articolo su Repubblica
Articolo stampato sul giornale Repubblica-Lavoro il giorno 24 – 6 - 2001
TERRAMARE
“Quanto più l’uso e la forma suggeriscono la mano che ha costruito l’oggetto
tanto più l’oggetto si caratterizza come oggetto dell’uomo” ha detto Claudio
Costa riferendosi al suo lavoro nell’ambito del gruppo Arte Antropologica -
o Arte delle Tracce teorizzata dal critico tedesco Gunter Metken -
non dimenticando di sottolineare che: ”… la ricezione di tale rapporto
originario è tanto più immediata quanto più l’oggetto ha conservato il
proprio statuto antropologico”.
Una dignitosa mostra a Castell’Arquato (Piacenza) intitolata “Terramare”, a
cura di Giusi Petruzzelli, ci offre la ghiotta occasione di riflettere sull’
opera di alcuni artisti-cardine di questo movimento che negli anni ’70 si è
esteso in Europa e in America caratterizzandosi con ricerche fortemente
innovative.
Claudio Costa, i coniugi Anna e Patrick Poirier e Antonio Paradiso, ciascuno
con le proprie peculiarità, ci indicano qui percorsi personalissimi e al
contempo similari nella tipologia dello sguardo: uno sguardo retrostante
capace di permettere full immersion nel lontano passato, in quel mondo
perduto che va assolutamente ricostruito con l’aiuto d’ipotetiche “tracce” o
“indizi” proprio come avviene per i casi polizieschi.
Accompagnano questo cammino alcuni artisti affini quali Giulio De Mitri,
Guglielmo Longobardo e Theodoros.
Se Terramare sta a indicare abbracci consanguinei tra artisti che abitano il
mediterraneo ma che attivano rapporti con l’entroterra, il genovese Costa ne
è paradigma col suo mondo contadino espresso come testimonianza (a futura
memoria) di una cultura in estinzione. La sua presenza è qui evocata dal
video “Arcimboldo Evocato”(’94) in cui il suo corpo nudo, cosparso di fango
e culturalizzato con ipotetici innesti di oggetti contadini (insieme a
elementi naturali), sembra ricordare: Pulvis es et in pulverem reverteris.
Nei coniugi Poirier tutto concorre a ricostruire un universo di classica
memoria dove la natura è sottesa ad armoniche e aprioristiche progettazioni
e il mito torna a vivere attraverso frammenti arcaici. Appunti, annotazioni,
diari giornalieri, collage oggettuali, disegni, abbozzi, inscenano
fantastici percorsi che esulano da strutture convenzionali.
Con Antonio Paradiso l’opera esiste in base all’uso e alla funzione dell’
oggetto. Infatti la sua arcaica oggettualità si misura con la manualità del
lavoro e con estreme libertà creative: qui attraverso una svettante torre di
ferro il cielo entra a far parte del lavoro sforando silhouettes di uccelli
in volo. Nasce un felice connubio tra natura e cultura.
Il più giovane Giulio De Mitri, già attivo nei primi anni ’70 come pittore,
collagista, performer, antropologo, analizza con coscienza e rigore
progettuale l’uso e la funzione dei materiali cercando di cogliere la realtà
del mondo nella sua intima, alchemica, quintessenza.
Guglielmo Longobardo struttura una pittura entro prismi spaziali capaci di
germinare forme organiche rappresentative di fenomeni che ci circondano:
segni e forme si trasmutano in energia.
Il greco Theodoros denuncia la classicità delle origini nell’armonia delle
proporzioni e nell’evocazione di miti come la colonna, la coppa, la
piramide, espressi secondo dosati rapporti tra leggerezza (cristallo) e
pesantezza (marmo, acciaio, terra).
Miriam Cristaldi



L’immateriale umanità di Harald Szeemann
I giovani della 49° Biennale
Imponente, calibratissima, immateriale, luminosa, appare questa 49° edizione della Biennale veneziana di Harald Szeemann, targata “Platea dell’umanità” come simbolo, zoccolo duro di un’ideale base del mondo (Piero Manzoni insegna) su cui poggiano sculture d’aria, spazi mentali, immagini tecnotroniche, quadri brulicanti di pixell e microprocessori, still life e fotografie con reportage dall’universo intero, performance sonore, digitali e dal vivo, luoghi d’ombra (spazi per proiezioni) incisi da icone di luce. Scomparsa la pittura canonica (con qualche eccezione come l’intenso lavoro di Gherard Richter), è qui predominante la tecnologia come protesi naturale del pennello, come espressione di una realtà con cui quotidianamente facciamo i conti per un welfare realizzato, mentre forti significati simbolici supportano l’intera operazione d’arte visiva.
