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Edvard Munch. Arte e trasformazione della sofferenza mentale.
Riflessioni psicoanalitiche su un percorso artistico
di Luca Trabucco
Una sera passeggiavo per un sentiero,
da una parte stava la città e sotto di me il fiordo.
Ero stanco e malato.
Mi fermai e guardai al di là del fiordo
- il sole stava tramontando -
le nuvole erano tinte di un rosso sangue.
Sentii un urlo attraversare la natura:
mi sembrò quasi di udirlo.
Dipinsi questo quadro,
dipinsi le nuvole come sangue vero.
I colori stavano urlando.
Edvard Munch
Senza paura e malattia,
la mia vita sarebbe una barca senza remi.
Edvard Munch
A margine di una delle copie del Grido, Munch annotò: "Solo un
folle poteva dipingerlo". Questa notazione ci fa pensare che non
era un folle chi poteva porsi di fronte ad una tale rappresentazione
della disperazione e osservarla criticamente. Certo era qualcuno che
lottava strenuamente dentro di sè con "le rappresentazioni dell'irrapresentabile,
del dolore e delle sue parti psicotiche, i frammenti che affiorano alla
superficie della tela come residui di mondi esplosi, di materia psichica
collassata. I buchi neri di Munch" (Magherini, 1998). La perdita e
l'assenza sono gli elementi fondamentali della sua esperienza di vita,
segnati nella sua mente tanto profondamente che le scene attorno alle
quali questo vissuto si è determinato rimangono come un fil rouge che
passa attraverso tutta la sua produzione artistica. Si pensi che
un'opera quale La bambina malata verrà ridipinta, a parte le versioni
litografiche, per quattro volte tra il 1885 e il 1927.
Vorrei tracciare un breve profilo biografico di Munch. Secondo di
cinque figli, perse la madre all'età di cinque anni, nel 1868,
assistendo, insieme alla sorella maggiore di un anno, Sophie, alla sua
morte causata dalla tubercolosi. La zia materna si occupò dei cinque
bambini. Il padre, medico, soffre per tutta la vita di disturbi
ciclotimici, oscillando fra stati di colpa per non aver saputo curare e
salvare la moglie, e stati di esaltazione mistica. All'età di
quattordici anni perse la sorella Sophie, anch'essa a causa della
tubercolosi, ed anche in questo caso assistendo alla sua dipartita,
rappresentata nel quadro del 1895 Morte nella camera di un'ammalata. La
sorella Laura si ammala di una grave malattia mentale in giovane età.
Tra il 1888 e il 1889 si ammalò di febbri reumatiche. Nella
convalescenza dipinse Primavera. Nel 1889 recatosi a Parigi con una
borsa di studio, viene raggiunto dalla notizia della morte del padre.
Dipinge Notte a St. Cloud. Nel 1895 muore il fratello Andreas, pochi
mesi dopo essersi sposato. A cavallo del secolo lo stesso Edvard verrà
ricoverato per un breve periodo in una clinica per malattie nervose. Nel
1902 la sua turbolenta storia d'amore con Tulla Larsen, esponente della
"bohème" di Kristiania, l'attuale Oslo, si conclude
tragicamente, con un colpo di revolver al culmine di un furibondo
litigio, che amputerà un dito della mano sinistra di Munch. Questo
"incidente" sarà spunto per elaborazioni di tipo paranoide da
parte di Munch. "In una serie di caricature egli riversò il suo
disprezzo nei confronti di Tulla e dei suoi più vicini amici
dell'ambiente della bohème di Kristiania" (Hoifodt, 1996). Nel
1906 e nel 1908 fu di nuovo ricoverato per i suoi disturbi nervosi e per
i problemi di alcoolismo connessi. Dopo questa crisi Munch darà una
svolta alla sua vita, ritirandosi dapprima a Kargero, e quindi nella sua
proprietà di Ekely, vicino ad Oslo, circondato unicamente dai suoi
dipinti, fino al giorno della sua morte nel gennaio 1944. Lascerà la
sua eredità, costituita da un numero enorme di dipinti, opere grafiche,
fotografiche e letterarie alla città di Oslo.
Le evenienze fondamentali della vita di Munch sono rappresentate in
opere che si prestano particolarmente ad illustrare il lavoro psichico
della elaborazione e della trasformazione dell'angoscia e del lutto,
anche in ragione delle molte versioni dello stesso tema che Munch ci ha
lasciato. In questo senso l'opera pittorica di Munch mi appare
particolarmente istruttiva, iconografica, per seguire il percorso
elaborativo e trasformativo che la funzione artistica possiede, al di
là di una valutazione estetica o, tanto meno, di una interpretazione
"selvaggia" della sua produzione.
Munch e l'esperienza infantile della perdita.
La vicenda infantile di Edvard Munch ha segnato profondamente la sua
opera, in particolare nella fase iniziale e centrale della sua
produzione. Assistere a cinque anni alla morte per tubercolosi della
madre, gli aspetti cruenti della scena, sono immagini intagliate nella
memoria, e riattivate dal ripetersi della stessa situazione nove anni
più tardi, alla morte della sorella Sophie.
Un lutto così precoce e drammatico espone il bambino al contatto con
una realtà esterna e interna soverchianti le sue capacità di pensiero.
Lo spazio mentale viene allagato dal vuoto dello spazio dove stava
l'oggetto, determinando una dissoluzione dello spazio mentale stesso. Di
fronte ad un'esperienza così devastante il bambino necessiterebbe
proprio dello spazio mentale della madre per mentalizzare l'esperienza
che sta vivendo, per utilizzare le capacità di contenimento e di
rèverie della mente adulta, ma è proprio questo che è venuto a
mancare. In questa situazione "è privo dell'equipaggiamento che lo
aiuterebbe a cartografare la realizzazione dello spazio mentale" (Bion,
1970, p.21).
Pochi giorni prima della morte, e prima di dare alla luce la sua ultima
figlia, Inger, la mamma ed Edvard ebbero la loro ultima passeggiata,
ricorda Munch nei suoi diari, in una luminosa giornata di sole.
"Non capivo perchè la mamma si fermasse ad ogni passo per
riprendere fiato". Poco tempo dopo, ricorda sempre nei suoi diari,
"venimmo svegliati nel cuore della notte, e capimmo subito perchè".
Era l'addio della mamma ai suoi figli. In questi ricordi ciò che è
notevole è questa oscillazione tra il capire e il non capire, il non
poter capire. In realtà il piccolo Edvard sa perchè la mamma si ferma
ad ogni passo a riprender fiato, ma non può tenere nella sua mente
l'idea di una mamma morente, in un momento in cui la vita vuole avere il
suo rigoglio apparentemente più grande, con la mamma che ha in grembo
un'altra bambina, il sole che riscalda il loro legame, che non può
essere concepito come qualcosa che non sia imperituro. L'idea della
morte deve essere proiettata in un luogo infinitamente distante.
Coma osserva Rebeca Grinberg, nei lutti infantili il carattere
peculiare è dato dal "maggior uso della negazione e
dell'identificazione proiettiva, spiegabile con la maggior labilità
dell'Io del bambino e la sua maggiore angoscia di fronte alla
morte" (1971, p.241), ovvero della sua impossibilità a contenere
questo tipo di esperienza.
Nella vicenda infantile di Munch la perdita dell'oggetto primario deve
aver generato uno stato mentale di terrore e di angoscia largamente
soverchianti le sue capacità di bambino di tollerabilità e
elaborazione. Egli deve essersi trovato a "sentire il dolore senza
soffrirlo" (Bion, 1970), forse vivendo inizialmente attraverso la
sorella Sophie la funzione della memoria, per poter soffrire il suo
dolore solo nel momento in cui ne fosse stato capace. Esiste infatti una
particolarità nella cronologia dell'opera pittorica di Munch per cui le
opere "della memoria" più recente precedono quelle dei
ricordi più antichi. La bambina malata è datato 1885, Morte nella
camera di un'ammalata del 1895 e queste opere si riferiscono alla morte
dell'amata sorella Sophie; tra le due si inserisce nel 1890 Notte a St.
Cloud, da mettere in relazione alla morte del padre dell'anno prima; La
madre morta e la bambina è del 1897 - 1899, e qui infine viene a
contatto con il ricordo primario della morte della madre (v. anche
Trabucco, 1999a, b).
Nella versione del dipinto conservata a Brema - La madre morta e la
bambina (1899-1900) - Munch rappresenta ciò che gli si è parato
innanzi allo sguardo all'età di cinque anni, il letto di morte della
madre, la sorella di sei anni con gli occhi sbarrati dal terrore, muta,
"le mani sulle orecchie per allontanare l'urlo silenzioso ... della
morte" (Bishoff, 1994). "Di uno sguardo, di un'orbita, si dice
che sono vuoti in quanto hanno contenuto la visione e l'hanno
perduta", dice Starobinski (1994), l'occhio sbarrato contiene ormai
solo il vuoto. In questa versione la bambina è sola, si può solo
identificare nella prospettiva lo stesso sguardo di Munch bambino,
attonito, di fronte ad una rappresentazione dell'impensabile. In questo
sguardo sembra aleggiare il vuoto di emozioni che deve essersi prodotto:
"L'emozione suscitata dal nulla (no-thing) viene sentita come
indistinguibile dal nulla (no-thing). L'emozione viene sostituita dalla
non-emozione." (Bion, 1970, p.31). Si crea così un "buco
nero". Tuttavia Munch ricorda la scena, ma nel lavoro del ricordo,
a posteriori, la arricchisce di significato: in questa versione l'ombra
unisce la sorella col letto di morte della madre; il destino materno si
proietta sulla figlia, che prende su di sè il carico di tutta questa
esperienza, delle emozioni non sperimentabili di Munch stesso. Nella
sorella Sophie sembrano passare anche tutte le esperienze emozionali del
piccolo Munch, essa diviene depositaria (v. Bleger, 1967) della sua
impensabile angoscia di dissoluzione persecutoria, nell'assenza di un
altro "contenitore" capace al momento di permettere al bambino
di elaborare il lutto. Vediamo qui inoltre delinearsi uno dei temi della
pittura di Munch, quello dell'ombra, che tornerà in diversi contesti,
ma sempre ad indicare la presenza inquietante di uno spazio al contempo
proprio e non proprio, sempre oscuro e minaccioso, dove il soggetto può
continuamente rischiare di essere risucchiato.
