Risposta a Franco Juri
Un recente intervento su Il Piccolo di Franco Juri, in risposta a Paolo
Rumiz, sviluppa una serie di considerazioni che riguardano il dibattito
interno alla Repubblica di Slovenia, ma che trattano anche della questione
dei rapporti fra il centro sinistra sloveno e l’Ulivo italiano in queste
zone di confine. Non ho elementi per inquadrare i termini del dibattito
in corso nell’opinione pubblica della Slovenia, ma l’altro punto va preso
in seria considerazione anche da noi in Italia. E’ un tema importantissimo
che merita una risposta meditata, pacata ma chiara.
Juri si rammarica della distanza che a suo dire si è venuta
a creare tra la sinistra italiana e quella slovena dopo la fase “dell’internazionalismo
e della comune intesa antifascista”. Penso che abbia ragione a rammaricarsene.
Anche a me pare che sia auspicabile che sinistra italiana e sinistra slovena
si parlino di più, nel quadro dell’Europa che si sta costruendo,
come del resto ritengo sia opportuno lo faccia la destra italiana e quella
slovena. Ed è proprio in questo spirito che vorrei discutere con
Juri, nella convinzione che, per avere rapporti più fecondi, sia
necessario sgomberare il campo da alcuni equivoci e da alcune ambigue eredità
del passato.
Due sono i punti che Juri solleva e sui quali è bene essere
chiari.
1) Il riferimento ad un mitico e lontano passato di collaborazione nella
comune ispirazione antifascista, per essere oggi credibile, deve prendere
esplicitamente le distanze dalla vecchia retorica del comunismo jugoslavo
e sloveno che inneggiava all’internazionalismo antifascista – la forza
della vittoriosa Resistenza europea! – per promuovere nei fatti l’interesse
dello Stato jugoslavo e quindi in quest’area gli interessi territoriali
della Repubblica di Slovenia e di Croazia. E’ evidente che l’antifascismo
è stato ed è oggi la piattaforma ideale sulla quale
l’Europa si è costruita e va costruita. Ma proprio perché
i valori vanno presi seriamente, non mi pare possibile che di qua e di
là del confine ci si dimentichi che nei decenni passati il tema
dell’antifascismo è stato usato come uno strumento retorico di promozione
degli interessi territoriali di uno Stato e di legittimazione dell’espulsione
degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia. Forse Juri ignora che i documenti
con i quali i profughi istriani dichiaravano di scegliere la cittadinanza
italiana, tornavano a loro vistati dai consolati jugoslavi con la poco
confortante scritta, stampigliata con apposito timbro, “Morte al fascismo”.
Timbro diffuso in tutta la Jugoslavia, ma che qui assumeva il suono macabro
di condanna per la popolazione italiana, confermata nella pratica quotidiana.
Come se tutti quei profughi, solo perché si sentivano italiani,
fossero da considerarsi automaticamente dei fascisti. Sappiamo che non
era così ed è giusto che da una parte e dell’altra del confine
lo si dica.
2) E qui arriviamo al punto centrale. In questi anni la sinistra triestina
ha perseguito due obiettivi:
a) uscire dalle retoriche nazionalistiche che avevano imprigionato
per decenni la città, da qualsiasi
parte provenissero;
b) restituire dignità a tutte le memorie divise, a quelle dei
profughi italiani dall’Istria e dalle coste dalmate, come a quelle degli
sloveni in Italia.
I due obiettivi non sono affatto contraddittori: perché da un
lato si tratta di riconoscere la sofferenza umana generata da tutti i nazionalismi
e quindi rispettare il grido di dolore, anche nelle sue forme più
intense; dall’altro, come forze politiche, riconoscere che oggi, grazie
alla prospettiva europea e all’avvento della democrazia in Slovenia e in
Croazia, l’epoca delle retoriche nazionalistiche è finita. E’ finita
l’epoca in cui si possa definire, senza porsi il problema delle ragioni
dell’altro, atti di “liberazione nazionale” quelli che sono stati di fatto
atti di espansione territoriale – mi riferisco a Capodistria, Isola, Pirano
per quanto riguarda la Slovenia – atti che per di più hanno
avuto come conseguenza una drammatica semplificazione culturale di terre
da sempre plurali.
