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Migliaia in piazza, Algeri città chiusa



Volevano raggiungere la capitale per contestare la repressione dello stato che da anni comprime i loro diritti, ma i dimostranti berberi hanno trovato una città chiusa a chiave. ll dispositivo di sicurezza intorno alle principali vie d’accesso di Algeri era davvero impressionante. Compagnie di gendarmi in tenuta antisommossa, centinaia di blindati ricolmi di celerini, veicoli muniti di cannoni di liquido urticante. Insomma tutto il classico armamentario per reprimere la guerriglia urbana. Lo stradone che collega la Cabilia alla capitale è stato adirittura sbarrato con trattori, postazioni di artiglieria leggera e agenti con unità cinofile. Sembrava di essere a Genova durante il vertice del G8, ma da anni l’Algeria è molto peggio di Genova e scene del genere sono all’ordine del giorno. I quindicimila manifestanti che hanno risposto all’appello del coordinamento dei villaggi della Cabilia, volevano raggiungere lo stadio olimpico 5 luglio, sede dell’inaugurazione del quindicesimo festival mondiale della gioventù. Un’occasione per rilanciare algli occhi dell’opinione internazionale la causa della minoranza berbera, colpita da una grave esclusione sociale che produce disoccupazione mentre sono migliaia le persone che non posseggono un tetto sotto cui abitare. A queste drammatiche condizioni si devono poi aggiungere i costanti abusi dei corpi di polizia, i quali non esitano a normalizzare il conflitto in Cabilia con il piombo e il manganello. Come ha affermato, in un intervista rilasciata al settimanale francese Le Nouvel Observateur un esponente del comitato che ha organizzato la manifestazione e che, per ovvi motivi, ha voluto conservare l’anonimato: «Non è normale che ci sia un festival folkloristico nel momento in cui il potere uccide i suoi figli, li emargina e li getta nella strada. Esiste una contraddizione lampante tra lo spirito del festival, orientato verso la fratellanza e la pace, e la reale situazione del paese. Da noi non c’è nessuna fratellanza e nessuna pace». La manifestazione di ieri è stata il terzo serrato faccia a faccia tra il potere e la comunità berbera dopo la marcia del 14 giugno, repressa brutalmente nel sangue dalle forze di polizia scientemente orchestrate dal ministro dell’interno Noureddine Yazid Zerhouni. Quel giorno ci furono sei vittime e più di cento feriti. Malgrado le ripetute provocazioni da parte delle autorità militari, i militanti berberi sono scesi in piazza con determinazione ma esibendo intenzioni tutt’altro che bellicose: «E’ una marcia pacifica, non siamo né assassini nécasseurs, vogliamo solo raggiungere la nostra capitale e portare un messaggio al nostro presidente» ha dichiarato un delegato del villaggio incaricato di negoziare con i gendarmi. Ma le imponenti misure di sicurezza, tra cui il sisitematico controllo dei tutte le automobili immatricolate in Cabilia, hanno contribuito a far salire la tensione. A Tidjelabine, una località situata a trenta chilometri dalla capitale, i gendarmi hanno disperso, a suon di candelotti lacrimogeni, un centinaio di giovani che tentavano di forzare simbolicamente i blocchi stradali dell’esercito. Altri dimostranti hanno dato vita a un sit-in di protesta al grido di «potere assassino» e «nessun perdono». Nei pressi di Naciria, 80 chilometri ad est di Algeri, ci sono stati degli scontri, che per fortuna non hanno provocato feriti gravi. Se i militanti per la libertà e i diritti della popolazione berbera hanno dato prova di grande intelligenza e sangue freddo per tutta la giornata, non accettando mai la militarizzazione dello scontro voluta dai vertici dell’esercito, i veri padroni del paese, l’Algeria resta comunque sull’orlo della guerra civile. «Viva l’Algeria senza generali» recitava uno striscione: una speranza che da ieri sembra ancora più lontana.

Daniele Zaccaria

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