Nella versione di questo dipinto conservato a Oslo (1897-1899), vi
sono cinque persone dall'altro lato del letto della madre morta, ognuna
delle quali, a suo modo, sembra contenere le emozioni suscitate
dall'evento. Ma sono al di là del letto, la bambina e il piccolo Munch
sono soli. Si prospetta qui una tematica ricorrente e forse mai del
tutto elaborata da Munch, quella della incomunicabilità dell'angoscia.
Incomunicabilità che trova le sue radici nell'allagamento dello spazio
mentale di ognuno da un carico di angoscia e di lutto che non lasciano
spazio alle proiezioni dell'altro. La figura parentale è talmente
assorbita dal suo dolore che non trova lo spazio dentro di sè per
accogliere ed elaborare l'angoscia del bambino. In particolare sembra
che qui l'isolamento delle figure voglia rappresentare la condizione di
conflitto e separazione che ha caratterizzato i rapporti di Munch col
padre, un uomo che non è mai riuscito a elaborare la perdita della
moglie, probabilmente riversando su Edvard il peso della modalità
persecutoria in cui viveva il lutto come una colpa personale, secondo il
registro dell'onnipotenza per cui come medico doveva sconfiggere la
morte, e che ritorna anche nella maniacalità di una ispirazione
religiosa fanatica e integralista, in contrasto con ogni vitalità che
poteva risvegliarsi. Ancora in questa versione il rosso al di sotto del
letto della madre, rosso che ricorda anche l'emottisi, e che tornerà
nelle nuvole del Grido (Rugi, 1996), si confonde col rosso del vestito
della bambina, a sottolineare il passaggio del carico della malattia e
della morte dalla madre alla figlia. Un passaggio senza possibilità di
elaborazione e di cura.
Questo passaggio viene drammaticamente e crudamente rappresentato anche
nel dipinto Eredità I (1897-1899). La madre piangente che tiene sulle
ginocchia il bambino morente, in una sorta di "pietà", è in
realtà colei che gli ha trasmesso la sifilide che lo uccide. Se questa
è la raffigurazione di una scena che Munch vide nella realtà in un
ospedale per la cura delle malattie veneree di Parigi, essa più
personalmente rappresenta la fantasia della trasmissione della morte,
della "presenza" persecutoria dell'assenza, di un dolore
incontenibile. Inoltre le caratteristiche del bambino e del telo su cui
giace, fanno pensare ad un feto contenuto nel suo sacco amniotico. La
madre piangente ha in realtà il fazzoletto sulla bocca, e le gocce di
sangue sparse sul corpicino sembrano provenire da una espettorazione
materna. Siamo allora di fronte alla trasmissione non della lue ma della
tubercolosi, e ad una trasmissione intrauterina, come a sottolineare che
il fato del bambino è segnato prima della sua nascita, dovendo
caricarsi di un destino non suo, di cui non è responsabile, che
trasforma la culla della vita, il grembo materno, nella culla della
morte. Sembra qui di sentire riecheggiare Keats: "...i due pensieri
dominanti nella mente di un uomo sono i due poli del suo mondo e lui gli
gira intorno e tutto per lui è a nord o a sud di questi pensieri. Non
ci vogliono che tre mosse per passare dal letto più morbido al più
duro" (Lettera a B. Bailey del 13\3\1818). Tema questo che in Munch,
per i suoi elementi più francamente melanconici e paranoidi, viene poi
a significare un destino persecutorio che presentifica la morte nella
vita, come se quello che viene donato al bambino con la nascita fosse
solo la condanna a patire la morte. Questo tema percorre molto
profondamente una parte dell'opera di Munch, e a me sembra
particolarmente illustrato nel dipinto La danza della vita, come vedremo
più avanti.
Peraltro in questa maternità dolente possiamo riconoscere una
caratteristica che Graziella Magherini (1997) ha individuato e segnalato
nella pittura di G. Bellini: il bambino non viene tenuto tra le braccia,
ma appoggiato alle ginocchia, con una evidente mancanza di
"holding", essendo la madre qui troppo assorbita dal proprio
dolore e forse, ancor di più, dalla colpa. L'insieme di questi messaggi
che il contenimento materno offre al bambino sono quelli che permettono
al sentimento di esistere di assumere un tono vitale, la loro assenza
viceversa fa avvicinare a quelle sensazione che Grotstein ha definito
"un sentimento profondo di insignificanza di Sè stessi e del
proprio posto nel mondo" (1991, p. 876, trad. mia).
I primi piani dei volti che troviamo in questo dipinto, La madre morta e
la bambina, e che torneranno in altri come Morte nella camera di una
malata, Sera sulla via Karl Johann, Angoscia, il famoso Autoritratto con
bottiglia di vino fino a Le quattro età, sono immagini allo specchio
dello stesso Munch che sembrano alienate in uno spazio altro e che
quindi ritornano come persecutorie. Attraverso il porre una figura in
primissimo piano, Munch crea una "prospettiva", che
caratterizza parecchie delle sue opere, di sovvertimento dello spazio,
come lo definisce Fraenger (1996), in cui lo spettatore è posto in una
dimensione di osservatore coinvolto nella dinamica del quadro stesso,
come se fosse inevitabilmente attratto all'interno del dipinto che si
propone come specchio, che rivela il soggetto e ciò che egli si porta
alle spalle. In effetti si può notare come Fraenger osservi, a
proposito dell'Autoritratto con bottiglia di vino: "Un uomo
inospitale che, viziato dalla solitudine, schiva scrupolosamente il
contatto con gli altri, e che qui, nel suo autoritratto veridico, ci
tiene tanto vicini solo per spingerci via con la sua stessa eccessiva
vicinanza. La figura così prossima al margine della cornice non ci
invita forse a tenere le distanze e ad allontanarci?" (p.75). Qui
il critico non riesce a cogliere il significato riflessivo di ciò, di
quell'ambiguo allontanare e avvicinare che queste rappresentazioni
configurano in ordine alle stesse emozioni dell'artista. Così la
bambina in primo piano è e non è lo stesso Munch, ma sicuramente è la
maschera di quell'angoscia determinata dalla perdita drammatica
dell'oggetto primario. (Vi è un'altra caratteristica dell'opera di
Munch che richiama alla funzione dello specchio: nella rielaborazione di
un quadro che egli spesso affida alle versioni grafiche di questo, quasi
sempre rovescia la prospettiva, oltre che per un problema strettamente
tecnico - il rovesciamento della stampa rispetto alla matrice, che
peraltro in certi casi può ovviare- credo anche come a rivedere il
dipinto in uno specchio posto angolarmente a fianco dell'originale, che
permette l'elaborazione del tema, e il disvelamento di nuovi
particolari).
Nel dipinto Pubertà (1894) la giovane ragazza ritratta, ancora
un'immagine della sorella Sophie, è sovrastata da un'ombra scura e
fagocitante.
Correntemente si lega questa immagine alla serie Il risveglio
dell'amore, legata quindi alla tematica della sessualità e della
passione amorosa, tuttavia il rapporto esistente tra la fragilità della
figura e la cupa presenza dell'ombra non possono non richiamare alla
presenza della morte che incombe sulla figura della fanciulla. La
fragilità rappresentata sembra illustrare la natura autentica del
trauma, il rapporto di "forze" intercorrenti tra l'evento e il
soggetto che lo sperimenta. Munch dice: "Dopo aver acceso la
lampada, vedo improvvisamente la mia ombra enorme che va dalla parete
fino al soffitto. E nel grande specchio sopra la stufa vedo me stesso,
il mio stesso volto spettrale. E vivo con i morti, con mia madre, mia
sorella, mio nonno e mio padre, soprattutto con lui. Tutti i ricordi, le
più piccole cose, vengono alla superficie...". La memoria, per
Munch fonte della creazione - "Non dipingo mai ciò che vedo, ma
ciò che ho visto" - è la fonte interna della creatività, una
memoria da recuperare, da chiarificare passo passo, frammenti di vita di
cui dolorosamente riappropriarsi, attraverso un lavoro che permetta di
non restare soverchiato dalla persecutorietà di cui possono tingersi
"le più piccole cose" che non ci sono più. L'ombra che
ghermisce la sorella Sophie, come carico di memorie senza nome e senza
possibilità di essere pensate perchè troppo cariche di morte, diviene
in Notte a St. Cloud (1890) rappresentazione dello spazio interno, uno
spazio da illuminare, sovrastato dalla doppia croce nella finestra, i
lutti non ancora elaborati, ma in qualche modo, necessariamente,
proprio. Dopo la morte del padre solo resta ad accollarsi tutti i lutti
della sua vita, la madre e la sorella, l'altra sorella malata di mente,
il padre stesso. Per di più il lutto per il padre si tinge di quei
caratteri della colpa che il rapporto molto conflittuale avuto con lui
rende evidenti. Sia l'influsso dell'amicizia con Jaeger che quella con
Strindberg aveva incoraggiato una rottura "adolescenziale"
negli schemi dei rapporti col padre, il quale peraltro, in ragione della
propria patologia, doveva rendere particolarmente difficili. Anche qui
si è venuto a creare un convergere tra realtà e fantasia, nel senso
che il tema della colpa e dell'autoaccusa proprio del padre, viene
incarnato dal figlio, che diviene la materializzazione dell'accusatore,
peraltro rendendo inestricabile la convergenza tra questi elementi
proiettati e quelli propri derivanti della "fisiologica"
funzione separante paterna. In Edvard quindi il momento della protesta
verso il padre che interdice il possesso della madre togliendola al
desiderio onnipotente del bambino perde tutti quegli elementi di
ammirazione che permettono al bambino stesso di poter accettare
l'interdetto paterno attraverso un'identificazione, e la
procrastinazione del proprio desiderio. I desideri di morte del figlio
verso il padre sono qui resi "reali" dalla assunzione del
padre stesso del ruolo di colpevole. I sentimenti affettuosi non possono
essere vissuti, Edvard aveva sempre allontanato suo padre, rifiutando
anche le manifestazioni d'affetto che poteva avere nei suoi confronti, e
i ricordi dei suoi rifiuti lo perseguitano come rimorsi irreparabili.
