POTERE ET VIOLENZA IN ALGERIA
Le Monde diplomatique/il manifesto

«Silenzio, si uccide!»: dall'inizio dell'anno, sono più di 700 gli algerini caduti sotto i colpi degli islamisti o dei militari. A dieci anni dall'inizio di una guerra civile atroce che ha già provocato decine di migliaia di morti, l'Algeria ha celebrato, il 5 luglio scorso, il quarantesimo anniversario della propria indipendenza. Ma il bilancio negativo di questi quattro decenni non dipende solo dai massacri, che continuano ad essere perpetrati nell'indifferenza della comunità internazionale. Una casta di privilegiati ha dilapidato tanto le conquiste della rivoluzione algerina che le immense ricchezze del paese, creando una terribile situazione di stallo economico e sociale: disoccupazione di massa, redditi in caduta libera, esplosione della povertà, crisi degli alloggi, totale inefficienza dei servizi pubblici. Tutte tare che ovviamente non traggono origine, come indica qualcuno, da qualche «gene» imprecisato. La violenza e la corruzione si inseriscono invece in una lunga storia, le cui principali tappe sono state la colonizzazione francese, la guerra di liberazione e, infine, la confisca del potere da parte dei leader dell'esercito e del partito unico.

di Mohammed Harbi *
Per molti commentatori in buona fede, la violenza che ha sommerso l'Algeria è espressione di una tendenza radicata nel carattere nazionale.
Concezione questa ispirata al determinismo culturale, che ha l'ingannevole ovvietà delle idee semplici. La violenza - è il caso di ricordarlo?
- non è appannaggio di nessuna società, ma risiede nel cuore di tutta l'umanità. Il problema è quindi comprendere quali circostanze la portano ad esplodere e imporsi sulla scena sociale, e quali sono le forme in cui essa si manifesta. Sono queste ultime che in effetti appaiono caratterizzate dal retaggio culturale specifico di ogni società.
Nel Medioevo cristiano troviamo i roghi di purificazione, mentre i regicidi erano condannati al supplizio dello smembramento e dilaniati da quattro cavalli. In terra musulmana, la donna infedele è lapidata a morte. Durante la guerra d'indipendenza, il musulmano reo di aver «tradito» la sua comunità subiva talvolta l'evirazione e il taglio del naso, prima di essere sgozzato. Questa barbarie si aggiungeva alla violenza della soldataglia che incendiava i villaggi senza preoccuparsi di chi finisse arso vivo.
Se dunque le forme assunte dalla violenza fanno capo a contesti culturali di origini lontane, è importante innanzitutto individuare le circostanze che portano al suo scatenamento e al suo dominio. Per comprenderla, occorre inquadrarla in una prospettiva storica, che esamineremo qui sotto un'angolazione particolare: quella del rapporto tra governati e governanti in Algeria, limitatamente al periodo successivo alla colonizzazione.
Prima di avvicinarsi al modello dello stato-nazione nella sua versione francese, gli algerini si erano familiarizzati, nel contesto del mondo musulmano, con uno stato di tipo tributario e suddiviso, fondato su un decentramento complesso, che consentiva la coesistenza di un'autorità centrale e di vari centri di potere autogestiti (comunità religiose, tribù, corporazioni). Il sistema ottomano, durato tre secoli, era ispirato a questi princìpi. Secondo il quadro che ne ha tracciato Albert Hourani (1), le attività dello stato erano limitate alle città, alle coste, alle valli e alle aree accessibili di pianura. Le comunità refrattarie ad assoggettarsi alle imposizioni fiscali potevano quindi evitare ogni persecuzione ritirandosi nelle regioni di più difficile accesso. In questo modo, ampi settori delle vita sociale sfuggivano ai governanti, più interessati a garantire la sicurezza nelle zone soggette al loro controllo che a trasformare la società.
È facile indovinare quali fossero, in questo stato di puro e semplice potere, i diritti dei governati. L'autorità non riconosceva l'individuo in quanto tale, e il singolo non disponeva di nessuna autonomia nei suoi confronti. I soli diritti in grado di imporsi erano quelli acquisiti attraverso posizioni di potere sociale. Teoricamente, l'assolutismo dei diversi detentori del potere era limitato dai centri religiosi, che fornivano armi alla contestazione in periodi di crisi di sussistenza o di opposizione all'esazione fiscale.
