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Nuovi Orizzonti spazio di studi storici


Luciano Atticciati

Storia della guerra fredda 1945-1989

 

introduzione

cap. 1° il nuovo assetto dell’Europa

cap. 2° l’Unione Sovietica nel periodo staliniano

cap. successivi

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introduzione

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            La guerra fredda che, lo storico Luigi Salvatorelli ha definito uno scontro "non tanto fra capitalismo e comunismo, quanto fra una concezione liberale-democratica del mondo e una colettivistico-autoritaria"[1], si è conclusa. Non sappiamo se i nuovi stati creatisi dalla disgregazione del mondo comunista si avvieranno ad una piena stabilità economi­ca, politica e ad un più elevato livello di democrazia. Tuttavia una fase della storia si è definitivamente chiusa, la politica dei blocchi si è dissolta, il grande vincitore, gli Stati Uniti, hanno saputo non abusare di questo successo, mentre altre potenze nell'Estremo Oriente, che forse saranno all'origine di nuovi antagonismi, sembrano emergere. 

            Fra i tanti conflitti verificatesi nella storia, la guerra fredda si caratterizza senz'altro per essere uno dei più fortemente ideologizzati. All'indomani della fine della seconda guerra mondiale si crearono due schieramenti rigidamente contrapposti non sulla base di contrasti particolari­stici fra stati, ma sulla base delle dottrine politiche che i governi si erano dati e non è stato raro il caso che la caduta di un regime provocasse il passaggio di uno stato da uno schiera­mento all'altro.

            Per quanto paradossale ad uno sguardo complessivo risulta che l'Occidente si fece portatore dei valori di "sinistra" nonostante le contestazioni in Europa e negli Stati Uniti da parte di quelle forze politiche che ad essa si richiamavano. Rispetto dei principi dello stato diritto e del diritto internazionale, parità giuridica fra gli stati, tutela dei diritti civili e politici hanno caratterizzato più lo schieramento euro-americano di quello comunista. L'impegno con cui la sinistra europea e americana ha sostenuto lo scontro, pensiamo al laburista Attle o al socialista francese Mollet, il vero ispiratore della crisi di Suez, può confermare tale ipotesi.

            Un giudizio sulla guerra fredda al momento della sua conclusione fa ritenere che lo scontro fra Est e Ovest sia consistito prima ancora che nel conflitto fra capitalismo e comunismo come spesso è stato interpretato, fra democrazia e totalitarismo, fra sistemi politici progrediti e sistemi politici più arretrati le cui forze politiche, in Russia come nei paesi balcanici, una volta sconfitte sono confluite a fianco dei nazionalisti. Non esiste conflitto senza una ragionevole dose di realismo politico e nel settore asiatico certamente gli schieramenti persero abbondantemente di significato ideologico, tuttavia ciò non consente in alcun caso di ritenere che esistesse analogia fra i contendenti.

            L'immagine dell'Unione Sovietica in Occidente non era stata mai positiva (come del resto quella della Russia zarista in precedenza), e conobbe un ulteriore deterioramento successivamente a causa del terrore in quegli anni di una guerra che in diversi momenti venne considerata come immi­nente anche da autorevoli personaggi; tuttavia possiamo oggi dire che gli occidentali non si fecero travolgere dalla emotività e quando Mosca dimostrò di voler intraprendere dei passi positivi verso la pace non venne a mancare una risposta da parte dei governi occidentali.

            La soppressione delle libertà, le violazioni gravissime del diritto nel mondo comuni­sta non erano giustificate da situazioni contingenti (come molti in passato hanno ritenuto), ma costituirono parte essenziale della dottrina di questi stati, la cui ideologia aveva subito un notevole processo di involuzione rispetto alle dottrine originarie. Quando vennero a mancare le "catene" che teneva saldo il potere, i regimi comunisti si dissolsero rapidamente, abbattuti dall'azione pacifica delle forze emergenti.

 

            La guerra fredda è stata una guerra totale sia perché ha interessato larga parte del mondo, anche le aree più periferiche, sia perché ha investito tutte le strutture dello stato e della società (da quelle economiche a quelle politiche e culturali), e venne condotta anche all'interno degli stati stessi attraverso operazioni di varia natura che tendevano a neutraliz­zare i simpatizzanti del fronte avversario. Come in una guerra combattuta i territori venivano perduti o conquistati, ma senza ricorrere all'uso delle armi, quando risultava evidente che una posizione non fosse più difendibile la si abbandonava semplicemente. Tuttavia, e questa costituì la grande differenza rispetto alle guerre tradizionali del passato, i governi interessati agirono in maniera sempre cosciente che lo scontro potesse degenerare in un conflitto incontrollabile che avrebbe potuto provocare la fine dei vincitori e dei vinti e forse dell'umanità.

            La guerra condotta dagli Stati Uniti non fu una operazione di profitto capitalistico a favore di un ristretto gruppo di uomini come sostenuto da una certa parte della sinistra, il capitalismo internazionale fu invece in larga parte contrario alla guerra fredda per tutta la serie di restrizioni al commercio verso paesi che offrivano materie prime e mercati a buon prezzo, ed infatti una consistente opposizione all'impegno degli Stati Uniti sulla scena internazionale provenne dagli ambienti dell'alta finanza. L'azione politica di Washington ha invece trovato il consenso di un vasto movimento d'opinione nel paese, che con l'eccezione della guerra del Vietnam, non ha fatto mancare il suo appoggio al governo. Gli Stati Uniti che hanno sostenuto il maggior peso della guerra con grande dignità e impegno di uomini, capitali e mezzi non trassero beneficio della situazione politica creatasi. Diversamente altri paesi che come il Giappone hanno evitato di assumersi responsabilità e impegni sul piano internazionale, nel corso degli anni hanno tratto vantaggio dagli sforzi delle altre nazioni per la conquista dei principali mercati mondiali. Può essere definita d'altra parte guerra per profitto capitalistico quella del Vietnam o quella di Corea? I due stati asiatici non presentavano mercati particolarmente appetibili in quanto paesi con un tenore di vita molto basso, né grandi risorse che potevano interessare al capitalismo internazionale.

            La guerra fredda si concluse senza un vero armistizio; non appena l'Unione Sovietica dimostrò di voler cambiare rotta con una evoluzione interna e nei rapporti internazionali, gli Stati Uniti e l'Europa raccolsero prontamente l'offerta e non imposero condizioni gravosi agli sconfitti. Gli Stati Uniti non approfittarono della loro posizione di forza e anzi dimostrarono negli anni successivi un minore interesse per le questioni internazionali, mentre i rapporti fra USA ed Europa rimasero all'insegna della correttezza e del rispetto reciproco.

            A più riprese si è ritenuto che la guerra fredda potesse concludersi attraverso un negoziato "globale", ma questa soluzione non era credibile più di tanto, i paesi comunisti nel corso degli anni avevano sottoscritto e non rispettato i più importanti accordi internazionali, dalla Dichiarazione sull'Europa liberata, ai principi espressi alla conferenza di Bandung (nel caso della Cina), al più recente Atto Finale di Helsinki, e pertanto il conflitto fra Occidente e Oriente si concluse soltanto quando il governo di Mosca mise in atto una serie di atti concreti che andavano verso il riconoscimento dei diritti dei popoli.

            La guerra fredda è stata una guerra in larga parte non combattuta, tuttavia nel corso delle numerose guerre succedutesi dal 1945 al 1980 (non tutte ovviamente legate direttamente al contrasto Est-Ovest) si sono avuti 25 milioni di morti, cifra inferiore ai caduti della seconda guerra mondiale ma comun­que molto elevata.