Forse il conflitto col padre diviene così centrale nella mente di Munch
in quanto è stata la sua assenza mentale come spazio nell'elaborazione
del lutto per la madre, in quanto mai ha potuto assumersi la
responsabilità della separazione, la colpa che ai suoi occhi doveva
scontare. La figura paterna debole e schiacciata in realtà dall'evento
non ha potuto dare ad Edvard uno spazio solido e contenitivo in cui
trovare i modi e i tempi per una propria elaborazione della perdita. Se
il padre ha anche la funzione di bonificare il rapporto aggressivo tra
madre e figlio (Fornari, 1981), il padre di Munch non ha potuto
assumersi l'odio che la separazione deve aver generato. La croce che
compare nell'ombra di Notte a St. Cloud così si raddoppia non solo
perché lutto si aggiunge a lutto, ma in quanto non avendo il primo
lutto trovato possibilità risolutive attraverso l'aiuto della funzione
paterna, persiste nello spazio interno di Munch, in una dimensione in
cui è anche di questa funzione che bisogna fare il lutto: vi è la
disperazione di poter mai risolvere queste esperienze, in quanto non ha
introiettato un "apparato" capace di digerirle.
Il primo dipinto di Munch di rilevanza internazionale, quello che
provocò un "succès de scandale" per le caratteristiche
tecniche assolutamente anomale per l'epoca, è La bambina malata
(1885-1886).
Le caratteristiche tecniche che la contraddistinguono - le
caratteristiche di abbozzo di molti elementi, i tratti frettolosi,
sfumati, i graffi, esiti di ritocchi successivi - in realtà vengono a
configurare la rappresentazione di un'immagine della memoria,
dell'immagine soggettiva: i graffi sono la rappresentazione della
visione attraverso le proprie ciglia e le proprie palpebre della scena.
Scandalo suscitò nella critica l'imprecisione delle forme, definite
addirittura "imbrattatura", in particolare per quel che
riguarda la mano. Proprio in questa "imbrattatura" viceversa
vedo il carattere più significativo di questo dipinto: la mano della
bambina e quello della donna che l'assiste - in concreto la scena
riguarda la sorella Sophie e la zia - sono unite in modo confusivo, come
a sottolineare un passaggio senza soluzione di continuità fra l'una e
l'altra, passaggio anche dalla figura materna rappresentata nella
disperazione senza volto della zia verso la bambina, passaggio di morte
e di impotenza. "...il gesto ... unisce colei che va e colei che
resta, ma le mani sembrano quasi cancellate: resta una macchia dilavata
come se quel gesto fosse stato consumato dalla sua impotenza a
trattenere" (Di Stefano, 1994). Tenere la mano è un gesto
impotente, l'impotenza di fronte alla morte, ma soprattutto l'impotenza
del bambino, solo, di fronte all'abbandono irreparabile. Il piccolo
Munch è presente in questo quadro attraverso il suo sguardo, impresso
nella tela nei graffi che lo solcano, ma il suo sguardo non trova nessun
altro entro cui poter inviare la propria angoscia, la sorella se ne sta
andando, il suo sguardo va verso la luce della vita che per lei si
allontana irrimediabilmente, la figura parentale è chiusa nella sua
disperazione, inaccessibile alla disperazione del bambino. "Sono
convinto che nessuno di questi pittori - dice Munch a proposito di altre
raffigurazione di questo tema piuttosto frequenti all'epoca - avrà
assaporato fino in fondo il suo tema come ho fatto io in La bambina
malata. Non ero io solo a sedere là, bensì tutti i miei cari". Il
punto di fusione tra le due figure fa pensare alla perdita irrimediabile
di quegli aspetti del sè infantile che la madre, morendo, ha trascinato
via con sè; quel bambino che, morendo la mamma, non potrà mai più
esserci, in quanto, parafrasando Winnicott, non c'è bambino senza la
madre, e non c'è madre senza bambino.
Quando, all'età di quindici anni la sorella Sophie muore di
tubercolosi, proprio come la madre, il giovane Munch si ritrova a vivere
l'esperienza del lutto e dell'angoscia della perdita in una sorta di
apres-coup che lo costringe a riappropriarsi del proprio lutto
originario, delle emozioni che sembrava aver depositato nella sorella
stessa. Come osservano i Baranger e Mom (1987, p.184) "il primo
tempo del trauma...acquista il suo valore eziologico a partire dal
secondo, dalla sua riattivazione per un evento...e attraverso la
storicizzazione analitica che congiunge i due tempi. Il primo tempo del
trauma rimane muto finche la Nachtraglichkeit gli permette di parlare e
di costituirsi in trauma". Naturalmente in Munch la storicizzazione
non è analitica ma utilizza l'opera artistica quale medium ove operare
questa storicizzazione. L'opera d'arte, come osserva Liebert (1982)
"non ha l'effetto di operare un working through, cioè, di alterare
permanentemente la rappresentazione mentale centrale di se stesso e
degli altri e determinare cambiamenti basilari negli altri aspetti della
sua organizzazione e delle prospettiva psicologiche interne. In questo
modo ogni tentativo artistico inevitabilmente fallirà a questo
proposito e riaffiorerà il sottostante conflitto" (p.448-449,
trad. mia). Tuttavia in Munch la funzione del lavoro artistico sembra
teso a far sì che l'immagine del ricordo possa accedere alla
pensabilità, più che alla soluzione del conflitto. La sua funzione è
quella di creare un contenitore, di poter "rappresentare l'irrapresentabile".
Nel lavoro di ricostruzione e di significazione del ricordo, l'ombra,
rappresentativa dell'esperienza del passato, del lutto non elaborato,
inghiottendo la sorella, ed annientandola, ricade su di lui.
La riappropriazione del proprio lutto è rappresentata anche nel
dipinto Morte nella camera di una ammalata (1895), la scena della morte
della sorella Sophie.
Qui il giovane Munch si ritrae sulla sinistra del dipinto, accomunato al
dolore della famiglia, in cui tuttavia l'isolamento e
l'incomunicabilità restano tangibili nelle prospettive assolutamente
divergenti di ogni personaggio. "E' la messa in scena del ricordo,
e i personaggi non hanno l'età che avevano al momento dell'evento, ma
quello dell'anno in cui viene concepito il quadro" (Di Stefano). E'
il tempo del ricordo racchiuso in una prospettiva chiusa e ricorsiva, in
cui il passato non può essere tale, ma è sempre, persecutoriamente,
presente. Qui Munch esplicita quell'aspetto della "funzione
psicoanalitica della mente" in cui l'elaborazione dei contenuti
mentali è sempre rivolta al presente. "Il passato non è
importante, perchè non ci si può fare nulla: le sole cose su cui si
può fare qualcosa sono i resti, le vestigia del passato, degli stati
mentali passati" (Bion, 1997, p. 60). Come Freud ha asserito
nell'inconscio non troviamo traccia di una concezione del tempo. Il
tempo è una dolorosa acquisizione della consapevolezza di Sè. In una
litografia del 1896 le figure sono accomunate viceversa dalla
prospettiva verso il letto della sorella morta, mentre sulla parete di
fronte aleggiano i fantasmi dei morti, a sottolineare come il lutto
attuale non faccia che ripresentificare quello precedente, ancora da
vivere ed elaborare; la sorella Inger, in primo piano, sembra accogliere
lo sguardo del pittore, carico di angoscia e di lutto, contenimento
relazionale che rappresenta il movimento iniziale verso l'elaborazione e
la pensabilità.
Questa possibilità di elaborazione e di riappropriazione del proprio
vissuto emozionale si sviluppa in ragione della solitudine che si
relativizza a poco a poco. La zia che cura fino al limite della propria
impotenza la nipote in Bambina malata, il primo piano della sorella
Inger, sia in Morte in camera di una malata, che nella relativa
successiva litografia, sembrano indicare come prepotenti le istanze
vitali, ovvero le buone relazioni con gli oggetti, nel mondo interno di
Munch controbattono il carico di lutto che proprio quell'anno si è
nuovamente abbattuto su di lui, con la morte del fratello Andreas. Inger
è l'unica sorella che sopravviverà insieme ad Edvard.
Il lento e doloroso lavoro del lutto già in precedenza era giunto ad
un punto di recupero delle figure della vitalità, nel dipinto Primavera
del 1889.
Questo quadro è stato dipinto in un periodo di convalescenza, la
ripresa delle proprie forze, la sconfitta della malattia e della morte
sono mirabilmente descritte dalla leggerezza e dalla luminosità delle
tende che si sollevano sofficemente sospinte verso l'interno dalla
luminosa ariosità della brezza primaverile, a rischiarare un ambiente
in cui la giovane malata, la sorella Sophie, risalta per il suo pallore
in contrasto col colore salubre dell'incarnato della figura materna che
l'assiste.
