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Lenin, il rivoluzionario anomalo

secondo una parte della storiografia e degli esponenti socialisti del tempo il rivoluzionario russo aveva uno spirito fortemente autoritario, risoluto, ma anche conservatore sotto certi aspetti.

 

di Luciano Atticciati

 

 

I neocomunisti hanno spesso parlato dei regimi comunisti affermatisi nel Novecento, come di regimi sorti per fini umanitari e progressisti che avrebbero incontrato una serie di “incidenti di percorso” che li avrebbero portati a deviare dalla loro dottrina e a divenire autoritari e oppressivi. Questa teoria non convince molti studiosi che ritengono certi “errori” ben presenti nel codice genetico del marxismo.

Il socialismo sarebbe sorto come evoluzione della democrazia, ma ad un certo punto iniziò a deviare verso l’autoritarismo ed un modo manicheo di vedere la realtà umana. Mentre per molti marxisti il proletariato doveva camminare sulle sue gambe per compiere la missione storica a cui si era dedicato, altri espressero sfiducia profonda nella nuova classe emergente, e più in generale nella capacità della società di rinnovarsi. Fra questi abbiamo sicuramente Lenin. In un suo celebre saggio, “Che fare?” scritto nel 1901 all’età di trentun’anni, il leader russo scrisse che le masse operaie non erano in grado di portare avanti una lotta per il reale cambiamento della società e dello stato. Con le sole loro forze avrebbero semplicemente promosso delle richieste per il miglioramento delle condizioni economiche. Era pertanto necessario che tale classe si sottomettesse alle direttive di un partito, un partito guidato da “rivoluzionari professionisti” che gestendo l’organizzazione con “disciplina di ferro” avrebbero portato l’umanità a quel grande traguardo di benessere indicato da Marx. Non solo pertanto la base doveva rinunciare ai suoi diritti, ma doveva essere fortemente limitato anche il dibattito interno. Una delle caratteristiche peculiari dei partiti comunisti leninisti, fu infatti quella di avere organismi rappresentativi scarsamenti attivi, la cui principale funzione era quella di “cinghia di trasmissione delle direttive emanate dall'alto" come venne definita dallo storico italiano Giuseppe Boffa. La concezione del partito di Lenin venne ulteriormente perfezionata negli anni successivi con l’idea di “centralismo democratico”, in base alla quale le deliberazioni degli organi superiori dovevano essere vincolanti per quelli inferiori, rovesciando in tal modo i principi della normale democrazia. “Centralismo e la disciplina più ferrea costituiscono necessità assolute” affermò Lenin parlando del partito in un congresso del 1919.

In molti scritti, anche minori, Lenin ammise esplicitamente che per il raggiungimento dei propri fini si potesse adoperare qualsiasi mezzo. Tali principi non rimasero senza attuazione, i capi della fazione bolscevica utilizzarono i mezzi più scorretti e brutali nei confronti del partito socialdemocratico di cui formalmente continuarono a farne parte. Nel 1906  Lenin cercò di realizzare un organismo militare segreto all’interno del partito, accettò la collaborazione con la polizia zarista per colpire i menscevichi, e uno dei suoi massimi collaboratori, Roman Malinowsky, risultò essere un agente dell’Ochrana, la polizia segreta del governo zarista. Nello stesso periodo Lenin cercò di impossessarsi delle risorse economiche del partito, non per fini personali, anzi da tale punto di vista ebbe sempre uno stile di vita parco ed austero, ma per condurre la sua lotta all’interno della organizzazione politica.