            Il periodo storico che tanto ha agitato l'opinione pubblica in ogni parte del mondo, deve essere ancora approfondito e rivisto alla luce delle nuove realtà createsi. Ritengo comunque con questo lavoro di aver dato un contributo come storico e come uomo che sente profondamente i problemi del suo tempo.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

parte 1° dalla conclusione della 2° guerra mondiale alla morte di Stalin 1945-1953


 

 

 

 

 

il nuovo assetto dell'Europa

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            Nella sistemazione dell'Europa e del resto del mondo, due concezioni politiche si affrontarono: quella che intendeva la pace come una sistemazione tra le grandi potenze, e quindi come spartizione dei continenti, e quella che riteneva che i vincitori dovessero limitarsi alla ricostituzione degli stati secondo le realtà politiche e storico culturali esistenti, avviarle a libere istituzioni ma astenersi da ingerenze negli affari interni di queste. Prevalse, soprattutto da parte sovietica, il primo tipo di soluzione, e le grandi potenze non si limitarono ad aggiustamenti e rettifiche di confine, ma si accordarono su quali governi riconoscere, quali forze politiche sostenere, e persino sulla gestione dei loro primi atti politici.

            Con la conclusione del conflitto mondiale contro la Germania nazista l'Unione Sovietica ritenne di potersi assicurare alcune importanti posizioni nella scena internazionale. Lo stato comunista avanzò pretese su alcune regioni di confine senza che sussistessero ragioni giuridiche o politiche per procedere in tal senso. Le nazioni dell'Europa Orientale liberate dall'Armata Rossa divennero area di influenza sovietica; la violazione dei diritti civili e politici e le epurazioni condotte in questi paesi suscitarono l'ostilità dei governi dei paesi occidentali e una diffusa avversione dell'opinione pubblica, che in un primo tempo aveva visto anche con simpatia il grande stato eurasiatico.

            Alla fine del conflitto mondiale infatti molti uomini anche di governo, in Europa e in America, avevano maturato un sentimento di riconoscenza verso l'Unione Sovietica per il suo grandioso impegno nella lotta al nazismo. All'interno dello schieramento occidentale, in Italia e in Francia particolarmente, si ebbero forze politiche non contrarie all'Unione Sovietica che ritenevano che la mancata realizzazione della democrazia in quello stato dipendesse da cause contingenti non intrinseche ai principi comunisti, tuttavia molti di questi furono costretti successivamente a ricredersi; una serie di gravissimi fatti gettavano delle ombre sul comportamento di Stalin, come il Patto Molotov-Ribbentrop, il massacro dei polacchi a Katyn, la mancata partecipazione dei partiti comunisti alla resistenza fino alla aggressione tedesca all'URSS nel giugno '41.

            La seconda guerra mondiale mise in luce l'esigenza per l'Unione Sovietica di confini più sicuri verso la Germania e un più libero accesso ai mari che le consentisse di garantire rifornimenti necessari. Con gli acquisti territoriali dalla Polonia e dalle altre nazioni confinanti tale obbiettivo poteva ritenersi sufficientemente raggiunto ed in ogni caso tale necessità non giustificava in alcun modo gli eventi successivi in Europa orientale. L'Unione Sovietica poteva richiedere l'uso di basi militari in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria e Romania ma non poteva tenere anche soggiogati i rispettivi popoli e imporgli trattati fortemente sperequati come avvenne nel corso degli anni Cinquanta. D'altra parte le richieste sovietiche sulle ex colonie italiane, o sull'Armenia e l'Azerbagian, all'indomani della fine del conflitto, (o la restaurazione degli antichi diritti in Cina), poco avevano a che vedere con le necessità di frontiere sicure. "Alla fine della guerra" ha sostenuto lo storico italiano Luigi Salvatorelli "Stalin avrebbe potuto realizzare una solida sicurezza dell'URSS, insieme con l'equilibrio e l'equa coesi­stenza con gli alleati occidentali, solo che avesse lasciato ai paesi liberati dell'oriente europeo la stessa libertà che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna lasciarono a quelli dell'Occidente. Egli invece preferì creare, in una zona vastissima tra il Baltico e il Mar Nero, l'Egeo e l'Adriatico, una serie di stati satelliti, attraverso le occupazioni militari e i governi totalitari comunistici"[2].

            Neanche la debolezza economica dell'Unione Sovietica può essere considerata come la causa dell'insorgere dei contrasti fra Est e Ovest; perché Mosca rifiutò il Piano Marshall che difficilmente avrebbe potuto costituire una forma di ingerenza in un paese con un potere così fortemente concentrato? Una potenza che ritiene di essere in stato di inferiorità ricerca l'appoggio delle altre nazioni vicine, la Russia non fu in grado di mantenere buone relazioni nemmeno con paesi come la Francia, che all'indomani del conflitto mondiale si trovava in una posizione di antagonismo con gli anglo-americani. Nel corso della guerra si erano avuti infatti diversi contrasti tra francesi ed anglo-americani; uno dei più significativi, riportato anche da Truman nelle sue memorie, fu l'occupazione della Val d'Aosta da parte dell'esercito gollista in aperto contrasto con le direttive del Comando Alleato, e l'intervento francese in Siria e Libano che inglesi e americani (e le NU) consideravano stati sovrani.

            Secondo altri autori il possesso esclusivo della bomba atomica da parte degli USA fu la causa della guerra fredda; ma allora ci si può chiedere perché l'URSS non tentò un riavvicinamento con i paesi europei che nel dopoguerra si erano spostati a sinistra? Le violazioni degli Accordi di Yalta sull'Europa orientale e l'opposizione al Piano Baruch sullo sfruttamento dell'energia nucleare non potevano certo favorire lo sviluppo di rapporti pacifici.

            La tesi sostenuta dal senatore americano Mc Namara in "Il disgelo" che l'Unione Sovietica prostrata dalle distruzioni della guerra e dalla carestia, non poteva pensare ad una aggressione all'Europa sembra una deduzione applicabile ad un paese occidentale e non tiene conto della realtà sovietica. Un regime che alla vigilia della guerra decapitò la grande parte delle gerarchie militari non avrebbe rinunciato ad un piano del genere per le pur pressanti questioni agricole. E' invece da ritenere che Stalin pensasse ad un'azione contro l'Europa non comunista attraverso piccoli passi. Molti osservatori politici nel periodo più drammatico della guerra fredda ritenevano che l'URSS puntasse a rovesciare i governi di Grecia e Turchia, mettere in crisi la Germania, e quindi attraverso i forti partiti comunisti locali mettere le mani su Italia e Francia, arrivando in breve tempo a controllare tutta l'Europa continentale.

            L'Unione Sovietica negli anni successivi alla seconda guerra mondiale aveva ragione a sentire la sua sovranità minacciata? Il "cordone sanitario" realizzato negli anni '20 da governi ostili alla Russia era decaduto e sostituito da paesi satelliti che ne garantivano le frontiere, l'esercito americano smobilitato e le industrie belliche occidentali riconvertite rapidamente alla produ­zione civile; nel '44 poi il governo De Gaulle aveva sottoscritto un trattato d'amicizia con la Russia e negli stessi anni si ebbe un analogo trattato di alleanza russo-britannico. Tutte queste ragioni dovrebbero far pensare che l'Unione Sovietica non avesse molto da temere e che non esisteva una ostilità pregiudizievole nei suoi confronti. Gli Accordi di Yalta prevedevano d'altra parte significative garanzie (come la revisione dello statuto degli stretti del Mar Nero), mentre fra gli Alleati i rapporti non erano sempre così cordiali come si potrebbe pensare. Nel '44 gli Accordi di Bretton Woods sull'economia mondiale e il sostegno americano alle aspirazioni indipendentistiche dei popoli asiatici costituivano motivi di attrito fra USA e le potenze europee.

            All'origine della guerra fredda vi fu sicuramente il problema delle zone d'influenza sulle quali esistevano concezioni molto diverse. Per i sovietici il concetto di zona d'influenza implicava il diritto di intervento negli affari interni dello stato, mentre per gli occidentali doveva essere garantito il ritorno alla legalità. Così nella Grecia sotto l'influenza britannica si ebbe come primo ministro un democratico convinto come Papandreu, mentre nel fronte opposto si avevano uomini come Rakosi o Ulbricht disprezzati dai propri cittadini e total­mente soggetti all'autorità di Mosca. Nessun raffronto è possibile fra paesi come l'Italia o il Giappone che gli accordi fra le potenze avevano previsto come soggetti "all'influenza americana" e paesi come quelli dell'Europa orientale dove ogni legalità era stata stravolta.