Alla vigilia della conquista francese, l'autorità dei turchi ottomani fu messa a dura prova. Alcuni attacchi alla sicurezza dei viaggiatori nel beylik di Orano furono duramente repressi. Le sollevazioni provocate da confraternite religiose sconvolsero la piccola Kabylia a est, e a ovest Mascara e lo Chelif. Nel 1830, sul tutto il territorio, ben 200 tribù su 516 non avevano più alcun rapporto con le autorità.
A quel punto lo stato, avulso dalla società, non disponeva più delle risorse che gli avrebbero consentito di far fronte all'invasione francese. La giustizia penale costituiva un attributo del potere, e presentava dunque un carattere altamente politico. Nel paese, - con la sola eccezione di Algeri - la pena capitale era decretata dal dey o dai bey. L'assenza di qualsiasi reciprocità politica tra governanti e governati, caratteristica fondamentale del sistema, condannava la società a vivere a contatto costante con una violenza e un arbitrio in cui la vita umana aveva ben poco valore. La violenza inaugurata dalla colonizzazione comporta due aspetti.
Dal lato del colonizzatore, è il risultato di una conquista militare, che tuttavia non è soggetta - e qui sta una delle sue particolarità - al codice d'onore degli eserciti e alle leggi di guerra. Ne troviamo le testimonianze negli scritti degli ufficiali francesi, e in particolare nella corrispondenza del maresciallo Saint-Arnaud, vera e propria antologia dell'assassinio, del massacro collettivo e del saccheggio.
Una violenza che è anche economica e politica (2).
Dal lato delle comunità algerine, la reazione, ancorché legittimata dall'oppressione, si manifesta in forme che hanno radici in tradizioni diverse da quelle europee. Questa lotta è stata in qualche modo mitizzata intorno a figure come quella dell'emiro Abdelkader (1808-1883), presentata come simbolo di una nazione algerina unita e consapevole di sé, in opposizione alla Francia - mentre la realtà ci rinvia storicamente alla molteplicità delle comunità e alla diversità delle loro risposte.
Ad Est, ad esempio, Ahmed Bey rivendica il ruolo di continuatore legittimo del potere ottomano e considera con disprezzo Abdelkader.
L'emiro, che si era fatto eleggere sultano dalla sua comunità, è stato combattuto tanto dagli avversati francesi quanto dai suoi correligionari, interessati innanzitutto alla difesa dei loro particolarismi, e ribelli a qualsiasi potere esterno.
Quando la colonizzazione si instaura e si istituzionalizza, dà luogo a un divario tra lo spazio organizzato da un lato, e le aree rurali e i territori del Sud dall'altro.
L'originalità delle città riposa sulla formazione di un settore economico moderno e sulla diversificazione dei gruppi sociali che ne risulta.
All'inizio del XX secolo, e più particolarmente dopo la fine delle resistenze armate nelle campagne, nasceranno qui vari movimenti, che esprimeranno le loro rivendicazioni in un linguaggio politico, sia rivendicando diritti civili uguali a quelli degli europei, sia operando per far emergere una nazionalità algerina.
Nelle campagne, il rapporto colonizzatori-colonizzati è caratterizzato da pura e semplice violenza. Il colonizzatore è percepito come un predatore, al quale le masse rurali contrappongono la solidarietà comunitaria, che troverà la sua espressione non tanto nel linguaggio della politica quanto in quello della religione. Il conflitto è presentato come scontro tra musulmani e «infedeli», ai quali ultimi si attribuiscono le responsabilità degli abusi e delle vessazioni di notabili e funzionari.
Tuttavia, prima del maggio 1945 non c'è nelle aree rurali un'opposizione organizzata come nelle città, ma solo sporadici scontri tra clan per i pascoli, la distribuzione dell'acqua e altre questioni.
I sei principi del jihad Sarebbe però un errore voler desumere da questa differenza tra città e campagna - o grossomodo, tra le coste e l'interno - l'esistenza di due Algerie - anche se tra la popolazione rurale il rifiuto di ogni acculturazione e la xenofobia sono molto accentuati. Il movimento nazionalista delle città, anche nelle sue componenti che si richiamano al razionalismo, alla scienza e al positivismo, non rompe mai con i tradizionalisti e i comunitaristi, quasi trovasse in essi un'autenticità originaria: la rottura sarebbe vissuta come un matricidio. Le élite vivono una sorta di schizofrenia, che avrà un ruolo importante nella guerra d'indipendenza.