Certo, so bene che in altri momenti la storia ha imposto a ciascuno
di noi e ai nostri padri scelte tragiche. Ha chiesto di decidere da che
parte stare, di diventare ciechi di fronte all’evidente realtà che
in una regione plurale come quella in cui viviamo non c’è una ragione
assoluta e generale perché un confine statale debba passare di qua
o di là. I momenti in cui si deve scegliere di essere ciechi sono
sempre umanamente terribili, per quanto possano essere anche esaltanti.
Per questo le sofferenze che provocano i conflitti nazionalistici vanno
sempre rispettate e capite nella loro umana grandezza.
Ma per fortuna oggi la storia europea ci riconosce il diritto, e il
dovere, di non essere più ciechi sul fatto che ragioni degli altri,
in ultima analisi, valgono come le nostre. Amare la propria patria non
ci impedisce oggi di riconoscere che non c’è una ragione superiore
in nome della quale qualcuno possa dire che il suo sentimento di patria
ha tutti i diritti mentre quello di altri nessuno. E’ quindi possibile
guardare ai conflitti nazionalistici che hanno attraversato queste terre
da una prospettiva post-nazionalistica.
Proprio sulla base di queste considerazioni in questi anni ho atteso
con ansia che da parte della sinistra slovena si smettesse di chiamare
optanti o emigranti i profughi. Ho aspettato con ansia che la sinistra
slovena capisse le ragioni di coloro i quali abbandonarono casa loro, come
la sinistra di Trieste capisce le ragioni di quelli che ancora oggi vedono
l’arrivo dell’Armata jugoslava come la fine dell’oppressione fascista,
e nel contempo capisce bene le ragioni di chi ricorda quei giorni come
un incubo. Ho atteso con ansia che da parte della sinistra slovena si avviasse
una discussione sulla semplificazione culturale che prima il nazionalismo
italiano fascista, ma poi anche quello sloveno e croato, hanno provocato
in Istria e a Trieste: non per annullare le ragioni e i meriti del comune
antifascismo, ma anzi per trarne la capacità di guardare con lucida
consapevolezza a tutti i diritti negati.
La mia sensazione è che la risposta non sia ancora arrivata.
Mi sbaglierò, ma a me pare che per molti amici sloveni, anche di
sinistra, ci sia un nazionalismo buono, perché ha perseguito obiettivi
storicamente giusti, quello sloveno, e un nazionalismo cattivo perché
ha perseguito obiettivi di oppressione, quello italiano. Ma vorrei capire
sulla base di quale criterio razionale essi chiamano giusti gli obiettivi
dell’uno e ingiusti quello dell’altro. Conosco le risposte nazionalistiche.
Vorrei che si avesse il coraggio nel 2002 di chiamare le cose con il loro
nome, dicendo che ben raramente nelle terre plurali si può chiamare
in causa la giustizia per capire le logiche di espansione degli stati.
Farlo non è un atto di grande novità intellettuale. E’ quello
che hanno fatto francesi e tedeschi quando cinquanta anni fa hanno iniziato
a guardare ai loro conflitti da una prospettiva post-nazionalistica. Senza
rinunciare a ricordare i loro morti, hanno costruito rapporti in grado
di assicurare a tutti e due sicurezza e rispetto reciproco.
Ovviamente, non si può chiedere a chi ha troppo sofferto di
guardare anche alle ragioni dell’altro. Ma ad una forza politica, sì.
Si può e si deve chiedere di farlo, specie se si tratta di una forza
di sinistra. Si deve chiedere di essere europea, nel senso profondo che
l’integrazione europea ha per lo meno insegnato ai francesi e ai tedeschi.
Abbiamo aspettato sino ad oggi che si potesse parlare anche di queste cose
con la sinistra slovena. Continueremo, con tenacia e fiducia, ad aspettare.
Stelio Spadaro
della Direzione dei D.S. di Trieste
Trieste, 6 marzo 2002
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