Anche a sinistra c'è chi bacia l'anello di Gheddafi
Ecco chi si schiera contro la rivoluzione libica in nome di un presunto "anti-imperialismo"

di Valerio Torre, comunicato del Partito di alternativa comunista, 5 marzo 2011

 
Sempre, nella storia del movimento operaio, i grandi avvenimenti della lotta di classe hanno rappresentato dei veri e propri spartiacque, determinando la dislocazione da un versante o dall’altro delle organizzazioni che ad esso a vario titolo si richiamano.
Ne abbiamo avuto una rappresentazione plastica in queste settimane, rispetto alle rivoluzioni che hanno violentemente scosso il Nord Africa. Ad esempio, la maggior parte dei settori del riformismo italiano ha dipinto la rivoluzione che ha rovesciato il regime di Mubarak in Egitto come “assolutamente democratica”, “pacifica”, organizzata dal “popolo di Facebook e Twitter”, facendola quasi passare come una mobilitazione organizzata da un… popolo viola un po’ più grande (1); una mobilitazione “spontanea”, ma nella quale è stato l’esercito ad avere un ruolo rilevante, tanto da arrivare a ritenere la caduta di Mubarak come un “colpo di Stato” delle forze armate (2)! L’obiettivo, naturalmente, è quello di sorvolare il più possibile sul protagonismo delle masse e sulla loro forza d’urto quando si radicalizzano e scendono in piazza scontrandosi frontalmente con il potere costituito, dato che questa conclusione confliggerebbe con la retorica del pacifismo e della "non violenza".
Ma, da un altro versante, sta accadendo qualcosa di analogo in queste ore rispetto alla rivoluzione che, in Libia, sta sgretolando dalle fondamenta l’ultraquarantennale regime di Muammar Gheddafi.
Questa volta è quanto rimane dello stalinismo mondiale ad avanzare un’analisi molto particolare, che diversifica le rivoluzioni sviluppatesi in Tunisia e in Egitto da quella in atto in queste ore in Libia: le prime, declassate comunque al rango di “rivolte” (3), non avrebbero nulla a che fare con quella libica, ritenuta, nel migliore dei casi, una “ribellione contro il regime di Gheddafi”. In linea più generale, questo settore della sinistra si caratterizza per l’incapacità di pronunciare la parola “rivoluzione” per descrivere i processi che stanno sconvolgendo il Nord Africa.
Prendendo le mosse dalle “riflessioni” che pressoché quotidianamente vengono elargite dal loro nume tutelare, Fidel Castro, gli esponenti di questa corrente politica internazionale – che possiamo definire “castro-chavista” – insistono su presunte differenze che esisterebbero fra le mobilitazioni libiche e quelle tunisine ed egiziane che le hanno precedute. Dal postulato di queste differenze ad un paventato attacco bellico imperialista dissimulato da “intervento umanitario”, il passo è breve. E allora, la logica conclusione: tutti insieme, appassionatamente, in un indistinto presunto schieramento antimperialista!
Si tratta, in tutta evidenza, di una tesi che, così come esposta, appare grezza e grossolana. Ed è probabilmente per questo che una piccola organizzazione del variegato mondo stalinista, la Rete dei Comunisti – sconosciuta ai più dal versante politico ma attiva da quello sindacale poiché costituisce (all'insaputa della gran parte degli attivisti) la maggioranza dell'Esecutivo del sindacato Usb (4) – ha tentato di conferirle dignità teorica attraverso un articolo di Sergio Cararo, pubblicato nella sua pagina web (5).
 
Rivoluzione o guerra civile? Un’alternativa campata in aria
L’incipit del testo riprende il tema delle cosiddette “differenze” fra gli eventi che stanno caratterizzando i processi nordafricani per stabilire da subito, in modo tranchant, che la Libia è teatro non già di una rivolta popolare, bensì di una guerra civile.
Verrebbe da sorridere per l’approssimazione di una simile conclusione, dal momento che non è affatto infrequente (e non è per nulla contraddittorio) che ad una rivoluzione si affianchi una guerra civile o che la prima si dipani sul telone di fondo della seconda. Basti solo ricordare quella russa del 1917: cosa scatenarono le armate bianche contro i bolscevichi se non una guerra civile? O, per venire a tempi più recenti, non fu la guerra civile il teatro in cui si svolse la rivoluzione sandinista?
Dunque, la circostanza che in Libia vi sia oggi una guerra civile non urta assolutamente con la conclusione in base alla quale quella in atto è – al pari di Tunisia o Egitto – una rivoluzione. D’altro canto, probabilmente i manifestanti che occupavano le strade di Tripoli non avevano letto l’articolo della Rete dei Comunisti se urlavano lo slogan “Tripoli come Tunisi, Tripoli come Il Cairo!” (6). Al contrario, doveva averlo letto e condiviso il secondogenito di Gheddafi, SaifAlIslam... se dobbiamo registrare una convergenza d’opinione non singolare (per le ragioni che analizzeremo più approfonditamente nel prosieguo) fra l’articolo qui commentato e l’opinione da lui espressa in un discorso televisivo, secondo cui, appunto, “Tripoli non è Tunisi o il Cairo” (7).
 