Quasi una idealizzazione la sconfitta della morte che sembra
indietreggiare e dover cedere i suoi spazi alla vita rappresentata dalla
madre florida, le due finestre luminose come seni rigogliosi di
nutrimento vitale. Un omaggio alla zia, Karen Bjolstad, che ha preso
validamente il posto della madre nella rappresentazione del mondo
interno di Munch e che in questo modo ha permesso al suo stesso mondo
interno di costituirsi. Un'identificazione in cui magicamente ripara
alla morte della sorella, restituendola alla vita con questo quadro,
così come si libera dalla propria malattia. La sorella può essere
ritrovata viva dentro di sè nella misura in cui la mente di Edvard può
riappropriarsi di tutta la emozionalità che aveva compresso dentro di
lei nell'estremo sforzo di sopravvivere all'allagamento di angoscia
persecutoria e di impensabilità legate alla solitudine in cui si è
compiuta la perdita originaria.
Il recupero di oggetti vitali al proprio mondo interno permette di
riappropriarsi del proprio mondo emozionale, in un travaglio che segue
un continuo movimento oscillatorio tra aperture verso la vita, il legame
e la passione del sentimento, e la paura angosciosa dell'abbandono. Ma
nell'inverno di quello stesso anno, il 1889, morirà il padre, e le
immagini vitali e luminose devono nuovamente lasciare il posto alle
memorie delle perdite. Il lavoro del lutto, già di per sè così duro
di fronte alla precocità e drammaticità del trauma iniziale, sembra
doversi rinnovare e recedere continuamente in una lotta impari col
potere della morte.
Questa ambiguità è espressa in un'opera come Il bacio (1897), dove
il rapporto può essere concepito solo come fusione e con-fusione, unica
salvaguardia nei confronti di un abbandono che sembra viceversa
prospettarsi come unica evenienza possibile, come è rappresentato per
esempio in Separazione (1896) o in I solitari (1906/07). "Ognuno
sta solo sul cuor della terra", e in Munch questa solitudine è
tratta non certo da una riflessione sulla solitudine fondamentale e
metaforica dell'essere umano, ma da una concreta e dolorosa esperienza
di vita.
Queste tematiche mi sembrano comunque riassunte nell'opera fondamentale
La danza della vita (1899-1900), una vita che sembra promettere e
togliere con la stessa leggerezza, con la leggerezza di un danza per
l'appunto. La vita che offre uno scenario naturale accogliente perché
la promessa ideale offerta dall'oggetto primario, rappresentata dalla
donna in bianco alla sinistra, possa muovere desideri e passioni,
tenerezza e gioia - le varie coppie impegnate al centro della scena -
per finire togliendo tutto in una separazione irreparabile, raffigurata
nella donna in nero sulla destra.
Il tempo della vita qui rappresentato si pone peraltro come un tempo
senza divenire, una "temporalità circolare" (Baranger e al.,
1987) fissata nell'attimo ricorrente del trauma, della separazione
ineludibile. La storicizzazione che sembra proporsi è una falsa
storicizzazione, in quanto la congiunzione tra promessa e disillusione
fissa il tempo in una circolarità ricorsiva in cui il principio di
morte ha sempre la meglio. Tuttavia, anche in questo dipinto, che mi
sembra uno dei più tragici per il pessimismo - leopardiano - che
trasmette, non completamente possono essere perdute le tracce di quello
slancio vitale che, in qualche modo, può essere ricercato e trovato al
fondo dello spazio interno della propria mente da parte di Munch: la
luna all'orizzonte si riflette nel mare in una simbologia di fertile
creatività.
L'oggetto buono e vitale non sembra tuttavia poter trovare un posto
stabile nel mondo interno di Munch, essendo il fondo della sua angoscia
racchiuso in una nicchia dell'anima irragiungibile, incomunicabile.
Troppo solo sembra essersi sentito questo piccolo bambino di fronte alla
perdita tragica della sua infanzia, troppo isolati tutti nella propria
depressione ed angoscia quanti stavano intorno a lui.
La folla muta e cieca della Sera sulla Karl Johansgate (1892), non
sembra accorgersi dell'esistenza del passante sulla destra che, solo,
deve risalire la corrente, deve tornare verso l'origine, recuperare
qualcosa da cui tutti viceversa sembrano allontanarsi, spaventati e
pieni d'angoscia. Un passante che tuttavia non ha voce, sembra ripiegato
su se stesso, a sua volta è impotente ad esprimere ciò che sente.
La solitudine di Munch si esprime al suo culmine, nella massima
tensione rappresentabile in Disperazione (1892). Egli è solo, la natura
intorno a lui si esprime indifferente alla cupa perdita del senso di sè
che quel soggetto senza volto manifesta nel suo fermarsi lasciando che
da lui si allontanino cose vive che si muovono, anche se verso il
tramonto.
Come si può ben vedere questo dipinto prelude al Grido (1893).
Se questo viene considerato il capolavoro di Munch, le ragioni che ne
determinano il successo credo che siano molteplici. Come ha osservato
Rugi (1996) con quest'opera viene sovvertito un pregiudizio classico,
sostenuto fra gli altri da Schopenhauer, della irrapresentabilità del
suono.
E osservando questo quadro non può non venire in mente il paziente di
Bion che, nella dimensione frammentata del suo tempo, segnala la
mancanza del legame col seno attraverso il ripetere come manchi il
"gelato" (no-ice cream), come manchi il grido (no I scream), e
come questo grido, nel momento in cui può essere espresso, venga a
rappresentare il legame (Bion, 1970, pp.22-23). La capacità di
nominare, osserva Bion, "anche se il nome si limita ad essere un
mugolio o un urlo" (ibid. p. 18) depone per l'acquisizione della
capacità di tollerare una "congiunzione costante", ovvero di
avere uno spazio interno sostenuto da un buon oggetto che permette di
tollerare l'assenza e di pensare (v. anche Bion, 1962a,b).
Nel cammino elaborativo della propria vicenda Munch giunge finalmente a
poter accedere al nocciolo della sua angoscia, a trovare una via
espressiva e comunicativa, una via di pensiero, pur se appena abbozzato.
Il trauma infantile di Edvard si deve essere posto come "una
esplosione così violenta...accompagnata da una paura così immensa...da
poter essere espressa...per mezzo di un improvviso ed assoluto
silenzio" (Bion, 1970 p. 22). Un improvviso silenzio, quello anche
proiettato nel terrore muto, senza nome nel volto della sorella Sophie,
che ha necessitato del cammino di una vita per poter essere rotto,
lacerato dal grido che finalmente trova uno spazio entro cui essere
accolto. La natura-madre si piega all'onda sonora, si deforma secondo le
sue linee di diffusione. Il grido di Munch trova una sua corrispondenza
nella natura. Il personaggio, intriso di morte, come il suo volto
mummiesco indica, riesce a far uscire il suo carico all'esterno, a
pretendere di non sentirlo più come proprio, ad accettare la morte
della madre senza doversi identificare in essa, tappandosi le orecchie
per non sentire, ovvero far rientrare dentro di sè, il grido della
madre-natura, che gli ritorna la morte, dipingendo le "nuvole come
sangue vero", il sangue dell'emottisi fatale della madre e della
sorella, come una cosa che deve stare al di fuori di lui. Arrivando ad
accettare la perdita, elaborando il lutto, dentro di sè può ritrovare
un contenitore buono, la madre viva, capace di contenere la sua
angoscia.
La possibilità di esprimere in un ambiente contenitivo "il
lutto indicibile" (Abraham e Torok, 1987) permette anche di
spezzare la temporalità persecutoria del trauma. Nella versione più
conosciuta del Grido la cesura rappresentata per mezzo del parapetto,
che prospetticamente taglia rigidamente l'immagine, proiettandola verso
l'infinito dissolutore, e contenente le figure che qui,
persecutoriamente, sembrano inseguire il personaggio, è in realtà
spezzata proprio dalla figura e dall'urlo. Proseguendo la linea del
tratto di parapetto antistante la figura del personaggio, si noterà che
non corrisponde alla linea del tratto del parapetto che prosegue alle
sue spalle. La temporalità circolare della ripetizione che imprigiona
all'interno di un universo fatto di persecuzione, di angoscia e di
morte, nella relazione tra un contenuto e un contenitore si apre ad una
storicizzazione che permette l'individuazione, l'appropriazione delle
proprie emozioni e l'esclusione di quelle aliene.
Munch, come già prima ho sottolineato, ha scritto su una copia del
Grido: "solo un folle poteva dipingerlo". Egli si dovrà
confrontare ancora a lungo con la propria follia, ma in quest'opera si
può ritrovare l'apertura espressiva della follia, i "sintomi
positivi", produttivi, quelli che permettono di trovare una via,
dolorosa e impervia magari, ma l'unica per uscire dalla prigione del
non-pensiero. In effetti molto più "folli" sembrano i dipinti
raffiguranti La madre morta e la bambina, o Disperazione, o altre
varianti del Grido. In queste rappresentazioni del dolore mentale,
l'assenza di apertura comunicativa delinea un quadro di inelaborabilità
e fissità che veramente configura un'assenza di pensiero, uno stato a
"sintomi negativi", la impenetrabilità della
"follia".
L'elaborazione depressiva del lutto (v. Grinberg, 1971), che nel Grido
possiamo riconoscere, non è una acquisizione data una volta per tutte,
ma giunge al culmine di un lavoro elaborativo che procede
oscillatoriamente attraverso il passaggio a modalità persecutorie del
lutto stesso. In una litografia del 1895, una elaborazione successiva
del Grido, così come in un'altra versione dipinta sempre del 1893 (in:
AA.VV., 1985, e AA.VV., 1998), questa oscillazione verso la
persecutorietà può essere ritrovata nelle caratteristiche che
differenziano, profondamente, questa versione dalla precedente.