Esemplare in questo senso è il lavoro sacrale e al contempo globalizzante del russo Sergei Shutov in cui fedeli in preghiera, tutti ugualmente avvolti da neri panneggi, pregano con lingue e religioni diverse. All’apparenza arcaica e di carattere antropologico, in realtà questa magistrale installazione nasconde (sotto i panneggi) sofisticatissime attrezzature elettroniche robotizzate, capaci di simulare gli oranti. Quasi un intenso abbraccio tra natura e artificio, tra contemporaneo e primitivito, tra umano e post umano, come se affacciati sull’orlo di una abissale mutazione computerizzata ci si volesse aggrappare alle salde e remote radici della storia.
E allora il curatore parte da Beuys, da questo gigante della contemporaneità che della natura ha fatto il suo parametro costante e dalla fisicità della pietra di “Olivestones” o di quelle di basalto della “Fine del xx° secolo”, per giungere alla nuova, mobile, vibratile materia elettronica che molti artisti invitati elaborano, ora con sguardo scanzonato, ora più dipendente, usandola con facilità come linguaggio paradigmatico del terzo millennio.
Da qui nascerà il nuovo, probabilmente quando la distanza dal mezzo avrà raggiunto la giusta misura.
Allo stesso tempo Szeemann punta ad un’estensione sia spaziale che linguistica della kermesse, allargandola per la prima volta al cinema e alla poesia, così da risultare fruibile più per eccesso che per difetto.
Nasce allora un tipo di fruizione nuova, basata non più sulla lettura di un libro o sul sedersi in una sala cinematografica, ma camminando e interagendo con parole e immagini di breve durata, qui realizzate attraverso serrati incontri tra cineasti, artisti e poeti.
D’altra parte, la forte umanità di Szeemann, la sua formazione culturale non priva di supporti letterari e filosofici spazia qui a tutti i livelli, svincolandosi da regole o imposizioni. Questa sua libertà di testa trasuda dalle opere selezionate per quest’ultima edizione della Biennale dove “ l’attitudine e l’interesse per il comportamento umano… ampliano i confini che tendono alla creazione dell’opera totale” e dove la realtà trova efficaci e tragiche testimonianze di forte impatto visivo, se non proprio di denuncia alle violenze che insanguinano la scena del mondo.
Una libertà mentale, la sua, riscontrabile soprattutto nei lavori dei giovani artisti presenti, che non si rifanno più a miti o a ideologie storiche, ma guardano a se stessi rivolgendosi al proprio vissuto, alla dimensione privata del proprio passato per giungere poi a narrazioni più universali di intensa carica drammatica.
I disagi, le sofferenze fisiche e psicologiche, le guerre etniche, i soprusi, l’evoluzione scientifica, le conquiste delle biotecnologie, le mutazioni genetiche, sono gli argomenti che possono condurre i giovani artisti a severe riflessioni o a fantastiche e inesplorate fantasie non prive di angosce nel perseguire il nostro trasmutante destino di alieni umanoidi.