 

            Certamente è difficile pensare ad una guerra che si sovrappone con una precedente, tuttavia i primi segnali della contrapposizione fra Est e Ovest sono ben presenti nel corso della seconda guerra mondiale: il contrasto fra il governo polacco di Londra e il governo di Lublino, l'antagonismo fra i gruppi della resistenza filo monarchici e comunisti in Jugoslavia, la guerra civile in Grecia costituirono eventi significativi di un mutamento di clima politico.

            Il nuovo assetto dell'Europa iniziò a delinearsi ben prima della conclusione del conflitto mondiale. Nel corso della guerra i tre "Big" Inghilterra, Stati Uniti, Unione Sovietica tennero una serie di incontri sulla conduzione militare e sugli aspetti politici dello scontro; dapprima sommariamente, successivamente nel dettaglio venne formulata la nuova geografia del continente.

            Nella Conferenza di Teheran del dicembre '43 venne concordato l'impegno a realizzare una grande "famiglia mondiale di nazioni democratiche" secondo i principi espressi nella Carta Atlantica precedentemente stabilita e approvata anche dall'URSS. La Carta Atlantica, uno dei documenti più importanti nella enunciazione dei principi che dovevano ispirare il futuro assetto mondiale, prevedeva il diritto dei popoli all’autodeterminazione, il sostegno alla democrazia, la collaborazione tra le nazioni nella sicurezza e nella libertà, la riduzione degli armamenti, e il libero accesso alle materie prime. Nella stessa Conferenza, tuttavia, presero corpo alcune richieste, di diversa ispirazione. Venne proposto che all'interno dell'organizzazione mondiale degli stati fosse riservata una posizione di maggiore rilievo alle grandi potenze che avevano preso parte alla guerra al nazifascismo, richiesta che negli anni successivi si concretizzò nella istituzione del "Consiglio di Sicurezza" dell'ONU. L'organismo non presente nella precedente Società delle Nazioni e tuttora in vigore, rappresentò una alterazione al principio della pari dignità delle nazioni. Gromiko riferisce a tal proposito nelle sue memorie di avere avuto contrasti di vedute con il segretario di stato Stettinius contrario ai poteri speciali da conferire alle tre grandi potenze[3], e nel corso degli anni il diritto di veto previsto venne utilizzato più di 100 volte dall'URSS. Le limitazioni ai principi del diritto internazionale furono anche più ampie. L'Unione Sovietica richiese in quel consesso il riconoscimento degli acquisti territoriali previsti dal Patto Molotov-Ribbentrop del '39: annessione di Lituania, Lettonia, Estonia e delle provincie orientali della Romania e della Polonia, portando il confine con quest'ultima su una linea che sostanzialmente coincideva con la linea Curzon, che era considerata la più equa demarcazione fra le popolazioni russo-ucraine e polacche.

            Sulla questione polacca in particolare, non mancarono aspri contrasti; nell'aprile precedente si era verificata la rottura delle relazioni fra il governo polacco in esilio a Londra e l'Unione Sovietica in seguito alla scoperta dell'eccidio di ufficiali polacchi, avvenuto presso il villaggio di Katyn, dove vennero rinvenuti nelle fosse comuni cadaveri di oltre 10.000 militari. Nella zona polacca appena liberata, la costituzione di un nuovo governo, il comitato di Lublino, in contrasto con il governo in esilio, e il mancato intervento dei russi a favore della rivolta di Varsavia, contribuì notevolmente all'ostilità verso i comunisti. Nel corso della tragica insurrezione (durante la quale trovarono la morte 250.000 polacchi) i sovietici prossimi alla città deliberatamente evitarono di occuparla e rifiutarono lo scalo sul territorio da loro controllato degli aerei anglo-americani che avrebbero consentito l'invio di materiale bellico agli insorti. La repressione nazista costituì un pesante colpo per il movimento di resistenza. Analoghi avvenimenti si ebbero in Slovacchia, anche qui un insurrezione antitedesca quando i reparti dell’Armata Rossa erano prossimi alla regione non ebbe successo; tuttavia in questo caso la collaborazione fra democratici e comunisti non venne meno.

            Alla Conferenza Churchill espose il suo punto di vista sulla necessità di una penetrazione degli eserciti dei paesi occidentali nei Balcani al fine di contrastare l'influenza sovietica nella regione, ma non ebbe l'appoggio di Roosevelt e la questione decadde senza avere seguito. Le importanti concessioni degli anglo-americani ai sovietici nella Conferenza di Teheran e in quella successiva di Yalta erano finalizzate all'inserimento dell'URSS nel sistema di relazioni internazionali di stampo occidentale, e di incoraggiare alcune importanti riforme interne di quel paese che potevano apparire come un avvio di democratizzazione e di apertura. In quei mesi veniva annunciato infatti lo scioglimento del Comintern, consentendo una maggiore autonomia dei singoli PC nazionali, un maggiore decentramento politico-amministrativo a favore delle popolazioni non russe, ed infine un accordo in materia religiosa con la chiesa ortodossa.

            Nello stesso periodo si ebbero alcuni importanti incontri a Dunbarton Oaks negli Stati Uniti, sulla costituzione dell’ONU. Non si ebbero particolari contrasti, tuttavia l’Unione Sovietica rivendicò il diritto di disporre di 16 seggi della Assemblea Generale, un seggio per ciascuna repubblica dell’URSS, iniziativa che destò preoccupazione presso gli alleati occidentali.

            Nell'ottobre del '44 si tenne a Mosca un incontro fra Churchill e Stalin per il superamento delle divergenze nella politica dei due governi. In quella occasione si parlò per la prima volta di sfere di influenza: Bulgaria e Romania avrebbero fatto parte della zona d'influenza sovietica, la Grecia di quella inglese, Jugoslavia e Ungheria soggette al controllo di entram­be. L'episodio non molto felice è stato riportato dallo stesso Churchill nelle sue memorie ma non pienamente chiarito, non si è tradotto in un autentico accordo e non risulta che abbia avuto un seguito. Visto in un più ampio contesto si può ritenere che lo statista inglese volesse solo rassicurare l'alleato che le richieste britanniche erano limitate e non anche che si dovesse violare i principi della Carta Atlantica precedentemente approvata.

 

            Le questioni dei Balcani e dell'Europa Orientale costituirono subito dopo il ritiro delle truppe tedesche problemi complessi e motivi di contrasto fra le grandi Potenze.

            Nella Grecia invasa da truppe italiane e tedesche si venne a formare una attiva resistenza con tre formazioni: l'EAM-ELAS di tendenze comuniste, l’EKKA repubblicana riformista, l'EDES formata da elementi monarchici e democratici. Per evitare la degenerazione della situazione (come nella vicina Jugoslavia erano frequenti gli scontri fra le varie fazioni) gli inglesi chiesero al re Giorgio di tenersi temporaneamente in disparte, e di affidare la reggenza ad un personag­gio più amato dal popolo, l'arcivescovo Damaskinos. Nel paese già colpito da una gravissima carestia, si costituì con l'appoggio delle truppe britanniche sbarcate ad Atene, un governo di coalizione nazionale con rappresentanti di tutte le fazioni, presieduto dal socialdemocratico Papandreu che in passato era stato uno dei massimi oppositori alla dittatura di Metaxas. Il governo tuttavia ebbe una durata brevissima. Il 2 dicembre '44 i sette ministri di sinistra diedero le dimissioni a causa dell'impossibilità di giungere ad un accordo sul disarmo dei gruppi partigiani e sulla questione istituzionale. Il giorno successivo una manifestazione comunista ad Atene si concluse con numerosi morti (incidenti avvenuti forse per responsabilità degli stessi dimostranti) che costituì l'inizio degli scontri e della guerra civile. Al governo, sempre comprendente un vasto schieramento politico, subentrò il generale Plastiras che dovette gestire una situazione estremamente difficile. La ripresa del controllo di Atene costò ai britannici 2000 morti, e lo stesso Churchill dovette intervenire per favorire un compromesso, che venne formalizzato negli Accordi di Varkiza, che prevedevano il disarmo dei gruppi partigiani, l’epurazione dei collaborazionisti, libere elezioni e referendum sul futuro assetto istituzionale.