Vediamo qui come i caratteri salienti che rendono Il Grido così
particolare nel percorso umano e artistico di Munch sono profondamente
mutati. Le caratteristiche della natura riprendono la rappresentatività
quasi "naturalistica" di Disperazione: le linee che descrivono
la collina in primo piano, il fiordo, le nuvole, seguono il loro corso
senza piegarsi all'onda d'urto del grido del personaggio, e senza
amalgamarsi in un tutt'uno. Così come le linee del parapetto continuano
senza spezzarsi in corrispondenza della figura, e i personaggi
nuovamente si allontanano come a sottolineare l'irreparabilità del
distacco e della solitudine.
Le stesse cose si potrebbero dire di Angoscia (1894).
Qui la natura è identificata ancora nel grido, ma in una unione
confusiva tra l'Io e una madre-natura sanguinante nel suo grido di
morte, non più rappresentabile quindi come una relazione che individua,
ma come una relazione che annulla. Nel "corso" della vita una
folla muta in preda ad un terrore senza nome, la stessa folla della via
Karl Johann, volta le spalle a ciò che nella visione di Munch
rappresenta l'alfa e l'omega della sua esistenza: l'origine e il
tramonto coincidono, in funzione del tempo ricorsivo e chiuso su se
stesso della morte e della persecutorietà. E' la folla degli adulti che
restano chiusi in se stessi, sordi.
L'aver potuto tuttavia gridare il proprio dolore e l'angoscia porta
Munch a confrontarsi con il proprio nucleo di esperienza più
impensabile, e, conseguentemente, a rischiare di sprofondare nella
follia, a questo punto non più la follia "bianca" del
non-pensiero, ma nella follia come ritiro terrorizzato di fronte ad
un'esperienza emozionale in qualche modo rappresentata, e collocata in
una dimensione spazio-temporale. L'acquisizione di consapevolezza, il
contatto con la verità del proprio mondo interno, produce un carico
emozionale difficilmente tollerabile. Così come certi pazienti gravi in
psicoterapia, quando cominciano a "star meglio", ad essere
più coscienti di sè e della realtà intorno a loro, divengono proprio
a quel punto a rischio di suicidio.
Successivamente al Grido l'opera di Munch oscilla continuamente tra
immagini di follia e autodistruzione e altre dove prende corpo un sempre
maggiore contatto con la vita. Angoscia, come abbiamo già visto, ma
anche La vite rossa (1900ca.), fino all'Autoritratto con bottiglia di
vino (1906), contengono maggiormente le prime.
"Le case, concepite antropomorficamente, appaiono come esseri
animati congelati in un'assenza di vita da un incantesimo
diabolico" (Messer). E' la paralisi del tempo del trauma che
imprigiona nella sua morsa di morte la mente di Munch. Rappresenta a
questo punto la propria mente come un'entità che viene assalita
dall'esterno, il sangue mortale lo stringe in una morsa paralizzante,
tendendo a renderlo inanimato. Eppure egli rappresenta la sua mente come
una casa, una struttura che ha una sua solidità, una sua identità, che
può rimanere soffocata, ma che continua a conservare le sue vie
comunicative, le finestre non ancora invase dal rampicante.
E la lotta con la follia si dispiega fino al limite della sua
sopraffazione, culminata nella grande crisi del 1906-1908, con i
ricoveri per disturbi nervosi e per l'alcoolismo, rappresentato
mirabilmente nell'autoritratto del 1906.
La solitudine, tale in quanto non comunicazione con le altre figure
sullo sfondo, e l'oppressione di una via senza uscita verso la morte -
il rosso che chiude l'angusta prospettiva dei tavoli - sono rispecchiate
dall'espressione del volto di Munch in cui una smorfia di dolore è
percepita dal sè del pittore con una profonda rassegnazione depressiva,
che ritroviamo nell'espressione degli occhi. Lo sguardo di Munch è
senza speranza, non può essere attratto dalla luce che pur copiosa si
riversa all'interno dalle finestre, e che illumina la stanza verde in
cui si trova. La consapevolezza dei suoi dolori, della propria realtà
interna come della propria storia, non sembra poter offrire alcun
sollievo all'angoscia e all'impotenza in cui egli appare inchiodato.
Come osserva Messer i colori sono usati da Munch come
"chiavi", nel senso musicale del termine, quelli puri come
chiave maggiore, quelli sfumati come tono minore. "E' ... del tutto
evidente, dall'esame di un gran numero di tele, che per Munch il rosso e
il verde costituiscono polarità emotive" (Messer), il rosso legato
al trauma infantile, alla morte, il verde "rispecchia i colori
permanenti ed eterni della natura" (c.s.), una natura viva e
accogliente, una madre-natura capace di sostenere, ma qui relegata ai
margini.
In questi anni di grande travaglio emozionale Munch dipinge anche quadri
come Ragazze sul ponte (1899 ca.), Fertilità (1902), I quattro figli di
Max Linde (1903), Danza sulla spiaggia (1904), Notte d'estate sulla
spiaggia (1905 ca.), Le quattro età (1902).
In una delle numerosissime versioni di questo tema delle Ragazze sul
ponte, vi è un'immagine dove si possono chiaramente individuare
elementi della "vitalità", un accostamento più sereno alla
realtà e alla dinamica emotiva. Accanto ad un tema legato alla figura
femminile - la donna in bianco e la donna in rosso - e al non risolto
accostamento alla passione amorosa, si può vedere come il distacco
della figura in primo piano, la sua melanconia, non assuma delle
caratteristiche catastrofiche, ma sia contenuta in una tristezza, in una
nostalgia forse, che fa parte del normale dispiegarsi della vita
emotiva. Il ponte può essere considerato come un elemento simbolico che
lega, nell'attimo della sospensione riflessiva, il passato al futuro.
Abbiamo allora ancora qui una rappresentazione della visione del tempo
di Munch. Le tre ragazze, forse le sue tre sorelle, qui si possono
differenziare in base ai loro destini: Sophie e Laura oramai voltate
inesorabilmente verso la perdita, Inger che può sostenere il peso dei
ricordi e non esserne travolta. E' come se si presentassero le diverse
possibilità del destino del ricordo, quello che lo fissa come un carico
che schiaccia la mente sotto il suo peso, o quello che lo inserisce
nella "temporalità all'opera" (Green, 1990b) lo spazio, il
ponte, del legame con un oggetto contenitivo che permette
l'elaborazione.
In un'altra versione di questo dipinto (1901), forse quella più
conosciuta, le tre ragazze tutte rivolte verso la stessa direzione
osservano il paesaggio che si riflette nell'acqua. In questa riflessione
esiste un particolare che è balzato all'attenzione di tutti, cioè che
nell'immagine riflessa, accanto al grande albero, "fallico",
manca la luna. Ma in realtà vi è un'altra caratteristica che può far
pensare ad una sorta di lapsus pittorico, come nel caso del Grido. La
casa che si riflette è diversa, reciproca, rispetto a quella reale. La
parte più bassa del tetto diviene nel riflesso quella più alta e
viceversa; compare una finestra in più nel riflesso che non esiste
nella "realtà". Ciò che le ragazze vanno osservando è lo
spazio della mente, popolato dagli oggetti della storia che possono
declinarsi secondo due registri: da un lato vi è lo spazio dei ricordi,
dove gli oggetti vengono conservati anche nelle loro relazioni tra loro.
In particolare sembra che la luna, l'albero e la casa, nello spazio
"reale" configurino una relazione tra padre e madre che crea
lo spazio della familiarità. E' questo quindi lo spazio del ricordo e
della creatività. Nel riflesso viceversa si configura lo spazio del
"trauma", della perdita dell'oggetto. In questo spazio
campeggia l'assenza, il luogo dove era l'oggetto, la non-cosa bioniana.
L'elaborazione del lutto non toglie la perdita: se nella realtà la vita
può riprendere il suo corso in una relativa tranquillità, nel profondo
dell'anima i vuoti restano, anche se la riparazione può addirittura
creare qualcosa in più rispetto al reale. Come osserva F. Meotti
"nel momento stesso in cui procede alla riparazione
dell'oggetto...crea di fatto un oggetto nuovo, ma, soprattutto, crea la
propria creatività...[la riparazione] appare come un processo molto
complesso in cui non è sufficiente l'affiancarsi di nuove esperienze
buone accanto a passate esperienze cattive, ma in cui è necessario che
l'esperienza vitale e sempre più importante del presente rafforzi la
coesione e il peso che il sè dà a se stesso, in modo tale da variare
il tono affettivo della memoria senza adulterarne il significato"
(1998, p. 150). In questo senso mi piace pensare che sia la realtà
soprastante ad essere un riflesso di quella sottostante, uno spazio in
cui il sé ha potuto "variare il tono affettivo della
memoria", attingendo comunque a primitive esperienze legate alla
presenza viva e vivificante della madre. Pensiamo qui alle esperienze
vitali rappresentate nella vita di Munch dall'eredità positiva materna
legata proprio alla sensibilità artistica - la madre di Munch era
estremamente dotata artisticamente- ma poi dal rapporto con la zia e con
la sorella Inger.
Questi dipinti richiamano Melanconia del 1894-95 ca., in una della
sue varie versioni, appartenente al Fregio della vita, l'ideale opera
d'insieme in cui Munch desiderava descrivere il cammino interiore
dell'esistenza.
Anche qui vediamo come la tristezza del soggetto trovi una sua
collocazione in uno spazio vitale, sia inteso come una natura dai colori
tenui e sfumati, sia come vita che si svolge tranquillamente, anche se
alle spalle del protagonista.
Lo stesso clima che si ritrova in un dipinto del 1889, Notte d'estate o
Inger sulla spiaggia, in cui la dolce malinconia della sorella, immagine
di vitalità per eccellenza nell'opera pittorica di Munch, si dispiega
nelle luci tenui e calde della notte estiva, in un relativo ritiro dalla
vita vissuta, presente tuttavia nelle pertiche delle nasse e nella barca
dei pescatori che si distinguono sullo sfondo.
