CABILIA / LA RIVOLTA DEI BERBERI
La battaglia di Algeri.
Si oppongono al regime politico-militare.
Si battono per la democrazia e per il riconoscimento dell'identità.
E sfidano a viso aperto la minaccia dell'integralismo
di Dina Nascetti
Espresso del 06.07.2001
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Dicono che la montagna si è liberata delle catene,
ma io non ero là... cantava dal suo esilio parigino Matoub Lounes
nel 1988, in occasione delle sommosse che misero fine al potere del partito
unico. Tredici anni dopo i versi del cantautore cabilo (ucciso nel giugno
del '98, al suo rientro in Algeria, in un agguato in pieno delirio integralista),
sono diventati il verbo della protesta della gioventù cabila, da
oltre due mesi in rivolta.
Il 14 giugno scorso le montagne della Cabilia, per dirla con le parole
di Matoub, hanno riversato su Algeri un milione di manifestanti e altrettanto
faranno il 5 luglio prossimo per la seconda grande manifestazione nella
capitale. Lo spirito del cantante ribelle è con loro. Gli slogan
della protesta sono i più celebri refrain delle sue canzoni. Come
"Ulac smah ulach" (nessun perdono) è diventata la versione cabila
dell'inno nazionale algerino. Nessun perdono al potere politico corrotto
e repressivo e all'inquisizione teocratica degli integralisti islamici,
diceva Matoub. |
Insieme ai ritratti del cantautore c'è un'altra icona in cui i più
antichi abitanti dell'Algeria, appunto i berberi della Cabilia, si riconoscono.
È Kahina, la regina che nel 696, alla testa delle sue truppe, sconfisse
quelle arabe. Gli anziani, i giovani e le donne crescono nel suo culto.
Orgogliosi della loro cultura, da autentici algerini, i cabili sono sempre
stati nella storia strenui difensori contro gli invasori stranieri: romani,
bizantini, arabi, turchi e infine i francesi. Che solo 29 anni dopo il
loro sbarco nel paese sono riusciti a sottomettere questa indomita regione.
Fu proprio nella valle di Soumman in Cabilia che l'Fln (Fronte di Liberazione
Nazionale) tenne nel 1954 il suo primo congresso clandestino contro l'occupazione
francese che terminerà nel 1962.
All'immagine leggendaria di Kahina, mito vivente in tutte le memorie
berbere, i sei milioni di cabili si sono richiamati ogni volta che hanno
alzato la testa contro il potere di turno. Poi, negli ultimi tre anni,
è subentrato appunto Matoub. Così è stato il 21 aprile,
quando nel villaggio Beni Douala (dove è nato il cantante) l'esplosione
di rabbia dei giovani (dopo la morte sospetta di uno di loro in una gendarmeria)
si è propagata a macchia d'olio, fino alla stessa Algeri. La repressione
brutale della polizia ha causato più di 80 vittime, nella maggior
parte nemmeno ventenni. E non è un caso che "Il gendarme maledetto"
sia una delle canzoni di Matoub tra le più gettonate nei villaggi
e nelle città cabile.
Da sempre allergici all'arabizzione forzata del paese, di cui intravedevano
fin dai tempi della lotta al colonialismo francese il pericolo dell'"islamizzazione",
i berberi non hanno mai smesso di rivendicare il riconoscimento della propria
cultura e della propria lingua, il "tamazight", parlato fin dal V secolo
avanti Cristo. Riconoscimento concesso solo nel 1996 dalla nuova Costituzione
che accorda alla "berberità" lo stesso titolo dell'"arabità"
e riconosce l'Islam come una delle tre componenti della nazione algerina.
Resta ancora in piedi la rivendicazione che il "tamazight" (parlato
dal 30 per cento della popolazione) diventi lingua nazionale allo stesso
titolo dell'arabo. In questi anni accantonata per dare priorità
alla lotta contro il progetto di instaurazione di una repubblica islamica
da parte dei gruppi integralisti che hanno insanguinato il paese. Fin dagli
inizi dell'affermazione sulla scena politica di questi movimenti, la Cabilia
è stata la regione più restia a cedere alle sirene islamiste.
Ed è stata la prima a organizzare una difesa armata, con i civili
che fanno i turni per presidiare villaggi e città. Ma non solo.
La loro ostinazione ha fatto sì che gli esponenti della società
civile algerina, quella che negli ultimi dieci anni più di tutti
ha pagato un prezzo altissimo alla lotta tra potere militare e terroristi
islamici, si autoconvincessero di essere più o meno di origini berbere
poi arabizzate. E sono sempre i cabili a trovarsi più a disagio
di fronte alla nuova versione, cosiddetta "moderata", dell'Islam che da
Giacarta all'Atlantico sta mettendo in divisa uomini e donne con abiti
fino a poco tempo fa piuttosto insoliti per i musulmani locali: galabeya
bianca lunga e barba per gli uomini; vestito lungo, informe, e velo in
testa per le donne. Ed è infine sempre in questa regione che nasce
quel movimento democratico delle donne guidato da Khalida Messaoudi, che
costituirà in questi anni l'opposizione più organica al progetto
teocratico. Per la sua determinazione e il suo coraggio (condannata a morte
nel 1993 dagli integralisti) la Messaoudi è considerata la Khaina
contemporanea, anche per i capelli rossi come la leggendaria regina.
Oggi però il malcontento della gioventù cabila non è
soltanto un fatto di identità, rispecchia piuttosto un profondo
malessere sociale e politico nei confronti del potere e la disillusione
di una gioventù disperata. Un disagio che del resto tocca tutti,
indistintamente, i giovani per l'assenza di un avvenire, di un lavoro,
di abitazioni che rendono impossibili i matrimoni. Poi c'è la rabbia
di fronte all'impunità dei potenti, della convivenza sotterranea
del potere politico e militare con i responsabili della mattanza di questi
anni. La conseguente legge della "concordia civile", cavallo di battaglia
del presidente Abdelaziz Bouteflika, non solo non ha portato la pace, ma
incurante delle famiglie delle vittime ha permesso che alcuni emiri (le
cui mani si sono macchiate del sangue di uomini, donne e bambini innocenti)
si riciclassero in prosperosi uomini di affari.
"El Watan", prestigioso quotidiano, scrive: «I tragici avvenimenti
che stanno sconvolgendo la Cabilia da oltre due mesi rappresentano un fenomeno
dalle dimensioni di un vero disastro nazionale. C'è la terribile
disperazione di una gioventù alla quale sono stati tolti progressivamente
le ragioni di vivere e credere che domani sarà un altro giorno». |