            Anche in Jugoslavia, dove la monarchia formalmente non era stata abrogata, si assistette a contrasti all'interno della resistenza; da una parte i cetnici, serbi nazionalisti, sotto il comando di Mihajlovic, e dall'altra i comunisti titoini comprendenti diverse nazionalità. Americani ed inglesi fecero pressioni sul re Pietro II affinché togliesse il sostegno al generale nazionalista in quanto ritenuto eccessivamente in contrasto con i gruppi non serbi, e si arrivò nel giugno del '44 ad un compromesso con i titoini, che tuttavia venne rapidamente superato dagli eventi; nell'ottobre di quell'anno Belgrado venne liberata dalle forze congiunte russe e titoine che costituirono l'unica forza politica determinante del paese.

            In quello stesso periodo crebbe il timore reciproco fra anglo-americani e russi di una pace separata con la Germania. Nell'estate del '43 si erano avuti incontri a Stoccolma fra agenti sovietici e tedeschi con reciproche proposte per la conclusione del conflitto, e contatti informali si ebbero anche nei mesi successivi fra rappresentanti del Reich e Alleati occidentali. E' da ritenersi che se l'attentato a Hitler nel luglio del '44 da parte delle alte gerarchie militari tedesche avesse avuto successo le potenze occidentali avrebbero forse incontrato meno difficoltà a concludere un armistizio a danno dei sovietici.

 

            Alla Conferenza di Yalta nel febbraio 1945 venne stabilito il nuovo assetto politico mondiale in linea con quanto stabilito nella precedente Conferenza di Teheran:

- Disarmo, smilitarizzazione e smembramento della Germania, con creazione di una zona d'occupa­zione francese da ottenersi nella parte di territorio spettante all'Inghilterra e agli USA. Veniva stabilito inoltre da parte sovietica un piano di requisizioni per 20 miliardi di dollari, che venne contestato perché eccessivo dagli inglesi.

- Spostamento a ovest della Polonia, con confini da definire in incontri successivi. Veniva previsto inoltre il riconoscimento del governo di Lublino con l'inclusione comunque di esponenti del governo di Londra.

- Riconoscimento del governo di Tito in Jugoslavia con raccomandazione tuttavia, ad allargare il medesimo ad esponenti non comunisti.

- Revisione del Trattato di Montreux concernente gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli a favore dell'URSS, tale da consentire un migliore accesso alla flotta sovietica.

- Revisione dei confini fra Italia, Jugoslavia e Austria, in conformità alla situazione esistente.

- Ripristino dei diritti russi sulla Cina, la Mongolia Esterna, sulle basi navali di Port Arthur e Dairen, le ferrovie Transmanciuriana e Sudmanciuriana; e per quanto riguardava il futuro dello stato giapponese, occupazione sovietica della parte meridionale dell'isola di Sakhalin, delle isole Curili e presidio temporaneo della Corea da parte delle forze armate americane e sovietiche.

- Costituzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite e del Consiglio di Sicurezza, con poteri speciali.

- Impegno sovietico nella guerra col Giappone (non essendo stata perfezionata la bomba atomica gli americani in quel momento ritenevano particolarmente utile il contributo russo nel conflitto) da realizzarsi non appena conclusa la guerra in Europa.

- Dichiarazione sull'Europa Liberata che prevedeva il "diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma di governo sotto la quale vogliono vivere" e quindi l'impegno da parte delle tre potenze di "costituire delle autorità governative provvisorie largamente rappresentative di tutti gli elementi democratici di queste popolazioni, e che si impegneranno a stabilire, non appena possibile, con libere elezioni, dei governi che saranno l'espressione della volontà popolare"[4].

Venne invece accantonato il cosiddetto Piano Morgenthau, sottoscritto da Inglesi e Americani alcuni mesi prima, che prevedeva la totale deindustrializzazione della Germania, si ritenne infatti che tale iniziativa avrebbe avuto pesanti ripercussioni sull’economia europea.

            Nel corso della seconda guerra mondiale molti auspicavano una collaborazione ampia e su basi democratiche fra le tre grandi potenze e che gli Stati Uniti non riprendessero la politica isolazionista come negli anni successivi al precedente conflitto; secondo lo storico italiano Salvatorelli "L'America è proprio quello che ci vuole fra l'Inghilterra e la Russia" per garantire un lungo periodo di pace[5]. Una larga parte dell'opinione pubblica riteneva che un "ruolo guida" dei Tre Grandi avrebbe garantito la stabilità nella politica europea e mondiale ma il concetto di "ruolo guida" si prestava ad interpretazioni molto ambigue. Analogamente la diversa concezione delle sfere d'influenza fu motivo di contrasto fra anglo-americani e sovietici; "La divisione dell'Europa in sfere d'influenza", è sempre Salvatorelli che parla, "porterebbe con sé la soggezione stabile delle molte potenze minori alle poche maggiori, la compromissione radicale del diritto dei popoli a un'equa parità, a una ragionevole autonomia. Altro è riconoscere, come noi abbiamo già esplicitamente fatto, la necessità «rebus sic stantibus» di una condirezione delle tre grandi potenze vincitrici; altro è trasformare l'espediente temporaneo in soluzione permanente, o piuttosto peggiorare radicalmente lo stato di fatto della condirezione facendo di questa una spartizione"[6]. Molti condividevano il timore e ritenevano che il risultato principale della Conferenza di Yalta fosse stato la suddivisione dell'Europa e del resto del mondo in zone d'influenza. L'opinione non era del tutto errata, tuttavia le zone d'influenza hanno conosciuto situazioni molto differenti; nel campo occidentale l'influenza anglo-americana avveniva attraverso sovvenzioni economiche o d'altro tipo ai partiti anticomunisti ma senza alterare la legalità, nel campo orientale la legalità veniva immediatamente stravolta con elezioni irregolari e vessazioni di ogni tipo nei confronti dell'opposizione.

            La figura di Roosevelt, il principale protagonista degli accordi, è stata oggetto di giudizi molto contrastanti; è stato conside­rato un intransigente idealista, e il responsabile della cessione di una parte dell'Europa ai sovietici. Entrambi i giudizi possono non essere condivisibili. Gli Stati Uniti intervennero nel conflitto mondiale con molta riluttanza, pertanto conclusa la guerra contro il nazismo ritennero il loro ruolo concluso, non diedero eccessivo interesse ai problemi dell'Europa e si disinteressarono del destino dei popoli dell'Europa orientale. Considerare il presidente americano un idealista intransigente potrebbe essere anche eccessivo. L'annessione dei paesi baltici e le deportazioni delle minoranze non russe in Unione Sovietica, il trasferimento in patria dei prigionieri russi liberati dagli eserciti alleati contro la propria volontà già nel corso della guerra, non potevano sfuggire al presidente americano. Molti politici americani del resto condividevano l'ottimismo di Roosevelt e mostravano una certa propensione per l'Unione Sovietica, non perché simpatizzassero per quel sistema politico, ma perché al vertice di esso vi era in quel periodo un comunista, non ideologizzato e pragmatico, con il quale a differenza di molti altri esponenti comunisti, era sempre possibile il negoziato e quindi avviare, anche se gli avvenimenti successivi furono diversi, il mondo verso una stabile pace.

            Nelle settimane immediatamente successive al vertice mondiale, una serie di gravi violazioni agli accordi in Europa orientale da parte dell’Unione Sovietica ponevano una pesante incognita sulla tenuta dei medesimi e sul futuro del nostro continente, portando anglo-americani da una parte e sovietici dall’altra ad una progressiva rottura.


 

 

 

 

 

l'Unione Sovietica nel periodo staliniano

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            Nel leninismo il fine ultimo dello stato è l'emancipazione economica e politica del lavoratore, non diversamente da quanto previsto dai marxisti; ma tale fine è realizzato attraverso non l'azione solidale e spontanea dei lavoratori, ma attraverso la guida del vertice politico. La massima autorità dello stato, o meglio dello stato-partito, rappresenta la suprema depositaria del bene dei lavoratori, insindacabile e non aperta alle richieste dal basso. Sindacato libero, agitazione spontanea dei lavoratori diventano nel leninismo delle minacce all'ordinamento, azioni di una massa priva di coscienza che non contribuiscono all'evolu­zione della società nel senso previsto dal comunismo.