La disperazione e l'angoscia indicibile non occupano tutta l'opera, il
ritratto dei bambini Linde, o della bambine di Aagarstrand, denotano una
oscillazione momentanea verso la vitalità e un calo della tensione
angosciosa nella vita del pittore. Alle soglie della sua crisi dipinge
Danza sulla spiaggia.
Qui abbiamo la rappresentazione di una gioia connessa all'infanzia che
potrebbe apparire quasi come una negazione maniacale del proprio lutto e
dell'angoscia, se non fosse per l'apparire delle altre tre figure, le
due in nero e quella in rosso, che ripropongono la simbologia della
Danza della vita. Però qui non si ha quella paralisi del tempo che
contraddistingue quel dipinto, ma una successione, la rappresentazione
delle fasi della vita, l'infanzia, la maturità con le sue passioni, il
declino.
E ancora troviamo un ambiente in cui il dispiegarsi del tempo avviene in
un clima di non persecutorietà, una madre-natura accogliente, anche in
funzione di una specie di combinazione edipica in cui la funzione
materna è sostenuta dalla figura paterna dell'albero, che sembra avere
propriamente una funzione discriminante, evitando le confusioni tra le
fasi descritte, in quanto ciascuna è separata dall'altra dai rami che
le incorniciano.
Questa funzione strutturante dell'edipo è quella che permette di
distinguere tra sè e altro, tra interno ed esterno, tra fantasia e
realtà. E' questa che permette ad uno spazio contenitivo di non
divenire confusivo e simbiotico, e quindi permettere trasformazione e
crescita mentale.
Lo spazio interno in cui si possono discriminare le diverse
esperienze del Sè permette a Munch di accostarsi ad una visione più
libera della vita intorno a lui, ad acquisire una visione dello spazio
non più dominato dalla paura e da una temporalità persecutoria, ma in
cui i diversi elementi si integrano in una naturalità sempre maggiore,
come per esempio nel dipinto Notte d'estate.
In particolare possiamo notare come le figure della temporalità si
modifichino, confrontando le due versioni del Grido proposte,
Disperazione, e Ragazze sul ponte.
La linea prospettica che vorticosamente porta verso una profondità
insondabile, le origini come la morte, presente in Disperazione e nel
Grido litografico, diviene quella linea che si spezza nel Grido del '93,
un percorso del tempo della vita in Ragazze sul ponte. Qui la linea
prospettica si adatta alla presenza delle figure, comprese forse in
un'attesa, in rapporti umani, anche in pause melanconiche, ma con la
tranquillità del vedere svolgersi sotto i loro occhi il cammino delle
emozioni, i percorsi della vita, i riflessi della realtà nella
profondità della mente, rappresentati dai riflessi nell'acqua, il tempo
attuale a confronto con quello passato e quello futuro, massimamente
espresso proprio in questa versione del dipinto, con una delle figure
che guarda in direzione opposta alle altre due, come a sottolineare una
possibile reversibilità della temporalità nello sguardo interiore.
Proprio questa discriminazione, una nuova prospettiva temporale, giunge
alla sua più chiara esplicitazione nell'opera Le quattro età.
Il cammino del tempo si dispiega così nell'arco delle fasi
dell'esistenza, che, non più fissata nell'attimo del trauma, trova la
sua naturale successione in un percorso racchiuso in una prospettiva
mobile, delimitata dal quotidiano. La bambina in primo piano, che, come
rileva Bischoff (1994, p. 68), ricorda la sorella del dipinto La madre
morta e la bambina, sembra potersi lasciare alle spalle le immagini
della morte e guardare innanzi in una strada della vita che le si apre
davanti sconosciuta, ma che contiene immagini di un tempo che non priva
dei propri oggetti primari, bensì permette loro di crescere e di
invecchiare, conservandosi nello spazio del proprio mondo interno. Le
figure femminili che invecchiano rappresentano, nell'esperienza interna
di Munch, una rappresentazione della consolidata affermazione nel
proprio spazio interiore di immagini vive con cui può confrontarsi e
sentirsi sostenuto, e non con la presenza della morte, ovvero un oggetto
buono assente che, con la sua assenza, si tramuta in oggetto
persecutorio presente.
In effetti le uniche figure femminili che Edvard ha potuto veder
invecchiare sono state la zia e la sorella Inger. Nei ritratti che si
succedono di Inger (1892) ritroviamo il continuo attingere, da parte di
Munch, ad una immagine interna di vitalità che, nonostante tutte le
vicende luttuose che ha dovuto affrontare, è sempre, in qualche misura,
stata presente.
Nella sorella Inger, così centrale nell'elaborazione della propria
vicenda esistenziale, Munch sembra condensare tutta la vitalità che ha
potuto attingere dalle figure materne della sua vita: la madre stessa,
la sorella Sophie, la zia Karen, una vitalità che si sprigiona
prepotente in particolare in un ritratto precedente, in cui lo sguardo
sembra uscire dalla cappa luttuosa dell'abito e dello sfondo nero come
un trionfo della vita sulla morte (1884).
A questa figura della vita fa da riscontro Il sole (1909-11), gigantesco
monumento alla vitalità paterna, forse un poco "sovrumana",
vista l'ispirazione nietzschiana da cui il dipinto è partito, ma che
sviluppa al massimo grado quell'elemento fecondo dell'incontro del sole
col mare, che nelle opere precedenti vedeva il sole sempre rappresentato
in tono "minore". Qui viceversa la sua potenza calorosa trova
il suo dispiegamento completo, anche in funzione di una maggiore
"penetrazione" nell'ambiente marino.
Nel famoso Autoritratto tra la pendola e il letto (1942-43), forse il
suo ultimo quadro, Munch vecchio e curvo sosta tra gli assi della
temporalità e la non temporalità, l'asse verticale della pendola - il
tempo della vita - e quello orizzontale del letto - l'eternità della
morte -, indicando come il suo tempo sia finito, attraverso il simbolo,
forse ripreso anche da Bergman in "Il posto delle fragole",
dell'orologio senza lancette. Alle sue spalle tutta la sua vita, i suoi
quadri, il sogno di una passione (il nudo femminile che si vede alla sua
sinistra) che non ha potuto trovare una realizzazione. L'elaborazione
solitaria, mediata dalla creazione artistica, non gli ha permesso di
giungere ad una fiducia nel legame sufficiente per realizzare un
rapporto stabile e creativo - si pensi al suo rapporto burrascoso con
Tulla e al suo epilogo segnato da una "castrazione" nemmeno
tanto simbolica, la perdita di un dito della mano sinistra -; il
tentativo di padroneggiare l'esperienza traumatica, come osserva Green
(1980), produce "sublimazioni [che] mostreranno la loro incapacità
ad esercitare un'azione equilibratrice dell'economia psichica, perchè
il soggetto resterà vulnerabile in un settore particolare, quello della
sua vita affettiva" (p. 278-279).
Il "progetto trasformativo dell'esperienza artistica"
(Conforto, 1997), non può colmare completamente il "buco"
lasciato da quegli eventi della storia infantile; nel suo ultimo
autoritratto la luce che penetra e illumina il pavimento ai suoi piedi,
e che benché formi una croce come quella di una pietra tombale, come
osserva Di Stefano (1994), lo sostiene tuttavia fino all'ultimo momento
del suo tempo, luce della vitalità che ha saputo ritrovare nella
costruzione del suo mondo interno, grazie al recupero doloroso,
attraverso il lavoro del lutto, delle figure vive dei suoi genitori,
degli oggetti primari, che per lo meno hanno potuto mitigare il peso del
posto occupato al centro del proprio apparato psichico dalla "madre
morta", quegli oggetti primari che noi tutti possiamo ritrovare
lungo il corso della vita, e che ci donano momento per momento nel
nostro cammino la sostanza e il sostegno per il nostro esistere.
"Reinsediando dentro di sè...i genitori buoni... e ricostruendo il
proprio mondo interiore disgregato e in pericolo, il soggetto supera il
cordoglio, riacquista il senso della sicurezza e perviene a un'autentica
armonia e a una vera pace" (Klein, 1940, p. 354).
Munch non è giunto fino al limite di ricostruire il proprio mondo
interno pervenendo ad "un'autentica armonia e a una vera
pace", ma, grazie ad un'esperienza infantile precedente ai traumi
luttuosi che lo hanno indelebilmente segnato, deve aver trovato
un'esperienza familiare dove lo spazio della creatività ha potuto
svilupparsi sufficientemente, senza essere annientato dall'esperienza
traumatica. Questa creatività, tratta forse da una coppia genitoriale
che, nei cinque anni dopo la nascita di Edvard, ha avuto altri tre
figli, nonostante la malattia della madre, si è sviluppata nell'artista
permettendogli di "mettere in contatto con il mondo esterno le ...
verità interiori, scavalcando d'un balzo sia le prigioni psichiche
della follia sia le espressioni compiacenti di un adattamento 'come
se'" (Conforto, 1997, p 82), senza così dover mai rinunciare alla
sua originalità espressiva.
Alcune considerazioni sui destini del "traumatico".
La storia dell'infanzia di Munch potrebbe far immaginare uno sviluppo
disastroso, allo sbocco in una vera e propria follia, quella che in
effetti più volte egli ha toccato e contro la quale ha dovuto lottare
per tutta la vita. Quell'esperienza che ha portato d'altronde alla
follia una sorella, alla morte di altri due fratelli, ma in cui lui ha
trovato sufficiente sostanza perchè dal trauma potesse essere
recuperata una capacità di crescita della mente in qualche modo
creativa.
Secondo la concezione psicoanalitica più attuale, che insistentemente
torna a riflettere sul significato del "traumatico", il trauma
"si genera non tanto per l'evento in sè, quanto per la sua
inelaborabilità" (Giaconia e Racalbuto, 1997) e genera, sempre in
accordo con questi autori, dei fantasmi che "esprimono le tracce
mnestiche grezze, cioè tracce di esperienza slegate da un contesto
rappresentativo linguistico" (ibid., p. 542).