Molti esponenti socialisti, anche rivoluzionari, si resero conto che qualcosa non andava all’interno del partito bolscevico, anche se negli anni successivi di fronte ai successi dell’Unione Sovietica preferirono poi rinunciare alle loro critiche. Significativa è la testimonianza di Rosa Luxembourg, scritta alcuni mesi dopo la Rivoluzione d’Ottobre: “La vita pubblica lentamente si addormenta e poche dozzine di capipartito dotati di energia ineusaribile e di esperienza illimitata dirigono e comandano. In realtà solo una dozzina di capi eminenti guidano, ed una èlite della classe lavoratrice di quando in quando viene invitata alle assemblee in cui deve applaudire i discorsi dei capi e approvare all’unanimità le risoluzioni proposte”. Tale impressione venne confermata dal filosofo inglese Bertrand Russell in un suo scritto di poco posteriore: “La necessità di inculcare il comunismo produce un’atmosfera da serra che esclude qualsiasi soffio di aria fresca. Il popolo deve imparare a pensare in un dato modo ed il libero pensiero viene messo al bando. Tutto il paese rassomiglia ad un immenso collegio di gesuiti”. Contrariamente alle aspettative il nuovo stato sovietico (ma dove i Soviet non avevano alcun potere) aveva molto poco di rivoluzionario, era uno stato chiuso e burocratico dove operai e contadini conobbero un netto peggioramento delle loro condizioni di vita, un paese che non conobbe né un progresso civile né economico.

Per molti marxisti Lenin fu un grande teorico, ma comprendere il suo pensiero risulta particolarmente difficoltoso. Il grande leader russo nel corso degli anni espresse opinioni contrastanti e seguì politiche ancor più contraddittorie. Non è difficile pensare che molte formulazioni politiche dipendevano da fatti contingenti, e che in certi casi la volontà di imporsi sul partito e sul paese abbia prevalso sulla coerenza ideologica. Nei mesi precedenti alla Rivoluzione d’ottobre, nelle celebri Tesi d’aprile, si espresse per un tipo di stato con meno burocrati, meno esercito e meno polizia, il contrario di quanto venne realizzato successivamente all’insediamento del suo governo, i cui primi atti furono diretti alla creazione della Ceka, la polizia segreta incaricata di portare il terrore nel paese. Significativo del modo pragmatico di pensare di Lenin fu la decisione di utilizzare i vecchi ed esperti ufficiali zaristi nell’Armata Rossa. Molti ovviamente li ritenevano dei conservatori e dei nemici. Lenin non si pose simili preoccupazioni, ed in contrasto con Trotzky decise di ricorrere alla loro opera per la creazione del nuovo esercito rivoluzionario.

Anche sul piano delle scelte personali e culturali, Lenin era un uomo deciso, ma non esattamente un grande innovatore. Secondo lo storico inglese Robert Conquest, Lenin provava disgusto per le opere di Majakowsky ed “in arte e letteratura aveva gusti convenzionali… verso le nuove tendenze artistiche il suo atteggiamento era di estrema ostilità”. Nel ’19 si oppose alla chiusura dei teatri ma solo perché avevano uno scopo “rilassante”. Abbastanza interessante che secondo Lenin il regime bolscevico non doveva perseguire solo gli oppositori politici, ma secondo una direttiva citata da Conquest nella sua biografia di Lenin si dovevano eliminare prostitute e ubriachi che costituivano un elemento di disturbo nel paese. Un interessante ritratto del fondatore dello stato sovietico, ci è stato lasciato dal leader bolscevico A. N. Potresov: “Un uomo dalla volontà di ferro e dall’incredibile energia, capace di instillare una fede fanatica per il movimento e per la causa e provvisto di altrettanta fede in sé stesso”. Anche Bertrand Russell riportò impressioni negative sul piano personale dal personaggio: “Quando conobbi Lenin, non mi fece tutta l’impressione del grande uomo che mi aspettavo; le mie impressioni più vivide furono di bigotteria e di crudeltà mongolica”.

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Luciano Atticciati è nato a Roma nel gennaio 1959, si è laureato in scienze politiche indirizzo storico con una tesi su “il movimento sindacale dei ferrovieri nel periodo giolittiano”. Negli anni successivi ha tenuto una rubrica culturale presso un’emittente televisiva romana, un ciclo di conferenze in radio, ha scritto saggi di storia e politica internazionale su varie riviste, e partecipa ad iniziative culturali su internet.

 

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