Carlo Rosselli                                                  home                           democrazia “consolidata”


la lingua e la cultura occitana

tra storia e leggenda le vicissitudini di un popolo

e di una tradizione

 

 

di Alberto Rosselli

 

Quando nel tredicesimo secolo i linguisti italiani, primo fra tutti Dante Alighieri, tentarono una prima classificazione di massima degli idiomi “romanzi”, tutti gli studiosi presero come fondamentale riferimento la particella che nelle varie lingue solitamente indica l’affermazione. Dante, nella fattispecie, rilevò su questa base tre particolari e distinti idiomi: la lingua d’oc (l’Occitano), la lingua d’oil (il francese) e la lingua del sì, cioè l’italiano. E per designare l’insieme dei territori nei quali veniva usato il primo idioma, cioè la lingua d’oc, venne coniato, nel 1290, il termine geografico-culturale di Occitania, la cui radice “oc” deriva dal latino hoc est.

 


Castello di Puivert         

 

Dal punto di vista fisico l’Occitania è una regione abbastanza ben definita, delimitata dal Mediterraneo, dai Pirenei, dall’Oceano Atlantico, dal Massiccio Centrale dalle montagne del Delfinato e dalle Alpi occitane sul versante italiano.

La storia della lingua occitana è molto antica, affascinante e per certi versi misteriosa. L’area di sviluppo di questa civiltà conobbe in epoca pre-romana influssi ellenici, in quanto i greci, come è noto, fondarono diverse e importanti colonie in tutta la Provenza, incluse le attuali Marsiglia, Nizza, Antibes e Agde. Tuttavia, per potere osservare un primo deciso tentativo di autentica colonizzazione linguistica della regione occitana bisognò attendere l’espansione militare e politica di Roma in Gallia. Prima il governo della repubblica e poi gli imperatori trapiantarono nel Midi le radici di una cultura profonda che proprio attraverso il latino iniziò a modificare la comunicazione verbale delle popolazioni occitane. Nel periodo tardo imperiale e, soprattutto, durante le invasioni barbariche del V e VI secolo e le successive scorrerie arabe, la lingua occitana captò giocoforza alcuni influssi (in verità piuttosto scarsi) di matrice germanica (elementi gotici e franchi) e, forse in misura ancora minore, di origine berbera e semitico-ebraica. L’Occitano è attualmente considerata a tutti gli effetti un idioma a sé stante, molto ben definito, appartenente di diritto al gruppo delle nove lingue romanze (assieme all’italiano, il francese, il portoghese, lo spagnolo, il catalano, il sardo, il rumeno e il ladino). I primi scritti in lingua d’oc sono databili al 900 dopo Cristo, mentre i primi versi dei troubadour (cioè i trovatori) risalgono al 1100 (ricordiamo a questo proposito le liriche del Duca di Aquitania Guglielmo IX). Dal 1100 al 1200, la lingua e la letteratura d’oc iniziano a diffondersi in tutta Europa e molti poeti italiani, catalani e francesi adottano la lingua occitana per esprimere il loro ardore amoroso e la loro immaginazione. Durante questo periodo aureo, la lingua dei troubadour assume una sua precisa fisionomia ed uniformità che la caratterizzeranno fino alla metà del XIII secolo, quando inizierà il processo di frammentazione dialettale indotto, in parte, dal declino politico ed economico dei feudi occitani (Carcassonne fu tra i più importanti) entrati in conflitto con il potere regio francese e con la Chiesa romana.

Festa occitana in Valle Stura (Piemonte)   

 