Come si manifesta la violenza in questo periodo? Nelle città, non molto diversamente da quanto avviene altrove, ad esempio nel Sud della Francia. Per lo più, sono manifestazioni di delinquenza comune, benché la dimensione politica non sia mai assente. Diversa la situazione nelle campagne, dove le sole ragioni della violenza sono quelle dei rapporti di forza, senza alcuna interiorizzazione di diritto o di legge. Si afferma un rapporto di assoggettamento, o al contrario di scontro, con le forze militari e di polizia che fanno capo a notabili coloniali e a funzionari (caid, guardie campestri, guardie forestali), futuri bersagli della guerra d'indipendenza. La reazione agli abusi e alle ingiustizie si esprime attraverso il banditismo sociale, quello di un Kaddour Benzelmat, di un Grin negli Aurès, di un Oumeri in Kabylia, tutti trattati come eroi, ai quali hanno inneggiato numerose canzoni popolari.
La guerra d'indipendenza esplode in un momento di crisi del movimento nazionale, con il sorgere di un gruppo di attivisti che emargina e sottomette le élite politiche di ogni tendenza. Si crea così un vuoto e una situazione caotica, dalla quale prende corpo un inquadramento sorto dalle popolazioni delle campagne, mosso da un ideale comunitario e chiuso, se non ostile, nei confronti dell'idea di poter considerare algerini i non musulmani europei o gli ebrei del luogo. Il movimento si sviluppa in base a due esigenze contraddittorie: la prima comunitaria, l'altra nazionalista e burocratica. La loro sintesi sarà gravida di drammi. L'idea di impegno civile, che anima una minoranza di attori, raramente prevale sul dovere del credente.
Bisogna avere sempre presente, quando si vogliano comprendere le caratteristiche della mobilitazione durante la guerra d'indipendenza e l'atteggiamento dei capi che la dirigono giorno per giorno, i principi che sono alla base della comunità musulmana nel jihad, quali ad esempio: ¥ il martirio comporta il sacrificio della persona e dei beni; ¥ l'obbligo di assistenza è tassativo; ¥ i disertori devono essere perseguiti, e l'obolo legale deve essere percepito, anche forzosamente quando occorre, dai più benestanti; ¥ i recalcitranti vanno combattuti e i loro beni confiscati; ¥ i musulmani che combattono a fianco dei francesi sono apostati e vanno giustiziati, mentre si devono risparmiare le loro donne e i loro figli.
A questi cinque principi se ne aggiunge un altro, che il 7 giugno 1955 sarà ricordato ai combattenti dallo sceicco Bashir el Ibrahimi: la proscrizione della tortura, delle mutilazioni, dell'assassinio di donne, anziani e bambini; allo stesso titolo si vieta di incendiare i raccolti e di abbattere gli animali domestici.
Nei loro rapporti con la popolazione, al fine di rafforzare la lealtà degli individui e la coesione della comunità, i dirigenti del Fronte di liberazione nazionale (Fln) e del Movimento nazionale algerino (Mna) - entrambi sorti da una scissione del Movimento per il trionfo delle libertà democratiche (Mtld), la cui sanguinosa contrapposizione ha inasprito la violenza generata dalla guerra (3) - hanno generalmente ottemperato a questi princìpi, che pure non corrispondevano ai gusti di taluni capi.
Diversa la situazione sul campo, ove vi sono state numerose infrazioni ai principi religiosi. Solo l'antropologia e l'imbarbarimento dei costumi permettono di spiegare riti crudeli quali lo sgozzamento, il taglio del naso, l'evirazione, che risalgono a tradizioni secolari.
Descrizioni di queste pratiche, affiancate alla cronaca dei crimini commessi dagli europei, sono state riportate all'opinione pubblica francese con grande efficacia soprattutto dalla stampa coloniale, che pure ha dissimulato innumerevoli crudeltà di una barbara guerra di riconquista. La valutazione e la critica del retaggio della rivoluzione algerina devono essere condotte in nome dell'ansia di libertà, e non soltanto nell'ottica della difesa del passato coloniale o della lotta contro gli islamisti.