Ne sono testimonianza le numerose installazioni e video di giovani artisti come quella dell’inglese Giorgina Starr dove piccoli bimbi-coniglietto sparano uccidendo modelle che sfilano in passerella per rievocare la trama d’un drammatico film visto dall’autrice anni fa, o il video di Xu Zhen in cui in quattro minuti di forte tensione una nuda schiena anonima cambia colore e si torce sotto i colpi di sferzate invisibili o ancora quello di Regina Galindo ove il corpo femminile nudo diventa supporto e oggetto-news con implicazioni sociologiche, psicologiche ed estetiche di denuncia sociale del suo paese. Ma anche nel tragico video della giovane Chris Cunningam, i corpi innamorati e al contempo in lotta di un uomo e una donna volteggiano nello spazio sputando sangue dalla bocca, tra luci abbaglianti e nebbie cosmiche, esprimendo così una connaturata disposizione dell’umanità alla violenza fisica e psicologica; ma più ancora si ravvisa l’apprensione per il futuro tecnologico attraverso il video amaro e poetico di due computer antropomorfi che inscenano tra loro una straziante danza rituale d’amore. Così come avviene anche nell’opera di Ene-Liis secondo cui il soggetto umano può essere trattato come una “macchia sporca” da eliminare (in qualità di “rifugiata culturale”) inscenando un suicidio con il cappio al collo e spingendo via lo sgabello sotto ai piedi. Con l’artista norvegese Heli Rekula e la sua opera fotografica “American star”, una fanciulla diventa paradigma dell’innocenza violata e il suo mostrare le stigmate alle mani diventa manifesto di anoressiche sofferenze corporali.
Con Maurizio Cattelan, il jolly di tutte le biennali di questi tempi, l’ipotesi di un’oscura minaccia si materializza nella figura del Papa caduto a terra, per colpa d’un meteorite piovuto dal cielo. Egli giace su di un tappeto rosso tra pericolosi contenitori di gasolio appartenenti allo spazio espositivo. Impressionante risulta invece il lavoro del giovane inglese Ron Mueck che, con pratica ventennale di lavoro nel campo del modellismo, lavora il silicone crudo trasformandolo in pelle umana simulata. Un iper realismo conturbante sia nella resa di piccoli lavori (un neonato nudo) come nel gigantesco “Boy” installato alle corderie composto da un fanciullo accovacciato che tocca quasi il soffitto con il capo: un mostro che ci sovrasta e al contempo paurosamente vero nella simulazione sintetica di carne umana, non priva di peli e capelli. Magnus Wollin presenta un video popolato da storpi colti dal panico nel tentativo di sfuggire a un incendio; ogni qualvolta uno di loro muore si odono forti applausi: Questo video realizzato al computer, simile ai videogiochi, vuole essere una testimonianza cruda di come il corpo deforme è inteso dalla società occidentale odierna, tutta basata sull’edonismo e sulla prestanza fisica; il pullulare di palestre insegna.
Particolarmente efficace e rappresentativo della condizione d’ immaterialità, o dell’iconografia virtuale, anima di quest’esposizione, è l’opera dell’italiana Alessandra Tesi costituita da abbaglianti “quadri di luce”, visibili anche alla luce del giorno e realizzati con luminose video-proiezioni su tela. L’acqua, suo elemento onnipresente, appare qui in tutta la sua fisicità di materia mobile e riflettente; “una nuova strada da seguire” avverte Szeemann nella sua presentazione a catalogo. Anche l’italiana Eva Marisaldi si misura con l’etereo: in questo caso col candido gesso di microformelle su cui si stagliano delicatissimi rilievi figurali.
Altre indagini riguardano le funzioni dello spazio come sintomi di condizione mutante dell’uomo, sovente espressi in toni apocalittici. Loris Cecchini espone una cella di prigione (fatta di gomma) che si dilata, quasi a denunciare la condizione di sonno mortale in cui viviamo, avvolti come siamo in un’ovattata solitudine che è pari a quella del condannato. Botto & Bruno decontestualizzano lo spazio esterno a loro attribuito trasformandolo (con normale carta da parati) in un paesaggio altro, così come il giovane tedesco Gregor Schneider fa interagire il luogo con l’individuo in modo che gli spazi possano ruotare o che alcuni soffitti si possano alzare o abbassare per sdoppiarne le misure (una coda interminabile caratterizza il suo padiglione). Con Vanessa Beecroft, la gigantografia della “sorella melanconica” mostra una vivace lolita in posa statuaria simile a una Venere de Tiziano, ma cangiante nelle cromie dei dodici pannelli per simboleggiare l’interagire del tempo sulla nostra pelle. Anche Francesco Vezzosi denuncia l’effimera bellezza di volti famosi femminili rilevandoli con trucchi e lacrime straripanti di brillantini
Straordinaria e poetica la “Casa provvisoria “ di Eulalia Valdossera che, attraverso un video invasivo di tutto lo spazio circostante, proietta immagini di un arredo abitativo in cui gli oggetti “volano” continuamente così da rigenerare continue ipotesi ambientali.