L'inelaborabilità dell'esperienza si lega ad una insufficienza relativa
dell'apparato per pensare i pensieri, ovvero ad una carenza di rèverie
dell'oggetto primario. Può quindi essere compresa in una concezione
della mente che consideri tanto l'intrapsichico che l'interpsichico.
Nell'esperienza del bambino è naturale che certe esperienze richiedano
la presenza della mente della madre per poter essere transitate. In
questo senso la solitudine in cui si può trovare il bambino, per
un'assenza fisica o mentale della madre, diviene elemento traumatico in
funzione della mancanza di un'apparato per lui vitale perchè la sua
mente non venga allagata o disintegrata da un contenuto inassimilabile.
Perchè il bambino possa giungere ad una introiezione stabile di una
funzione di pensiero, deve essere in grado di riconoscere "il
valore della capacità di pensare in quanto strumento idoneo ad
attenuare la frustrazione presente tutte le volte in cui predomina il
principio di realtà" (Bion, 1962b, p. 74). Questo valore viene
trasmesso attraverso il legame affettivo nella misura in cui la
"madre" è convinta di questa idoneità, così come noi
cerchiamo di trasmetterlo ai nostri pazienti, al di là del contenuto
specifico dell'interpretazione. E' la passione del "pensare",
in senso bioniano, in quanto ricerca della "verità su se
stessi" (Grinberg, 1979) che viene trasmessa più profondamente.
Il lutto legato alla perdita della madre, rappresenta, nell'età in
cui Munch l'ha patito, un'esperienza che si pone ai limiti della
possibilità di concepire una elaborazione per una mente ancora così
bisognosa di un supporto. Sarebbe proprio della madre, della sua
capacità di consolare e dare conforto che il bambino, di fronte ad un
carico di emozioni così grande, avrebbe bisogno; ma è proprio questa
che viene a mancare. La possibilità di avere dentro di sè un oggetto
interno materno sufficientemente solido appare, in un'età così
precoce, e con le vicende familiari specifiche di Munch, profondamente
problematica. L'ambiente familiare in questo momento viene rappresentato
da Munch come completamente assorbito dal lutto, venendo così a
interdire la possibilità di un reperimento di un oggetto materno
sostitutivo, capace di ricevere la comunicazione di angoscia del bambino
e di contenerla. Questo ambiente così chiuso su di sè e sul proprio
dolore viene a configurare un ambiente "madre-morta"
nell'accezione di Green: l'evento trasforma "l'oggetto vivente,
sorgente della vitalità del bambino, in una figura lontana, atona,
quasi inanimata" (1980, p. 265). Inoltre il lutto appare
inelaborabile, e quindi la situazione si pone come psichicamente
traumatica, in funzione della "conferma" che la morte reale
della madre viene ad avere in ordine alle fantasie distruttive del
bambino verso il corpo materno, e la sua relazione col padre (Klein,
1935, 1940). La figura paterna in particolare, durante l'infanzia e
l'adolescenza di Edvard, con tutta la sua patologia legata la tema della
colpa, e della propria insufficienza, non sembra avere la possibilità
di accollarsi il peso del lutto e del distacco. Forse il piccolo Munch
avrebbe potuto pretendere qui di ritrovare una figura capace anche di
accollarsi il carico di accuse, della delusione della credenza infantile
nell'onnipotenza del genitore, catalizzando ed elaborando l'odio che la
separazione in ogni caso viene a creare. Perché il bambino possa vivere
liberamente e elaborare il proprio sadismo verso le figure genitoriali,
è necessario che queste non vengano realmente distrutte, sopravvivano
agli attacchi; il legame dei genitori che si rivela fecondo, come nel
caso dei genitori di Munch, produce tanta gelosia, per la nascita di
tutti i fratelli, ma anche tanta fiducia che questi attacchi non
sterilizzino la coppia. Ma dopo la morte della madre la vitalità della
relazione genitoriale si perde, e Munch si ritrova ad avere a che fare
con una madre morta e un padre distrutto.
La morte reale della madre si può così sovrapporre a momenti in cui
per il piccolo Edvard la madre era come morta in quanto assorbita dalla
nascita dei tre fratelli. Possiamo anche pensare a quanta depressione
deve esserci stata in questa donna, malata di tubercolosi, al pensiero
di dover così presto lasciare tutti i suoi figli. Il legame fecondo tra
i genitori è strutturante nei confronti della mente del bambino, in
funzione della presenza reale del padre fra il bambino e la madre che
permette quella separazione che distingue le identità e determina la
creazione di quello spazio di vuoto e di assenza necessario perchè si
sviluppi il pensiero e la funzione simbolica (v. anche Di Chiara e
coll., 1985), e che determina quella "perdita metaforica" di
cui ci parla Green (1980). Il padre che, peraltro, attribuendosi la
"colpa" della morte della madre viene a configurare questo
elemento di separazione nei termini di un oggetto persecutorio vissuto
in modo paranoide. Vissuto questo che accompagnerà per tutta la vita
Munch, impedendogli di vivere le situazioni di competizione maschile nei
confronti della donna in modo "fisiologico". Nel momento in
cui questa perdita si pone non più come metaforica ma reale, l'oggetto
verso cui indirizzare il proprio sforzo introiettivo si configura come
una assenza persecutoria, in quanto ancora carica della colpa del
soggetto da un lato, e che inoltre porta via con sè le parti del sè
vitale identificate in esso. Il bambino di fronte alla perdita della
madre, per mantenere con essa una qualche forma di relazione, tende ad
attribuirsi la responsabilità degli eventi, la morte o la malattia. Le
motivazioni per cui la madre si ritira dal rapporto sono per il bambino
incomprensibili: si viene cioè a configurare quella "perdita di
senso" di cui parla Green. Per il bambino la scomparsa della madre
viene tradotta in una colpa, "legata alla sua maniera di essere,
piuttosto che a qualche desiderio proibito; di fatto gli viene proibito
di essere" (Green, 1980, p.277). Il bisogno dell'oggetto determina
così una situazione paradossale in quanto per ristabilire l'unione con
l'oggetto perduto si può ricorrere non ad una autentica riparazione,
che comporterebbe la presenza di un oggetto e un mondo interni già
sufficientemente sviluppati, ma ad un'identificazione mimetica
"allo scopo, visto che non è possibile possedere l'oggetto, di
continuare ad averlo, diventando non solo come l'oggetto ma l'oggetto
stesso. Questa identificazione, condizione della rinuncia all'oggetto e
della sua contemporanea conservazione secondo una modalità cannibalica,
è fin da subito inconscia" (p. 276). Il centro della mente del
soggetto è così occupato dalla "madre morta".
Ancora Green, in questo splendido saggio, nota come il primo
movimento appariscente di questo dramma sia di natura preconscia, e
cioè il disinvestimento dell'oggetto. Nell'opera di Munch questo
disinvestimento può essere reperito nella caratteristica che possiamo
ritrovare nel dipinto La madre morta e la bambina, come osservato sopra,
della attribuzione di tutto il carico emotivo della scena alla sorella
Sophie. Il primo tempo del trauma, secondo la dizione dei Baranger e Mom
(1987), resta inscritto nella mente di Edvard: è "tenuto a
mente". A proposito Bleger osserva: "Può darsi che il 'tenere
a mente' sia un'equazione simbolica, e che invece il pensare sia già
un'operazione in cui si utilizzano dei simboli. Pertanto, l'equazione
simbolica non è una confusione tra il simbolo e ciò che viene
simbolizzato, ma l'interiorizzazione di un nucleo sincretico nel quale
coesistono ancora l'oggetto e la sua rappresentazione astratta
(mentale), senza che siano tuttavia completamente discriminati. Il
'tenere a mente' è, geneticamente, anteriore al pensiero e non
discrimina tra parola e pensiero" (1967, p. 249). La lezione
bioniana permette di superare certi punti di questa concezione, e
sicuramente un "engramma mnestico" non può essere considerato
un pensiero con un pensatore. Il ricordo deve trovare il proprio senso
nel suo collocarsi in una prospettiva storica dello sviluppo del Sè.
"Intorno all'evento traumatico si organizza così nella storia del
soggetto un'area astorica, fuori dal tempo e fuori dal conflitto.
Qualcosa su cui non è mai stato possibile 'chiudere un occhio', su cui
gli occhi sono rimasti 'sbarrati'" (Barale, 1996, p.445); sbarrati
come gli occhi della sorella, nel dipinto sopra ricordato, fissati nel
ricordo come in uno specchio, che rimanda la propria esperienza ma
collocandola in un altrove in funzione della sua non tollerabilità.
La scena della morte della madre e il suo configurarsi come una scena
vista allo specchio riporta ad una fondamentale funzione materna che si
interrompe drammaticamente lasciando il bambino solo con la sua angoscia
impensabile: esattamente quella che Winnicott descrive così
efficacemente e poeticamente nel capitolo di Gioco e realtà su "La
funzione di specchio della madre". "Che cosa vede il lattante
quando guarda il viso della madre? Secondo me di solito ciò che il
lattante vede è se stesso. In altre parole la madre guarda il bambino e
ciò che essa appare è in rapporto con ciò che essa scorge"
(1971, p.191). Ma cosa succede se la madre, e più in generale
l'ambiente materno, non possono più guardare? I bambini, dice
Winnicott, "guardano e non si vedono". L'ambiente così
funziona veramente solo da specchio, che rimanda al mittente,
immodificata, l'immagine che gli viene proposta. E qui Munch guarda e
non si vede, può vedere la sorella e la scena retrostante, ma lui non
si vede. Il volto di Sophie viene così a rappresentare il proprio volto
non visto dalla madre. La scena e le emozioni correlate restano impresse
nella sua mente come in una pellicola fotografica non sviluppata, allo
stato virtuale, senza poter transitare nella mente adulta che le possa
"sviluppare". L'occhio sbarrato registra la scena che resta in
un qualche luogo della mente conservato con le caratteristiche di
un'allucinazione. Bion ci ha insegnato a considerare le allucinazioni
come evacuazioni all'esterno di contenuti non pensabili e contenibili
nella mente, attraverso un'inversione della funzione degli organi di
senso. Questi ricordi sembrano conservarsi con tutte le loro
caratteristiche di non-pensabilità e di non-contenibilità esattamente
con le caratteristiche delle allucinazioni, ma all'interno della mente.
