315-17, il 1340-50 e il 1374-75. “La carestia che si verificò nel primo di questi periodi può essere considerata come quella decisiva, poiché essa segnò l’inizio di quella lunga inversione di tendenza che dopo il fecondo secolo XIII inaugurò il buio Trecento. (…) mentre i più ricchi erano riusciti a non soccombere davanti al flagello, per gli altri era iniziata la trafila fatale: mendicità, vagabondaggio, saccheggi, ricorso a cibi abietti (carogne, radici) che causavano la dissenteria e altri gravi malattie, e infine la morte. Le cronache del tempo ci lasciano intravedere sullo sfondo un panorama terribile: lotte frenetiche intorno ai cibi più ributtanti, furti, violenze, uccisioni, addirittura casi di antropofagia. Secondo la cronaca di Villani un terzo della popolazione morì”, pp. 134-135. Le aspettative di via sembra che precipitassero ai livelli raggiunti all’inizio dell’XI secolo. Le avversità meteorologiche erano la causa principale della carestia, ma non l’unica. Anche la cattiva, per non dire pessima, situazione sanitaria contribuiva fattivamente ad amplificare a dismisura gli esiti delle carestie. In Italia, nel 1340-42, secondo quanto scrive E. Carpentier, citato dai tre autori, “in pochi mesi queste ‘pestilenze’, secondo quanto riferiscono i cronisti, fanno sparire un terzo o un quarto delle popolazioni che da esse sonostate colpite ma che quasi sempre sono popolazioni sottoalimentate in conseguenza di una carestia”, pp. 135-136. Poi bisogna tener conto del generalmente sottostimato “peso eccessivo dei carichi fiscali e di altro genere che gravavano sulla massa della popolazione”, e non ultimo la crisi monetaria del 1335-1345 che colpì soprattutto Francia, Inghilterra e Paesi Bassi, e che portò al clamoroso fallimento delle più grandi banche toscane e mondiali dei Bardi e dei Peruzzi, e dei loro collegati: “questa crisi mise a dura prova il livello di vita delle popolazioni e accrebbe la mortalità”. Gli autori concludono, dunque, che “ad essere assalite dalla peste nera furono (…) delle popolazioni già indebolite da una sfavorevole congiuntura economica e finanziaria: già da più di una generazione la crescita demografica si era arrestata. Qeusta circostanza indubbiamente aggravò gli effetti immediati e non dell’epidemia”, p. 136.

[18] Si veda almeno il delizioso pamphlet Uomini, tecniche, economie (tit. orig. The Economic History of World Population, 1962, 1964, 1965, 1967, 1970, 1974), Feltrinelli, Milano 1966 e seconda edizione interamente riveduta e aggiornata, 1977.

[19] L modernità e i suoi nemci, Euroclub Italia, su licenza Mondadori, Milano 1996.

[20] Si veda almeno il volume di saggi curato da Friedrich A. Hayek, Il capitalismo e gli storici, Bonacci editore, Roma 1991, già edito da Einaudi (Torino) e Sansoni (Firenze) a Firenze nel 1967 (tit. orig Capitalism and Historians, Routledge & Kegan, Londra 1954).

[21] Da non perdere il classico La rivoluzione industriale 1760-1830 (tit. orig. The Industrial Revolution 1760-1830, Oxford University Press, Londra 1948, con revisioni e aggiornamenti, 1966), Laterza, Roma-Bari 1969, 1975.

[22] The Causes of the Industrial Revolution, a cura di R.M. Hartwell, Methuen, Londra 1967 (trad. it. in edizione ampliata a cura di C.M. Cipolla, La rivoluzione industrale, Utet, Torino 1971;

[23] Cambridge University Press, New York-London 1960, trad. it. Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi, Torino 1962.

[24] Atti della conferenza omonima, tenuta dall’International Economic Association, a cura di W.W. Rostow, MacMillan, St. Martin’s Press, New York 1965.

[25] Alexander Gerschenkron nel saggio “Tipologia dello sviluppo industriale come strumento analitico”, già presentato alla “Second International Conference on Economic History”, Aix-e-Provence 1962 e pubblicato prima negli atti del congresso, vol. II, Parigi 1965 e poi in A. Geschenkron, La continuità storica. Teoria e storia economica (tit. orig. Continuity in History and other Essays, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1968, pp. 79-103, osservava a proposito dello sviluppo industriale della Bulgaria dagli inizi del secolo XX alla fine del periodo tra le due guerre: “Nell’intervallo di tempo considerato ebbe luogo un’espansione della produzione tutt’altro che trascurabile, ma molti indici qualitativi, come le dimensioni degli impianti e delle imprese, la composizione del prodotto industriale, la produttività del lavoro, e così via, rimasero nel complesso immutati. L’esistenza di questo tipo di industrializzazione, talvolta descritto come processo di crescita (per distinguerlo da vero e proprio processo di sviluppo), è interessante, perché suggerisce l’ipotesi che i veri e propri mutamenti strutturali del sistema economico non si verifichino con molta facilità, se il saggio di sviluppo non supera un certo livello minimo”, pp. 88-89. Nel 1961, in una comunicazione alla Société d’Histoire Modene, David Landes utilizzò l’espressione di massa critica, desunta dalla fisica nucleare, per indicare l’accumulazione dei diversi fattori che mettono in moto la rivoluzione industriale. Cfr. D. Landes, “Encore le problème de la Révolution industrielle en Angleterre”, in Bulletin de la Société d’histoire moderne, 12a serie, n. 18, 1961, p. 6.

[26] Il mio esplicito richiamo è all’omonimo saggio che dà il titolo alla raccolta di E. Panofsky, Rinascimento e rinascenze nell’arte occidentale (tit. orig. Renaissance and Renascences in Western Art, Almqvist & Wiksell/Gebers Förlag AB, Stoccolma 1960), pp. 61-136.

[27] B.H. Slicher van Bath, De agrarische geschiedenis van West-Europa (500-1850), Het Spectrum, Utrecht-Anversa 1962 (trad. it. Storia agraria dell’Europa Occidentale (500-1850), Einaudi, Torino 1972, pp. 27 e 140.

[28] Si veda J. Mokyr, Industrialization in the Low Countries, 1795-1850, Yale University Press, New Haven e Londra, 1976.