La modernizzazione autoritaria di Boumediène Se poniamo la violenza al centro della nostra riflessione, non posiamo concepire il politico ignorando la natura delle credenze che comandano le relazioni sociali. E proprio perché questa operazione è rimasta un tabù, si è assistito al recente rigurgito di azioni che sembrano spettri del passato. Gli algerini hanno bisogno di interrogarsi su se stessi. Indubbiamente, la tradizione nazionale li conduceva verso un regime autoritario; e con la colonizzazione non hanno conosciuto altro che la democrazia del censo e delle urne truccate.
Sarebbe però imprudente dimenticare le scelte degli attori sociali, e in particolare dei fondatori dell'Fln, che nonostante le condizioni sociologiche sfavorevoli avrebbero avuto la possibilità di eliminare talune ipoteche. Ma non lo hanno fatto. Hanno preferito porre termine a una competizione politica aperta a vantaggio di un'unificazione nazionale autoritaria (e non a un partito unico ispirato all'esperienza sovietica, come molti amano dire). Hanno scelto di eliminare dalla rivoluzione qualsiasi organizzazione civile, a tutto vantaggio di cariche militari, occupate per lo più da capi indifferenti alle idee e pronti a passare da uno schieramento all'altro, al solo scopo di perpetuare il proprio potere.
Tutto ciò ha azzerato molte conquiste, compiute sia prima che dopo il 1962, sulla via di una società moderna. Nel corso della guerra d'indipendenza, la società ha subìto un'enorme perdita di sostanza sociale e di risorse umane, soprattutto tra la popolazione urbana.
L'Algeria politica si è ritrovata nei campi di prigionia, in carcere o in esilio, soppiantata da uomini privi di esperienza. A questo si aggiunge il lungo elenco delle vittime delle lotte civili tra Fln e Mna e di quelle delle purghe, così come l'eliminazione, al momento della crisi del partito unico, nel 1962-63, dei dirigenti che avevano assunto la direzione della guerra.
La cultura politica si è quindi ritrovata tremendamente impoverita.
E tuttavia la sfida coloniale è stata raccolta. Sull'esigenza di portare a compimento l'indipendenza con la creazione delle basi economiche e sociali che ancora mancavano, la volontà era unanime.
Ma come riuscire nell'intento senza intaccare le strutture generatrici di autoritarismo? In seno all'Fln, erano in competizione due grandi progetti. La sinistra postulava la costruzione di una modernità a partire dalla base, fondata sull'autogestione, e chiedeva di riformare il partito autorizzando le correnti organizzate; si pensava a una formazione di tipo laburista, ove i sindacati avrebbero svolto un ruolo di primo piano. Dal canto loro i militari, con Houari Boumediène, privilegiavano una modernizzazione autoritaria, calata dall'alto e attuata dalle élite statali. Tuttavia, gli uni e gli altri si erano pronunciati per la secolarizzazione e la parità dei sessi.
Nel 1965 è il secondo progetto, quello di Boumediène, ad avere la meglio, e l'esercito si assicura allora un ruolo preponderante nello stato. Attraverso la sua polizia politica estende il proprio apparato all'amministrazione e all'economia, diventando così lo strumento per eccellenza della selezione delle élite. I fondamentalisti, che in passato dimostravano qualche riserva nei confronti del primo presidente, Ahmed Ben Bella, benché avesse concesso loro l'introduzione dell'insegnamento del Corano nelle scuole, ottengono un posto preminente nei settori dell'istruzione e della cultura. In materia di secolarizzazione, Boumediène punta sulla trasformazione delle mentalità attraverso l'economia.
Ma la privatizzazione dello stato corrompe la nazionalizzazione dell'economia, e i progetti degli «industrialisti» sono minati dallo sviluppo del clientelismo e del nepotismo. Come ha sottolineato Jean Leca, nelle società nazionali l'esistenza di «famiglie che controllano l'apparato e vi collocano i propri clienti sviluppa reti verticali di patrocinio orientate all'acquisizione di beni materiali (4)».
Dopo la morte di Houari Boumediène (1978), l'indebolimento della capacità di redistribuzione dello stato obbligherà la nomenklatura dell'Fln a ripensare un modello che dopo il fallito tentativo di colpo di stato del colonnello Tahar Zbiri (1967) aveva pur sempre beneficiato di un decennio di tranquillità. La stabilità di questo periodo non era però solo il risultato della pura e semplice coercizione (sebbene la repressione e gli assassinii politici vi avessero giocato un ruolo). In larga misura, era il frutto di un compromesso fondato sul soddisfacimento di aspettative sociali in materia di salari, scuole, cure mediche gratuite, che il governo del presidente Chadli Bendjedid (1979-1992) rifiutava oramai di assicurare.