            Il vertice dello stato nei paesi comunisti esercita la sua azione sui corpi intermedi, i quali agiscono a loro volta sulla parte restante della società in una organizzazione piramidale efficiente dove nulla può sfuggire. Secondo i principi dello centralismo democratico la società è sostanzialmente un corpo inerte plasmato dalla volontà politica del ristretto gruppo di potere al quale è legata da un rapporto di subordinazione.

            Nel corso della storia molte forze politiche portatrici di idee rivoluzionarie, sebbene democratiche, hanno ritenuto di dover realizzare per un periodo di tempo circoscritto un regime che assumesse i pieni poteri per neutralizzare le opposizioni legate al precedente regime. Questo fenomeno rientra in quel realismo politico che viene generalmente conside­rato accettabile nell'opinione pubblica. Nell'Unione Sovietica liquidate le forze controrivolu­zionarie e le interferenze straniere, gli strumenti repressivi non vennero ridimensionati ma conservati ed anzi perfezionati. Molte delle purghe staliniane apparirono in Occidente oltre che deprecabili, come operazioni prive di alcuna utilità dal momento che nulla minacciava la stabilità dello stato sovietico negli anni '30. Nello stalinismo infatti l'obbiettivo non è la neutralizzazione delle opposizioni ma di tutto ciò che possa costituire difformità nella società. Le minoranza nazionali, il sentimento religioso, le tendenze scientifiche e artistiche non codificate dal regime, (e finanche le deviazioni sessuali) sono viste come minaccia all'ordinamento. Ogni forma di critica autonoma, ogni forma di individualismo, viene drasti­camente abolito. Queste caratteristiche non trovano riscontro nei regimi totalitari nazionali­stici che si affermarono in Italia o nei paesi balcanici negli anni '30, che in genere si limitarono ad una concentrazione dei poteri senza creare però un sistema di controllo sull'individuo.

            Riguardo ai regimi totalitari del nostro secolo è possibile fare una distinzione fra quei sistemi politici, come il nazismo, lo stalinismo e il maoismo che ricorrono all'utilizzo della persecuzione di massa anche contro nemici "potenziali", allo stravolgimento delle regole di diritto civile, e si pongono come finalità la trasformazione forzata dell'individuo, e quei sistemi che attuano una forma di repressione diretta a neutralizzare l'opposizione politica in senso stretto, il diritto civile non differisce sostanzialmente dai sistemi democratici e dimostrano una certa indifferenza verso gli aspetti personali dell'individuo.

            La scissione operata dal leninismo fra il vertice e la base della società si è aggravata nel corso degli anni e a distanza di generazioni non si registrarono progressi. L'emancipazione dei lavoratori, grande obbiettivo della dottrina di Lenin non ha avuto luogo ed anzi i piani quinquennali rappresentarono una non indifferente involuzione per il proletariato costretto alla irreggimentazione materiale e morale per garantire il decollo economico del paese. La élite che guidava lo stato divenne così progressivamente burocrazia anonima e priva di valori, per approdare in tempi recenti, dopo la caduta del regime totalitario, ad una alleanza con i nazionalisti, solidali nella lotta alla democrazia.

            Sul concetto di democrazia al quale le dottrine dei paesi dove il comunismo era al potere hanno fatto ampio ricorso, vi è sempre stato un equivoco: essa non ha il significato di volontà dei cittadini liberamente espressa, ma nel bene della collettività gestito discrezio­nalmente dal vertice politico. La verifica attraverso gli strumenti autonomi della società è un concetto estraneo alla dottrina affermatasi nei paesi del socialismo reale. La posizione comunista sotto questo punto di vista sconfinava nel manicheismo; dal momento che essi rappresentavano il progresso e il bene dei popoli, ogni loro atto, anche con l'uso della forza, non poteva che essere legittimo giustificato storicamente.

            Alla luce degli ultimi avvenimenti appare molto ridimensionata l'affermazione di diversi storici, che la Rivoluzione del '17 rappresenti il maggiore avvenimento del nostro secolo. Lo stato sovietico così come si è venuto a realizzare non può essere considerato l'attuazione di un principio innovatore. Il crollo del comunismo e la disgregazione dell'Unione Sovietica testimonia che la società capitalista non sia fatalmente destinata a soccombere davanti il socialismo e che la democrazia borghese sia storicamente e dialetticamente superata. Il socialismo dirigista non ha trovato il consenso degli intellettuali, della parte più progredita del proletariato (categorie che invece hanno maggiormente contribuito al crollo del comunismo) e ha invece sviluppato sul piano sociale una classe parassitaria, priva di valori, incapace di rinnovarsi, ostile ad ogni innovazione. Nei paesi meno evoluti, come la Serbia, la Romania, il vecchio regime resiste ancora, mentre completamente liquidato appare nella repubblica Ceca o in Ungheria, società più evolute.

            Il controllo della società nella Russia staliniana è sistematico, ogni organizzazione anche a carattere privatistico con finalità non politiche è soggetto al controllo della polizia speciale. Come scrisse il grande storico italiano Salvatorelli, "Stalin mantenne, e anzi rafforzò la sua dittatura che divenne sempre più fine a se stessa, sempre più lontana dallo spirito di umanità e dal principio marxista del potere ai lavoratori[7]". Lo storico russo Roy Medvedev ha calcolato in 20 milioni le vittime dello stalinismo e in altrettanti quelli sottoposti ad internamento[8] e secondo Solzenitsin in tutto il periodo sovietico 60 milioni furono le vittime direttamente o indirettamente provocate dalla dittatura sovietica. Ciò che colpisce maggior­mente è comunque l'inutilità sotto ogni punto di vista di molte persecuzioni, come quella di cui furono vittime gli ex prigionieri di guerra dei tedeschi, tutti uomini che avevano combattuto con onore e che non avevano collaborato col nemico negli anni passati nei campi di concentramento. Vennero spediti in Siberia come documentato da Nicolai Tolstoi in "Vittime di Yalta"[9].

            Alla luce di tali episodi l'Unione Sovietica, lungi da essere il superamento del liberalismo e della democra­zia "borghese", rappresenta la antitesi dei valori liberali, in una particolare commistione di autoritarismo tradizionale, e moderno. Gestione capillare della società, disprezzo del diritto, forte senso dello stato spinto all'abnegazione, rappresentano gli elementi fondamentali del sistema socialista sovietico.

            Il caso dell'Unione Sovietica ci pone un inquietante interrogativo, come un paese sorto sulla base di una dottrina rivoluzionaria in seguito ad avvenimenti considerati fra i più importanti del secolo abbia dato vita ad un regime che non solo non ha raggiunto gli obbiettivi previsti dalla sua ideologia, fare del paese uno stato moderno dove il lavoratore fosse il soggetto principale della società, ma ha dato vita ad un regime dispotico chiuso ad ogni innovazione che nel corso della sua esistenza ha dato vita a episodi che ripugnano la coscienza umana.

            Veramente si può pensare che l'emancipazione dei lavoratori e dei popoli, il progresso della storia, la costituzione di una società mondiale libera si possa realizzare attraverso l'antitesi della libertà, la coercizione materiale e psichica, l'educazione alla subordinazione? I risultati dei regimi comunisti in Europa e nel Terzo Mondo farebbero pensare di no.

            Nell'Unione Sovietica del periodo staliniano si creò una mitologia nella forma non diversa da quella di altri regimi totalitari, finalizzata a far ritenere che il paese dovesse impegnarsi in sforzi colossali e fossero necessarie misure gravissime per fronteggiare le minacce provenienti dall'esterno. Il regime aveva creato l'idea che lo stato sovietico dovesse vivere in una costante tensione per la realizzazione di grandi obbiettivi e che gli fosse affidata una importante missione per l'umanità. I successori di Stalin pur mitigando lo stato del terrore non furono in grado di essere all'altezza del mito e il regime fondato dal grande dittatore non poté che avviarsi ad un progressivo declino.

            Nel dopoguerra i comunisti presentarono la Russia sovietica come la grande liberatrice dell'Europa, ma occorre ricordare che le enormi perdite umane durante la guerra furono la conseguenza dell'invasione tedesca ma anche della eliminazione della parte migliore degli ufficiali durante gli anni della Grande Purga. Sulla condotta della guerra non mancarono d'altra parte gravi ombre: il Patto Molotov-Ribbentrop sulla spartizione dell'Europa Orientale, l'eccidio di Katyn, il mancato intervento a favore della Rivolta di Varsavia.        