Il venir meno della funzione di rèverie materna fa sì che le
"tracce mnestiche grezze slegate da un contesto rappresentativo
linguistico" (Giaconia e Racalbuto, 1997) debbano attendere delle
nuove situazioni in cui l'originaria rèverie materna possa essere
riparata, ovvero il contenuto traumatico possa essere allucinato
nuovamente all'esterno, in una situazione in cui vi sia un oggetto che
possa dare a questo movimento un significato creativo. E' quello che
avviene quando i pazienti hanno "allucinazioni" nel
trattamento (v. Bion, 1958), è quello che è avvenuto in Munch, e
nell'artista in generale, quando nel medium artistico trova la
possibilità di elaborare, almeno parzialmente, la propria sofferenza
mentale. Il fatto che questa elaborazione sia parziale non dipende tanto
dal fatto che l'artista non svolge un trattamento analitico, quanto dal
fatto che l'oggetto sia riparabile. Come osserva Green (1990, p.298-299)
non si può ripristinare una funzione di rèverie che non sia stata
inscritta nella mente del bambino, così non si può riparare un
oggetto, o dare all'oggetto una funzione di rèverie, se questi non
contiene in sè la possibilità di averla. Così il paziente può
evocare le sue figure originarie, ma se in queste non è rintracciabile
una qualche funzione positiva, non la si può nemmeno creare a
posteriori. In questo senso perchè la creatività possa svilupparsi è
necessario che l'oggetto "si lasci riparare".
Nell'esperienza di Munch questo percorso è stato in parte possibile,
evidentemente in quanto non aveva a che fare solo con una madre
"morta", ma anche con una madre "viva". Le tracce
mnestiche grezze hanno trovato all'interno della sua mente la
possibilità di essere trattenute non solo come in una cripta, nel senso
in cui ne parlano Abraham e Torok (1987), ovvero come un lutto non
elaborabile, ma anche come reliquia, oggetto virtuale e labile, che deve
essere recuperato attraverso il lavoro del lutto. Come una pellicola
fotografica impressionata non deve prender luce prima che il processo di
sviluppo la abbia fissata in un'immagine utilizzabile per essere
riprodotta, così la reliquia deve essere conservata al riparo da agenti
che potrebbero distruggerla definitivamente, senza possibilità di
recupero. Come osserva Fèdida: "La relique ... rappellerait que le
deuil, avant de se concevoir en un travail, protège l'endeuillè contre
sa propre destruction ... l'endeuillè n'a pas encore perdu son
partenaire" (1978, p. 70). E' proprio sulla base di questa presenza
viva che la creatività, il pensiero, possono svilupparsi attraverso il
"lavoro del negativo" (Green, 1993), in cui il distacco dalla
madre non generi quel vuoto incolmabile e infinito nel quale il Sè
sprofonda, ma uno spazio di assenza "metaforica" (Green, 1980;
Di Chiara, 1985) che stimola la funzione della memoria, della
temporalizzazione e della simbolizzazione, ovvero gli elementi della
creatività. E' in questo contesto, alla presenza dell'oggetto
conservato vivo e con funzione di rèverie, che le tracce mnestiche
grezze possono essere concepite come conosciuto non pensato, che in
presenza dell'oggetto trasformativo possono essere integrate nel
patrimonio del Sè (Bollas, 1989). La memoria così può avere la sua
funzione strutturante nella crescita del Sè in quanto "la
ripetizione ... possa essere pensata nei termini di un ricorso a
categorie affettive già utilizzate" (Modell, 1990, p.95), che sono
categorie che hanno a che fare con le modalità di cura della madre nei
confronti del bambino, quindi categorie relazionali. In altri termini si
può parlare di memoria allorchè vi è pensiero, in caso contrario si
potrebbe parlare di "memorie come allucinazioni ". Nel
recupero graduale dell'oggetto trasformativo, vivo e capace di rèverie,
si può quindi passare "dall'allucinazione al sogno" (Ferro,
1988, 1992), in un percorso che permette di rendere tollerabile un
dolore mentale fino a quel momento non contenibile. Come osserva Ferro:
"l'allucinazione ... mi sembra recuperabile al pensiero, attraverso
un percorso intersoggettivo, basato non tanto su una decifrazione
interpretativa, quanto su operazioni di rèverie/trasformazione: queste
ultime aventi di fronte le vere allucinazioni, per oggetto non il
contenuto di queste, ma il panico, il terrore, la confusione a esse
correlati" (1992, p. 124). La produzione artistica di Munch si pone
programmaticamente di fronte al panico, al terrore, alla confusione, non
simbolicamente attraverso un processo di occultamento da interpretare,
ma tende a fare oggetto della sua rèverie il contenuto emozionale
autentico del ricordo-allucinazione. Una intersoggettività si è quindi
potuta costruire all'interno della sua mente, attraverso degli oggetti
primari che hanno mantenuta viva la relazione con la "madre":
la zia, la sorella Inger, e chissà quali altri.
Ciò che è stato possibile nella vita di Munch non sembra possibile
nella storia di persone che hanno avuto vicende traumatiche simili, ma
che divengono pazienti molto gravi. Questo diverso destino sembra in
molti casi determinato dalla presenza svuotante della "madre
morta", buco mentale che priva delle funzioni basali e minimali
affinchè l'esperienza della separazione e dell'individuazione
dall'oggetto primario divenga tollerabile. In quei casi in cui sembra
veramente di trovarsi di fronte ad una situazione in cui l'oggetto
materno non risulta riparabile, in quanto non ha mai sviluppato delle
funzioni materne differenziate, capaci di contenere l'emozione, essa
pertanto deve essere evacuata in uno spazio claustrofobico, il corpo, o
agorafobico, legato alla sensazione di smembrarsi nel vuoto infinito, in
ogni caso spazi lontani in maniera assoluta dalla pensabilità. Come
ricorda Borgogno, il trauma "relega la relazionalità e la
soggettività non nominate, non accolte e violate nel corpo... dove la
paralisi della libido e della vitalità, per così dire spaventate e
traumatizzate, vengono ad esprimere l'impotenza, il terrore, l'orrore e
il dolore..." (1997, p. 281); qui si parla delle nevrosi di guerra
studiate da Ferenczi, una situazione che comporta una vulnerabilità,
una mortificazione che possono a buon titolo essere riportate
regressivamente alla condizione di vulnerabilità del bambino. Queste
situazioni così gravemente mortificanti, come anche quelle di cui ha
parlato recentemente Ruth Barnett (1997), di separazioni e orrore
innominabile, riguardante i bambini ebrei profughi in Inghilterra e
drammaticamente separati dalle famiglie destinate all'eccidio, non
abbisognano purtroppo solo di condizioni storiche particolari e,
speriamo, irripetibili, ma possono riprodursi nella vita dei singoli,
quando l'assenza di amore per la vita di certe condizioni di follia, si
riversa anche sui figli. In quelle situazioni cliniche caratterizzate da
disturbi del pensiero, quelle che Munch ha "schivato"
attraverso la sua arte, l'esperienza mentale non può passare
dall'allucinazione al sogno, trasformare gli elementi b attraverso una
funzione a in oggetti pensabili, in primo luogo sognabili; questi
restano come elementi indigeribili, in uno stato di scissione in cui
l'esperienza viene registrata "da una parte del soggetto che 'sa e
vede tutto' ma non sente; e un'altra parte che 'soffre' ma 'non capisce'
ed è 'impotente' e 'inerme' nel suo muto dolore", come dice ancora
Borgogno parafrasando l'eccezionale Ferenczi del Diario clinico.
"Il ricordo è possibile soltanto se l'Io, sufficientemente
consolidato (integrato o divenuto tale), resiste alle influenze esterne,
ne subisce l'effetto che però non determina spaccature" (Ferenczi,
1932, p. 280); ovvero: per poter ricordare, inserire il ricordo in una
trama temporale e narrativa, cioè storica, è necessario un mondo
interno in cui gli oggetti che sostengono e permettono la funzione del
pensiero, siano introiettati e conservati in uno spazio vivo e
accessibile della mente (v. anche Ferro, 1996). Questa condizione
interna credo che sia stata la chiave di volta della vita di Munch,
quella che gli ha permesso attraverso lo schermo delle sue tele di non
essere annientato nel vuoto della follia, in una tensione costante di
lotta. Il dolore e l'angoscia che Munch esprime nella sua opera non
hanno mai il carattere di una riflessione compiaciuta sulla propria
miseria, un estetizzante rimestarsi in una condizione esistenziale
ascetica. "L'ascesi deve consumare, distruggere, evacuare tutti i
pensieri, tutti i desideri della creatura...L'annientamento ascetico è
così radicale che si è potuto confonderlo con l'annientamento
malinconico, senza vedere che tra questi due annullamenti la differenza
è quella che separa la disperazione dalla speranza" (Starobinski,
1994). In Munch il dolore mentale è qualcosa che rappresenta sempre il
frutto di un'esperienza, sofferta fino all'estremo, ma sempre tesa al
legame e alla speranza di una sua ricostituzione.
Nota
Le illustrazioni dei dipinti di Munch sono presenti nei volumi
indicati in bibliografia, e inoltre in diversi siti di internet:
www.museumsnett.no/nasjonalgalleriet
www.artchive.com
www.artonline.it
www.postershop.com
sunsite.sut.ac.jp
sunsite.unc.edu
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16128 Genova
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