Il brusco calo del prezzo del petrolio ha messo a nudo la vulnerabilità dell'economia. L'era del cittadino «cliente dello stato», sottomesso ma tutelato, era giunta al termine. L'orizzonte della contestazione era ormai il ricorso alla violenza di strada e alla guerriglia. Scioperi, sommosse urbane e movimenti di guerriglia islamisti, con Mustafa Bouyali, si susseguono dopo l'esplosione degli anni '80 in Kabylia.
Il movimento andrà crescendo, fino ai tragici eventi dell'ottobre 1988, con la repressione delle manifestazioni che causarono diverse centinaia di morti. Che fossero spontanei oppure organizzati da apprendisti stregoni, per farla finita con l'opposizione dell'Fln alle riforme, questi eventi hanno scosso le basi stesse dello stato, favorendo una nuova entrata in scena dell'esercito. Il quale, dal 1988 fino a oggi, resterà, accanto all'islamismo e al movimento identitario della Kabylia, uno dei pochi protagonisti del gioco politico.
Come spiegare il rigurgito di violenza esploso da quel momento in poi, con il ritorno dei «resistenti» alle pratiche più crudeli, e una repressione militare che riesuma le torture e i massacri del vecchio esercito coloniale? Il contesto è un sistema caratterizzato dall'assenza di democrazia, e più ancora dalla totale mancanza di formazione civica. Agli occhi degli algerini, il potere non ha più la minima legittimità né il minimo progetto - tranne quello di preservare le ricchezze e i privilegi costituiti. Così, la vita quotidiana di una popolazione disorientata oscilla tra sottomissione e scoppi di violenza senza prospettive.
Necessità di un patto democratico E non a caso. Nonostante la molteplicità dei partiti, il sistema sociale è infatti caratterizzato dall'assenza di mediazioni radicate e stabili. La disoccupazione massiccia, la stratificazione sociale sempre più accentuata, l'approfondimento delle disuguaglianze e il declassamento dei ceti medi non costituiscono certo fattori di stabilità.
Quanto al mondo del lavoro e al movimento delle donne, si esprimono più che altro attraverso movimenti comunitari - cabili, islamisti, ecc.
Allo stato attuale, la «liberalizzazione» del sistema politico e le elezioni politiche di facciata possono solo alimentare una strategia di conservazione del potere, o nuove forme di protezione clientelare.
L'Algeria ha bisogno di ritornare all'ordine e alla sicurezza se vuole raccogliere la sfida politica e sociale del futuro. La migliore via per arrivare alla pace sarebbe un patto fondatore di democrazia pluralista. A elaborarlo dovrebbero essere chiamati esponenti militari, ma anche islamisti - anche se si trovano agli antipodi di quella modernità che ci si augura di vivere.
Molti considerano troppo azzardata questa scommessa, la quale però andrebbe a tutto vantaggio della secolarizzazione della società.
Comunque sia, è questo il prezzo da pagare per ricostituire le basi della democrazia, che non potrà affermarsi e diffondere i propri valori tra il popolo algerino finché sarà affidata all'arbitrio dell'esercito.
Di un esercito pronto a ricorrere alla violenza col pretesto di difendere una democrazia che di fatto rifiuta.

FONTI: Le Monde diplomatique/il manifesto

note:

* Storico. Il suo ultimo libro si intitola Une vie debout. Mémoires politiques Tome I: 1945-1962, La Découverte, Parigi, 2002.

(1) Albert Hourani, Minorités in the Arab World, Londra, 1947.

(2) Si legga Olivier Le Cour Grand- maison «Quando Tocqueville giustificava i massacri», Le Monde diplomatique/il manifesto, giugno 2001.

(3) L'Mtld è creato dal Partito del popolo algerino (Ppa) in occasione del suo primo Congresso, nel 1947. L'Fln fa la sua apparizione il 1° novembre 1954, con la prima ondata di attentati anti-francesi.
L'Mtld è disciolto da François Mitterrand, ministro dell'interno del governo di Pierre Mendès France, il 5 novembre 1954. La federazione dell'Mna, che ha fatto proprio il programma dell'Mtld, è proclamata il 1° dicembre 1954.

(4) «Etat et société en Algérie», in Maghreb, les années de transition, Masson, Parigi, 1990. (Traduzione di E.H.)

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