 

            Nel periodo staliniano numerose innovazioni introdotte dalla Rivoluzione riguardo la società vennero eliminate; la famiglia tornò ad essere il nucleo della società, venne vietato l'aborto, abolite le scuole con classi miste maschi e femmine, introdotto un singolare divieto di matrimonio con cittadini stranieri. Il periodo staliniano per molti aspetti rappresentò un autentico regresso per la nazione russa. La subordinazione della cultura e il culto della personalità (che con la imbalsamazione della salma di Stalin raggiunse livelli patologici) difficilmente trovano riscontro in altri regimi.

            Il controllo e la rigida subordinazione della cultura, dell'arte, e di ogni manifestazione di pensiero, insieme all'esaltazione nazionale russa fu la direttiva principale del governo sovietico; per Zdanov. "Compito della letteratura sovietica... è aiutare lo stato a educare in modo giusto la gioventù"[10]. Lo studio non finalizzato agli obbiettivi di partito venne considerato come "spirito oggettivo" in contrasto con le direttive dello stato. Venne infine riabilitato in quegli anni il passato zarista della Russia.

            Non mancarono nell'URSS le manifestazioni di un nazionalismo gretto e volgare come la mistificazione delle epopee dei popoli non russi, della cultura e dell'arte europea; negli stessi anni si ebbe la attribuzione di alcune importanti scoperte scientifiche e tecnologiche (fra le quali la radio, l'aeroplano, la lampadina, e la locomotiva) a uomini di origine russa e la negazione nel campo scientifico della genetica da parte dell'accademico Lyssenko che venne ufficialmente approvata dal regime. Il sedicente scienziato prometteva enormi risultati dall'applicazione delle sue teorie nel campo agricolo, e gli esponenti della comunità scientifica che vi si opponevano vennero perseguitati o allontanati. Dove le direttive della nuova biologia vennero attuate si ebbero gravissimi danni sul piano economico e ambientale.

            Il nuovo ordinamento stalinista prevedeva una serie di gravi restrizioni dei diritti dell'individuo; l'arresto venne considerato un atto amministrativo non soggetto al controllo della magistratura, e di fatto nessun individuo a qualsiasi categoria appartenesse poteva considerarsi al sicuro dal cadere improvvisamente in disgrazia senza conoscere le cause della sanzione.

            Non appare accettabile la tesi sostenuta da molti comunisti che i sistemi repressivi di massa realizzati nell'Unione Sovietica fossero il prodotto dell'isolamento a cui fu sottopo­sto il paese. Gli anni del Terrore, seguiti all'assassinio di Kirov nel dicembre 1934 probabilmente programmato da Stalin stesso, vennero a cadere in un periodo di grande stabilità del paese, quando le minacce straniere, le armate controrivo­luzionarie, le opposizioni politiche e delle minoranze allogene erano ormai un ricordo del passato. In campo internazionale a metà degli anni '30 si ebbero alcuni importanti cambia­menti; l'Unione Sovietica cessò di essere vista come una nazione esportatrice di pericolose rivoluzioni, fece ingresso nella Società delle Nazioni, giudicata fino allora come una aggre­gazione di forze borghesi e in campo diplomatico si dichiarò per il mantenimento dello status quo; nel 1935 concluse un patto di non aggressione e assistenza con la Francia, integrato con un'alleanza con la Cecoslovacchia, mentre le relazioni con la Germania nazista furono per un certo periodo tutt'altro che di ostilità. D'altra parte l'isolamento per un paese come l'Unione Sovietica che dispone di risorse naturali immense non poteva avere molto significato.

            Negli anni '36-'38 si abbatté sul paese la Grande Purga con la quale venne liquidata la vecchia classe dirigente leninista. Appare incredibile come una intera categoria di cittadini, in gran parte bolscevichi che avevano preso parte alla rivoluzione, siano stati liquidati senza alcuna reazione, così come l'esercito subì senza ribellarsi la eliminazione delle alte gerarchie militari. Il 70% dei membri del vecchio Comitato Centrale vennero in diversi modi epurati o eliminati. Una gigantesca operazione di forza si attuò nel paese, 8 milioni di cittadini vennero sottoposti a misure restrittive, 5-6 milioni subirono la deportazione nei campi di lavoro della Russia settentrionale, e della Siberia. Con tali mezzi il regime si proponeva di creare una classe dirigente ed una società allineata e disciplinata con le direttive provenienti dall'alto.

            Nello stalinismo la repressione non è una degenerazione legata a fatti contingenti, ma sviluppo logico e parte integrante della dottrina che intende creare una società anonima e uniforme priva di identità e di radici storiche. La coercizione, la deportazione, la perdita della memoria storica e lo svilimento degli oppositori attraverso le confessioni forzate costituirono gli strumenti ordinari di tale strategia.

                        Alcuni esponenti comunisti a proposito di certi comportamenti del dittatore georgiano che ripugnavano le coscienze umane hanno parlato di "errori", ma non è una affermazione condivisibile. Certi atti, come la creazione dei "gulag" non sono errori ma lo sviluppo puntuale della dottrina stalinista, errori sono piuttosto da ritenersi il mancato appoggio dei comunisti europei alla posizione di Tito. Nel '56 la denuncia di Kruscev sui crimini dello stalinismo confermò i sospetti dell'opinione pubblica mondiale sulle pesanti misure coercitive in vigore nel paese e che i sostenitori del sistema sovietico avevano sempre contestato come opera della propaganda americana. Le rivelazioni costrinsero i comunisti ad un diverso atteggiamento; venne affermato che il comunismo si realizza per "fasi" e che fosse necessario un periodo dittatoriale per arrivare alla affermazione del socialismo. La realtà non ha confermato questa opinione l'Unione Sovietica si è appiattita nell'autoritarismo e a distanza di decenni o di generazioni non si è registrato alcun progresso nella realizzazione di uno stato diverso.

            I metodi autoritari non hanno risparmiato nemmeno lo stesso partito al potere. Il Congresso del partito venne convocato da Stalin in due sole occasioni, nel '39 e nel '52, il Soviet Supremo venne privato di fatto dei suoi poteri decisionali, mentre il Comitato Centrale, responsabile dell'elezione dei massimi organi e del Politburo, si riunì non più di quattro volte fra il '39 e il '51.

            Le terribili misure repressive vennero sopportate dalla popolazione con rassegna­zione. Il popolo russo nutriva nei confronti del potere un misto di timore, di fedele devozione e di orgoglio appagato dal nazionalismo. Il rapporto fra stato e cittadino era di sudditanza talvolta insofferente e passiva talvolta partecipe.

 

            Il dopoguerra rappresentò un periodo estremamente difficile per la nazione russa a causa delle distruzioni della guerra, ma anche per la prosecuzione delle persecuzioni contro oppositori o più semplicemente di personaggi che avevano perso la fiducia del dittatore. In base ai documenti del KGB da alcuni anni disponibili, risulta che 20 milioni di cittadini sovietici, per periodi più o meno lunghi soggiornarono nei campi di lavoro forzato. Si tratta di insediamenti (G.U.L.A.G. ovvero Direzione statale per i campi) nelle zone interne della Siberia e della Russia settentrionale dove i detenuti venivano utilizzati nei settori lavorativi più ingrati, generalmente nelle miniere, direttamente gestiti dalla polizia politica, all'interno dei quali i reclusi non politici, delinquenti abituali, era riconosciuto un superiore status. Queste colonie forzate ebbero un importante ruolo nel processo di industrializzazione del paese negli anni '30 e '40, tuttavia la bassa produttività, le attività di controllo dispen­diose, le ribellioni di massa (numerose e gestite da associazioni clandestine anche ben organizzate), resero questo sistema produttivo scarsamente redditivo e venne drasticamente ridotto dopo la morte di Stalin. I morti fra il '34 e il '47, come risulta dagli archivi furono 516.000[11], una cifra inferiore a quella calcolata da alcuni organismi in Occidente; diversamente dai lager nazisti infatti il fine di questo apparato non era la distruzione di un genere umano, ma l'utilizzo di mano d'opera a basso costo.