Una Biennale, questa, generosamente pensata, forse con qualche eccedenza di materiale video installativo, ma incisiva e puntuale sulla frammentazione degli stili, sulla contaminazione e accelerazione dei linguaggi, oggi veicoli di trasmutazioni già in atto nella scienza e nella tecnologia.
Miriam Cristaldi
L’articolo è stato inviato alla rivista d’arte Terzoocchio per la pubblicazione.


Una classicissima Venere bronzea, a graAandezza naturale e sezionata in tre fasce verticali - leggermente sfasate tra loro – a cui sono state saldate sulla schiena quattro pale di elicottero, si è magicamente trasformata in una stupenda “Libellula”. Potere dell’arte.
Arman Hernandez (Nizza 1928), l’autore, che insieme a Dufrène, Hains, Villeglé e Rotella è fondatore del Nouveau Realisme - tendenza che si afferma in Francia nei primi anni sessanta come controaltare del Pop americano e inglese, teorizzata dal critico Pierre Restany – è attualmente presente a Genova con una eccezionale mostra – per il numero di opere, per la grandezza del formato e per la singolare importanza che riveste nell’arte contemporanea – nel doppio spazio galleristico di Telemarket, in via Roma 8 e 61r.
“Il soggetto delle mie mostre nasce da un’idea sulla classicità, ma le sculture esposte perdono la loro connotazione originaria, assumendo piuttosto quella contemporanea di “oggetto” tagliato e ricomposto o, a volte, assemblato con parti di strumenti musicali…”, mi spiega Arman in una intervista di qualche anno fa. In effetti, l’artista basa il suo lavoro su due momenti particolari: quello “distruttivo” quando è pervaso da una collera incontrollata che scatena sugli oggetti, spaccandoli (come certi strumenti musicali sezionati) metaforizzando il consumo smodato dei beni materiali, e quello “accumulativo” quando simboleggia l’acquisto irrefrenabile di prodotti non strettamente necessari attraverso la sua raccolta nevrotica di oggetti che, “assemblati o accumulati, sanno creare una nuova forma inventiva allontanata da quella originaria”.
Miriam Cristaldi
Articolo di cui una parte è stata pubblicata su Repubblica-Lavoro il 16, 6, 2001
FRANCESCO ARENA
Attraverso i linguaggi della fotografia (polaroid e still-life), del video e dell’installazione, Francesco Arena elabora (dall’86) complesse tematiche riferite al corpo umano sollevando aspetti inquietanti imposti dall’universo tecnologico.
In anticipo sui tempi, l’artista genovese conduce un’attenta analisi su questo tema considerandolo nei suoi molteplici aspetti: simbolici e realistici.
Corpo come oggetto e luogo di violenza, come frammento di un unico, grande, alfabeto relativo alla totalità della persona o ancora come espressione di dualistici concetti poiché, spiega bene Paul Virilio: ”…alla fine di un mondo che vede il nascere di quello nuovo, col pericolo di un’estetica siderale della sparizione (non più dell’apparenza), l’arte per tentare di esistere può solo fare riferimento al corpo, l’ultima cosa che resiste…”.
In particolare, nelle polaroid di Arena si possono riscontrare “calde” armonie di lucenti carnalità e al contempo asprezze corporali provocate dalla presenza offensiva di chiodi, lamette e deturpazioni fisiche.
Dai morbidi fremiti di un dolce impressionismo si passa quindi a violenze da body art, con chiari riferimenti alle odierne sofferenze fisiche dei piercing o delle patologie bulimico-anoressiche. Questo perché, tra i vari motivi, la centralità dell’uomo è oggi risucchiata dall’omologazione del villaggio globale.
Una globalizzante condizione che ha i suoi miti collettivi in cui industrie comunicazionali costruiscono modelli di comportamento sempre più lontani dal reale.
Le immagini scattate da Francesco Arena ( studio Andrea Ciani, piazza scuole Pie 7, fino al 20 maggio) sono volutamente sfocate ed isolate in spazi vuoti in modo da eliminare il contesto ambientale affinché appaiano inespressive ed allontanate come in un asettico “fuori-luogo”. In realtà si ergono a simbolo di mimiche processuali alla ricerca di possibili e complesse identità.