La sempre più evidente ostilità palesata dalla popolazione occitana nei confronti dei rappresentanti del potere cattolico e la concomitante diffusione di pratiche religiose alternative (il settarismo càtaro), indispettirono ben presto sia il papato che la corona francese, entrambe preoccupati di avere a che fare con un pericoloso crogiuolo di eresie religiose, politiche e anche culturali. Infatti, a gettare un ombra demoniaca sull’esistenza e sulle tradizioni occitane contribuì senz’altro lo strenuo orgoglio dei trovatori locali che, in quanto cantori di un amore libero, profondamente impregnato di umana e quasi pagana passione, respinsero con fermezza qualsiasi indottrinamento culturale, allontanandosi sempre più dai modelli narrativi e lirici di matrice cattolica. Stereotipi, questi ultimi, di un cantico d’amore squisitamente spirituale e casto: retaggio della tradizione cattolica alto-medioevale. E fu proprio in questo clima che andò caratterizzandosi l’autonoma e originale esistenza dei feudi meridionali francesi che aderirono all’eresia càtara (movimento religioso di origine bulgara, libertario e rigoroso al tempo stesso, naturalista, quasi pagano nella sua strana ritualità; ostile alla tradizione cattolica romana). Il fenomeno càtaro intersecandosi con il principio di autonomia culturale sostenuto dall’intellighentzia occitana innescò un violento ed inevitabile scontro con la Chiesa che, dopo avere tentato di riportare alla ragione i prìncipi e gli esponenti dell’eresia del Midi, decise di passare alla forza, appoggiandosi alla nobiltà francese fedele al credo romano. Tra il 1208 e il 1242, le armate al comando dei prìncipi francesi fedeli al papato organizzarono una vera e propria Crociata contro i Càtari (o Albigesi) per estirpare al più presto quello che venne definito il “cuore ribelle di Francia”. Sterminati, dopo una lunga e feroce guerra nel corso della quale entrambe le parti si macchiarono di orrendi crimini, i nobili e le popolazioni del Midi càtaro sopravvissuti all’olocausto cercarono rifugio nei castelli disseminati intorno alla roccaforte principale di Carcassonne, resistendo ancora per un certo tempo, per poi soccombere definitivamente alla metà del Tredicesimo secolo. Seppur completato lo sterminio dei ribelli càtari e ristabilito il dominio del potere cattolico su tutta la regione, alcuni gruppi di superstiti, rifugiatisi nelle più remote valli dei Pirenei e delle Alpi Occidentali, iniziarono a tramandarsi, di generazione in generazione, il retaggio di una cultura e di una lingua che ancora oggi mantengono relativamente integre le loro radici. Nel 1400, nonostante i veti della cultura ufficiale francese, molti intellettuali occitani continuarono a scrivere opere e poemi (addirittura alcune traduzioni della Bibbia) nella loro lingua madre, mantenendo vivo un idioma forse destinato a scomparire. Nella fattispecie furono i Valdesi stanziati nelle valli piemontesi Pellice, Germasca e Chisone, ad inaugurare la produzione letteraria occitana “italiana”. Nel 1539, il re di Francia Francesco I, con l’editto di Villers-Cotterets, abolì e bandì ufficialmente l’uso della lingua d’oc degradandola al ruolo di parlata regionale, e imponendo la lingua d’oil. Destinata quest’ultima a diventare, sia nel contesto culturale nazionale che in quello amministrativo e burocratico, la lingua di stato francese (è da notare che, ancora per qualche tempo, la parlata occitana sopravvisse negli atti emanati dal parlamento del Regno di Navarra). Dal Seicento in avanti, i linguisti francesi catalogarono l’occitano alla stregua di un semplice patois (o dialetto regionale), non mancando di attribuire a questo termine un chiaro significato diminutivo se non addirittura dispregiativo. Poi, la Rivoluzione francese, in nome della “fraternità e dell’uguaglianza” (sic!), cercò di eliminare le ultime tracce della lingua e della cultura occitana che, al pari di quelle bretone e basca, vennero considerati retaggi della vecchia società feudale.

Castello di Queribus      

 

La protervia e la violenza con le quali la cultura ufficiale francese (sia quella regia che rivoluzionaria) ha sempre cercato di sopprimere la minoranza linguistica occitana non ha comunque impedito a quest’ultima di resistere fino ai nostri giorni, grazie al contributo di personalità di notevole coraggio e spessore, tra cui il grande poeta Fréderic Mistral.

Nel 1854, il giovane Mistral fondò con altri poeti ed estimatori della lingua d’oc il Felibrige, un movimento destinato a riportare in auge l’intera letteratura occitana E nel 1907, lo scrittore (autore, tra l’altro, del poderoso dizionario Lou Tresor dou Felibrige) fu insignito del premio Nobel per la letteratura: un riconoscimento importantissimo che servì non poco a rivalutare, anche agli occhi dei più spocchiosi e arroganti intellettuali francesi del Nord, la forza e il contributo apportato dalla cultura occitana allo sviluppo della letteratura e della poesia nazionali. Dopo la seconda guerra mondiale, nacque l’Institut d’Estudis Occitans e negli anni Cinquanta una nuova importante figura, François Fontan, teorizzò il diritto dei popoli a riscoprire la loro antica identità attraverso lo studio della lingua primigenia. Alla fine degli anni Sessanta, la “questione occitana” divenne di attualità anche nelle valli piemontesi dove nacquero gruppi culturali, movimenti politici (alcuni dei quali addirittura paramilitari) e soprattutto molte formazioni musicali giovanili legate alla tradizione. In questo fervido contesto si sviluppò anche una vivace attività editoriale e perfino giornalistica mirata alla riscoperta dei valori e della cultura occitani. Ancora oggi, infatti, lungo le vallate alpine occidentali del Monregalese e della provincia di Torino (dove non meno di 200.000 persone parlano abitualmente l’occitano o dialetti molto simili) non è difficile imbattersi in intere comunità montane che, distaccate dalle mode e non ancora contaminate dalla dilagante globalizzazione culturale ed economica, onorano l’antica madrelingua e le tradizioni attraverso il canto, la musica, l’arte, la ritualità folkloristica ed altre manifestazioni dell’intelletto, e dell’ingegno come le pratiche agricole, quelle pastorali, l’artigianato e l’architettura.

.

                                                                                 

 

Alberto Rosselli Nato A Genova nel 1955, si è laureato in scienze politiche, è giornalista e collabora a diverse testate nazionali, come studioso di storia contemporanea e militare ha scritto diversi saggi fra i quali “Il Conflitto Anglo-Francese in Nord America 1756-763” pubblicato dalla casa editrice Erga di Genova, e “I Quaderni Carlo Rosselli” per la Fondazione Carlo Rosselli di Firenze.

 

 

torna indietro