            Negli anni '40 una larga parte dei condannati al lavoro coatto era rappresentata da minoranze non-russe accusate di collaborazionismo con i tedeschi. Le deportazioni di massa delle popolazioni allogene iniziarono già prima del '45. Negli anni '36-'38 vennero colpiti Ucraini, Tatari, Uzbechi, Mongoli Buriati, nel '40 i Baltici, Bielorussi e Moldavi, nel '41 i Tedeschi del Volga, nel '44 i Tatari della Crimea, Calmucchi buddisti, Ceceni, Ingusci, Caraciai; lo spostamento di popoli interessò circa due milioni di individui. Le repubbliche autonome di Crimea, Cecenia Inguscezia, dei Tedeschi del Volga, e dei Calmucchi vennero abolite e sostituite da province sotto il controllo dello stato; inoltre venne accordato in tutte le repubbliche ai cittadini di origine russa un posto preminente nell'amministrazione, in genere il posto di Vice Segretario del Partito. Anche i gruppi religiosi furono oggetto di misure repressive, fra questi i Battisti conobbero la deportazione, mentre relativamente tollerata fu la chiesa ortodossa più incline al compromesso.          

            Altra vittima della politica stalinista nell'immediato dopoguerra furono i prigionieri di guerra russi rientrati dalla Germania. Soldati e ufficiali che pure avevano combattuto con valore, che non avevano collaborato in alcun modo durante l'internamento, vennero al momento della consegna alle autorità sovietica inviati nei campi di concentramento perché ritenuti potenzialmente ostili. Analogamente alla fine della guerra una grande massa di prigionieri di guerra tedeschi e giapponesi furono trattenuti in Unione Sovietica come criminali di guerra, in realtà il provvedimento costituiva un espediente per disporre di manodopera da avviare al lavoro forzato

            La situazione delle regioni periferiche dello stato sovietico nel periodo immediata­mente successivo alla conclusione del conflitto mondiale risultava precaria. Lungo la frontiera occidentale dell'URSS, nell'Ucraina, nelle repubbliche baltiche, e nella Bielorussia (ma anche al di là del confine in Polonia) operarono varie gruppi di guerriglia che si erano costituiti nel periodo dell'occupazione tedesca, di cui Mosca ne venne a capo definitivamente solo nel '50-'51. Tale situazione ebbe gravi riflessi sull'agricoltura e nel '46-'47 si ebbero centinaia di migliaia di morti fra i contadini a causa dei piani di prelievo nei loro confronti da parte del governo per finanziare la ripresa del paese, ma anche per le spese militari che rappresentavano nel periodo precedente alla morte di Stalin circa il 25% del bilancio dello stato.

            La documentazione in possesso agli storici è ancora oggi fortemente lacunosa comunque nonostante l'apparente monoliticità dello stato non mancarono contrasti profondi nel gruppo di vertice. Nel febbraio del '48 Molotov venne sostituito nella carica di ministro degli esteri dal procuratore generale della repubblica Wiszinsky, personaggio temibile e terribile come lo definì lo stesso Gromiko nelle sue memorie. Il cambiamento non comportò un vero muta­mento nella politica estera dell'Unione Sovietica; una svolta sia pure modesta nelle relazioni USA-URSS si ebbe nel 1952, quando Stalin visto il fallimento della politica di forza a Berlino come in Corea ritenne di evitare la politica dello scontro frontale. Fra Zdanov e Malenkov non mancarono attriti già nell'immediato dopoguerra. Nel '49 alla morte del primo si verificò il conflitto fra Malenkov, Berja, Kruscev contro Molotov e gli altri esponenti che erano stati vicini allo scomparso. Nel '51 infine Berja, ritenuto eccessivamente potente venne esautorato dal controllo sui servizi di sicurezza, anche se conservò la carica di ministro degli interni.

            Fra i cambiamenti avvenuti nei primi anni Cinquanta si ebbe la modificazione della denominazione del partito da "avanguardia organizzata della classe operaia dell'URSS" in "organizzazione volontaria di lotta dei comunisti uniti dagli stessi ideali"[12], mentre la percentuale di iscritti al partito appartenenti alla classe operaia nel corso degli anni si ridusse progressivamente. Il partito comunista nel periodo staliniano aveva cessato di essere "organismo di elaborazione collettiva di un pensiero politico: da questo punto di vista, la differenza fra comunisti e non comunisti era diventata per Stalin puramente formale... cinghia di trasmissione delle direttive emanate dall'alto"[13].

            Al 19° Congresso del partito tenuto nel 1952 Malenkov, il principale relatore, attaccò Molotov e si fece promotore di alcune innovazioni in politica estera. Si ritenne che la guerra fredda avrebbe rafforzato la coesione di Francia, Inghilterra e Stati Uniti e pertanto venne posta attenzione ai movimenti anticolonialistici che avrebbero potuto portare ad una rottura fra europei e americani, anticipando la futura politica kruscioviana; venne invece confermata la struttura accentrata della direzione dello stato venne confermata, nonostante il ritorno alla stabilità interna,

            Negli anni del dopoguerra Stalin assunse una posizione sempre più sospettosa verso gli organi dello stato e anche del partito, ovunque il dittatore georgiano vedeva tentativi di complotto e qualsiasi personaggio emergente che non fosse espressione del gruppo dirigente venne visto con diffidenza, come nel caso del maresciallo Zukov, il maggiore protagonista della guerra alla Germania; venne allontanato da Mosca per un incarico secondario nonostante che non avesse mai assunto posizioni contrastanti con il vertice. Altre vittime di quel periodo furono alcuni esponenti del partito e di organizzazioni locali di Leningrado che avevano richiesto che fosse riconosciuto alla città l'importante ruolo di resistenza durante l'assedio nel corso della guerra contro la Germania e che la sede degli organi della Repubblica federativa Russa fossero trasferiti nella città del Baltico; la richiesta non ebbe seguito e i massimi dirigenti cittadini ritenuti responsabili dell'iniziativa vennero incarcerati o fucilati.

             Nel '48 un progetto di costituire una grande comunità ebraica nella Crimea, spopolata per la deportazione dei Tartari, fu all'origine di una violenta campagna antisemita di cui ne fecero le spese uomini di cultura e il Comitato Ebraico Antifascista, il cui presidente Solomon Michailovic Mikoels venne gettato sotto un autocarro da agenti dei servizi segreti. Venne inoltre negato agli Ebrei il diritto di raggiungere la nuova patria in Palestina e la campagna antise­mita che si venne a scatenare in quegli anni nell'URSS e nelle repubbliche dell'Est portò alla rottura delle relazioni diplomatiche con Israele.

            L'ultimo periodo di vita di Stalin fu contrassegnato da una notevole ripresa delle epurazioni di cui ne subirono le conseguenze molti alti dirigenti e stretti collaboratori vittime dei sospetti del dittatore. Abakumov capo dell'MGB venne arrestato perché ritenuto troppo legato a Berija; successi­vamente dopo la morte di Stalin venne liberato per essere accusato poco dopo per le vicende della cosiddetta "congiura di Leningrado". Nel 1952 vennero epurati dai rispettivi incarichi Aleksander Poskrebylev capo della segreteria personale di Stalin e il generale Nicolaj Vlasik capo della sua guardia del corpo. Venne incarcerata perché ebrea la moglie di Molotov senza che ciò suscitasse la reazione del leader comunista. Successivamente nel gennaio del '53 un gruppo di medici responsabili delle cure dei massimi dirigenti sovietici, in buona parte di origine ebrea, vennero accusati complotto e di aver provocato la morte dello stesso Zdanov. In seguito a tale iniziativa decine di migliaia di ebrei furono inviati nei campi di lavoro; solo la scomparsa di Stalin impedì la prosecuzione dell'opera.