Nascono allora frammenti di corpi maschili e femminili colti nella loro ambiguità, nell’atto cioè di esprimere concetti e atteggiamenti fra loro in collisione come se cercassero di visualizzare la propria parte mancante, l’altro diverso da sé, capace di denunciare un’allarmante condizione di estrema solitudine…
Miriam Cristaldi
Articolo pubblicato su Settimanale Curia di Genova N° 18, 8maggio 2001
Una pelle grumosa, viscida, traslucida, tendente al rosso, si organizza in svettanti forme fallocratiche o in morbide cavità, quasi a richiamare la funzione originaria di una possibile, ideale, germinazione capace di prolificare infiniti microcorpi. Sono questi, i “Virus”, strutture plastiche rivestite con gocce di silicone (mescolate al rosso carminio) che abitano l’ambiente espositivo della galleria attraverso un’ossessiva presenza occupante la superficie piana del pavimento.
Quasi una folla di giocose e coloratissime sagome in mastice (di diverse altezze), vibratili e gommose, tenere al tatto, ma, allo stesso tempo, portatrici di pericolose insidie: aghi da siringa, punte, lame sono conficcati in quest’arrendevole materia creando nell’osservatore la doppia sensazione di giocosa ilarità e di spinosa sofferenza.
Alla neonata galleria Art Progress, via Caffaro 20r, tel 01024616171, è possibile visitare la mostra “Virus” (fino a tutto luglio) realizzata da Vittorio Valente, artista che, insieme ai genovesi Francesco Arena e Antonella Spalluto, ha fatto parte dal ’90 al ’92 del gruppo “Arte come Evocazione” la cui caratteristica era quella di creare installazioni al di fuori di spazi canonici per l’arte.
La sua ricerca sul silicone, usato come derma artificiale che riveste strutture precostituite, è diventata linguaggio significante autonomo e personalissimo. Questa materia sintetica e duttile, all’apparenza inoffensiva, si fa metafora della condizione umana odierna, cioè di quelle trasmutazioni in atto create dalla biogenetica e dalle tecnologie computerizzate che pur nell’enfasi e nell’entusiasmo delle scoperte più avanzate non mancano di nascondere pericoli, dando così corpo ad allarmanti paure che da sempre accompagnano il difficile cammino dell’uomo.
Miriam Cristaldi
Articolo in parte pubblicato su Repubblica-Lavoro dell’11 agosto 2001

Il canto registrato d’un usignolo (a Castello della Pietra di Vobbia in Liguria) intrecciato alla registrazione canora d’un usignolo in Svezia è quanto si può ascoltare - attraverso due diffusori - nello spazio della galleria Pink Summer (via Lomellini 2, fino al 31 luglio) dov’è esposto il lavoro del giovane artista svedese Henrik Hàkansson (è stato invitato a precedenti biennali di Venezia e al Castello di Rivoli a Torino).
Con queste due tracce sonore l’osservatore può ricreare nella mente l’idea di una natura incontaminata, anzi di un iper-natura esaltata dall’amplificazione sonora che dà vita a una fiction di forte impatto evocativo.
La mostra intitolata “Nightingale, Love two Times” si compone anche di un’edizione fotografica in cui si evidenzia l’immagine di un bosco, idealmente ripresa dal punto di vista di un uccello in volo. In un altro spazio, a terra, sono posati migliaia di dischi con registrati i canti dei due usignoli: i presenti potranno appropriarsene per ascoltarli in qualunque altro luogo.
Nasce così, attraverso differenti linguaggi e più mezzi tecnologici, la rivisitazione di una natura in forma mediata (l’artista fa anche uso di sofisticate apparecchiature come la telecamera, proiezioni video, ecc.), strutturandola secondo modalità riferibili a ecosistemi a circuito chiuso, dove ogni particolare e mezzo tecnico è pensato per fornire precise “suggestioni” di vita – ben lontane dalla vita stessa - quasi spiandone le mosse da osservatori nascosti (il “Grande Fratello” docet).
Prende così avvio un’estetica mediale perfettamente in sintonia con l’attuale, innovativa e tecnologica biennale veneziana di Harald Szeemann.
Miriam Cristaldi
Pubblicato, in parte, su Repubblica-Lavoro nel luglio 2001