            La morte di Stalin provocò sgomento e dolore nella popolazione, nella gigantesca massa umana che si dirigeva nella capitale a rendere onoranza al defunto si verificarono parecchi infortuni che provocarono numerosi morti. Sulla morte del dittatore numerose sono state le voci che il decesso non avvenne per ragioni naturali. Si ritiene che la causa del decesso venne in qualche modo "aiutata" dall'intervento delle persone vicine (si fece il nome di Berja), e che i soccorsi medici non poterono arrivare che dopo diverse ore dalla emorragia cerebrale di cui Stalin fu vittima.

 

            I progressi dell'Unione Sovietica al termine dei trent'anni di stalinismo non potevano considerarsi particolarmente numerosi, la società sovietica conobbe un'autentica involu­zione. Il dispotismo come mezzo di progresso di una società si confermava un totale insuccesso.

            Un'economia per potersi sviluppare adeguatamente necessità di attività come ricerca, spirito di creatività, libertà d'azione, fattori che non avevano spazio nell'economia sovietica; d'altra parte le enormi risorse sottratte alla produzione e destinate alle attività di controllo, di polizia, nonché alle spese belliche rappresentavano un peso economico non indifferente. La gestione dell'economia in forma autoritaria sotto qualsiasi regime difficilmente risulta produttiva. La centralizzazione del potere decisionale economico e l'ipertrofia dell'apparato burocratico produssero gravi alterazioni del sistema economico. I dirigenti di industria costretti ad un continuo incremento dei ritmi di produzione dovettero ridurre il livello qualitativo dei prodotti o falsificare i dati sull'andamento dell'azienda.

            L'agricoltura non ebbe grande sviluppo e non mancarono gli scempi nel campo ecologico che produssero guasti economici gravi come l'inaridimento delle terre del Cazachistan. Nel 1940 nonostante la meccanizzazione e l'ampliamento delle superfici coltivabili (di oltre 6 milioni di ettari rispetto al periodo precedente) la produzione cerealicola pro capite non era superiore a quella degli anni precedenti la Rivoluzione. Situazione ancora peggiore risultava nel settore zootecnico dove si registrarono dei regressi rispetto al passato.

            Il primo piano quinquennale nel 1928 con il quale si inaugurò la politica economica stalinista segnò un sensibile regresso per le condizioni dei lavoratori: orari di lavoro superiori alla norma (la legge prevedeva una giornata lavorativa di 8 ore ma normalmente se ne svolgevano 11 o 12) maggiore disciplina, ricorso al cottimo, differenziazione dei salari (la costituzione del '36 prevedeva esplicitamente l'abbandono del principio marxista della retribuzione del lavoro in base ai bisogni) contrassegnarono quegli anni. Gli obbiettivi grandiosi del piano (incremento industriale del 130%, incremento agricolo del 50%) vennero realizzati senza l'esclusione dei metodi adottati nelle industrie capitalistiche, contemporaneamente venne realizzata la collettivizzazione completa delle campagne che venne compiuta attraverso la liquidazione di quella classe di contadini relativamente benestanti, che aveva dato vita a organizzazioni di lavoro sufficientemente autonome (erano considerati tali coloro che possedevano più di 40-60 iugeri di terra e di 2-4 cavalli). La liquidazione della categoria avvenne con il ricorso a mezzi coercitivi, deportazioni e massacri (si calcola che si ebbero 10 milioni di morti e interi villaggi deportati). La grande opera di industrializzazione venne realizzata tenendo i prezzi dei prodotti agricoli forzata­mente bassi, prelevando in tal modo ricchezza da tale settore per essere destinato all'industria

            La linea economica seguita nel dopoguerra non divergeva sostanzialmente da quella seguita negli anni precedenti. La priorità veniva data alla produzione dei beni strumentali, mentre il tenore di vita rimaneva a livelli non elevati giustificato dallo sforzo contro l'"imperialismo". L'unico elemento innovativo di quegli anni fu l'utilizzo per la ricostruzione delle risorse dei paesi satelliti con ampio prelievo di beni e anche di manodopera.

            Nella disciplina del lavoro ritardi nel lavoro erano considerati delitti punibili con la reclusione anche negli anni del dopoguerra. In quegli anni vennero introdotti forti incentivi economici a chi superava la produttività media (stacanovismo), una differenziazione salariale con rapporti da 1 a 10 all'interno di un medesimo impianto produttivo, "competizioni socialiste" fra il personale di aziende dello stesso settore. Il lavoro a cottimo divenne un sistema ampiamente diffuso, riapparso ufficialmente con una delibera del Comitato Centrale del PC dell'aprile del '24.

            Successivamente al conflitto mondiale vennero ulteriormente aggravate le condizioni di lavoro dei lavoratori dell'agricoltura, costretti a lavorare senza quasi percepire reddito. Un bracciante delle aziende di stato in un anno non arrivava a percepire la retribuzione di un operaio dell'industria in un mese. In base ad una legge degli anni '30 i contadini non potevano abbandonare il villaggio senza una speciale autorizzazione ed inoltre la struttura agricola si presentava notevolmente inefficiente; i piccoli appezzamenti di terra lasciati in esclusiva ai contadini che rappresentavano non più del 6% del totale e delle terre coltivabili superavano di gran lunga la produzione dei Kolchoz e Sovchoz.

            Al termine dei quasi trent'anni di stalinismo, l'Unione Sovietica si presentava profondamente trasformata in alcuni settori: la produzione industriale passava dai 40 miliardi di rubli del 1930 ai 245 del 1950 e vaste zone interne desolate erano state colonizzate, non senza il ricorso tuttavia a metodi coercitivi. La produzione di carbone fra il 1928 e il 1940 passava dai 36 ai 166 milioni di tonnellate e quella dell'acciaio dai 4 ai 18 milioni. Tuttavia molti dei prodotti non giungevano sul mercato e le statistiche non risultavano sempre attendibili, mentre molte produzioni risultavano inutilizzabili o prive di interesse per il settore al quale erano destinate.

            La produzione di cereali costituì uno dei maggiori fallimenti dell'economia sovietica, lo stesso Kruscev successivamente dovette riconoscere che in questo settore "il paese si venne a trovare a lungo al livello della Russia prerivoluzionaria"[14]. La resa complessiva del settore negli anni 1950-1953 era del 10% superiore a quella degli anni 1910-1914, ma la resa per ettaro di superficie coltivabile e quella pro capite risultavano addirittura ridotta. Il settore dell'allevamento infine registrava valori ancora peggiori.

            Altro grande problema non risolto dell'Unione Sovietica fu la crisi degli alloggi nelle grandi città, era considerato normale che una intera famiglia vivesse in una stanzetta di pochi metri quadrati e che i servizi igienici fossero in comune in uno stabile per una ventina di famiglie, mentre diffusis­simo risultava il fenomeno della coabitazione.



[1] L. Salvatorelli, Dualismo secolare, in "Il Messaggero", 18.1.1948,  in L. Salvatorelli, La guerra fredda,  Roma, 1956, p.105.

[2] L. Salvatorelli, La Russia e l'Occidente, in "La Nuova Stampa", 2.1.1955,  in L: Salvatorelli, La guerra fredda,  Roma, 1956, p. 286.

[3] A.Gromiko, Memorie, Milano, 1989, p. 117.

[4] P. Renouvin, Le crisi del secolo XX, in Storia Politica del Mondo, Roma, 1975, vol. VIII, p. 720.

[5] L. Salvatorelli, La guerra fredda,  Roma, 1956, p. 24.

[6] L. Salvatorelli, Le tre potenze e il riordinamento generale, in "La Nuova Europa", 17.12.1944,  in L. Salvatorelli, La guerra fredda,  Roma, 1956, p. 11.

[7] L. Salvatorelli, Storia del Novecento, Milano, 1957, pp. 957-958.

[8] "Il Tempo", 5.2.1989.

[9] "Il Tempo", 10.2.1978.

[10] Postanovlenie cit. in G. Boffa, Storia dell'Unione Sovietica, Milano, 1979, p. 97.

[11] C. Valentini, Grand Hotel Stalin s.p.a., in "L'Espresso", 1.3.1993.

[12] M. Geller A. Nekric, Storia dell'URSS, Milano, 1984, p.552.

[13] G. Boffa, Storia dell'Unione Sovietica, Milano, 1979, p. 94.

[14] M. Geller A. Nekric, Storia dell'URSS, Milano, 1984, p. 546.