Le presunte differenze socio-economiche
Per supportare l’argomentazione centrale del testo, Cararo sottolinea che “in Libia le condizioni della rivolta popolare mancavano di un aspetto non certo secondario (decisivo invece negli altri Paesi arabi): quello economicosociale. I livelli di vita dei libici erano infatti sensibilmente migliori di quelli negli altri Paesi. Il 70% della forza lavoro era impiegata nello Stato, i prezzi sussidiati e le rendite petrolifere molto più socializzate”. Di qui la conclusione: “In Libia non possiamo parlare di rivolta popolare ma di una spaccatura dentro il gruppo dirigente della Jamahiriya che – diversamente dal conflitto … nelle piazze tunisine ed egiziane – ha portato immediatamente ad uno scontro militare feroce… che ha avuto nella regione storicamente ribelle della Cirenaica islamica la sua base di forza”.
Una simile congerie di sciocchezze si scontra con la realtà dei fatti: una realtà che mostra gigantesche mobilitazioni di una popolazione che, a dispetto delle enormi risorse petrolifere su cui galleggia il Paese, è segnata dalla miseria determinata dai provvedimenti economici adottati dal regime su impulso del Fondo Monetario Internazionale (Fmi). A partire dal 1992 col trattato commerciale firmato con la Russia, e grazie a una serie di tredici successivi trattati politici, finanziari e commerciali col Fmi, la Banca Mondiale e le multinazionali dell’Unione Europea, della Cina e degli Usa, Gheddafi ha aperto le porte del petrolio che prima aveva nazionalizzato. Le privatizzazioni del settore, fortemente volute da Shokri Ghanem – già primo ministro e direttore della poderosa Compagnia Nazionale del Petrolio (Nacional Oil Corporation) – hanno beneficiato le principali compagnie occidentali (la spagnola Repsol, la britannica British Petroleum, la francese Total, l’austriaca Om e l’italiana Eni, che è il primo operatore internazionale in Libia, con 244.000 barili prodotti al giorno, il 13% circa della produzione del gruppo) e asiatiche (China Nacional Petroleum). Per non parlare, poi, dei succulenti contratti delle multinazionali che operano nei settori delle infrastrutture, dell’edilizia e delle forniture militari (8).
Le privatizzazioni, naturalmente, non hanno riguardato il solo settore dell’energia, ma tutte le imprese già statali, in un processo che, sviluppatosi nel quadro di un regime dittatoriale, ha prodotto un altissimo livello di corruzione che ha arricchito principalmente i membri della famiglia Gheddafi. Un processo, in definitiva, che si è svolto sotto la totale supervisione del Fmi, che non a caso segnalava nella sua ultima relazione che gli indicatori economici di Libia, Egitto e Tunisia, erano molto positivi. Ma non certo positivi per le masse popolari e la classe lavoratrice, duramente colpite da questi provvedimenti: l’eliminazione dei sussidi pubblici; un tasso di disoccupazione del 30% e di analfabetismo del 18%; l’aumento esponenziale dei prezzi delle materie prime alimentari (32% tra il gennaio 2010 e il gennaio 2011, con il grano che è aumentato del 62% e il frumento del 58,7%) in un’area – il Nord Africa – che è quella più lontana dall’autosufficienza alimentare e la maggiore importatrice di grano mondiale (21,4 milioni di tonnellate: più del Medio Oriente, che ne importa “solo” 18,72 milioni di tonnellate), e che al contempo ha fatto registrare negli ultimi anni uno dei tassi di crescita maggiori al mondo secondo l’Ocse (9); tutto ciò ha costituito l’humus socio-economico su cui si è sviluppata, anche in Libia e a dispetto delle “analisi” di Cararo, la spinta rivoluzionaria delle masse. Una dinamica che, grazie anche all’uso della tecnologia (internet su tutte), ha preso esempio dalle grandi mobilitazioni che nei mesi precedenti si erano prodotte in tutta Europa nel quadro della reazione dei lavoratori alle misure adottate dai governi per evitare il fallimento del sistema nella più grande crisi economica che il capitalismo ricordi dal 1929, e si è nutrita di rivendicazioni democratiche agitate contro regimi dittatoriali che solo pochi giorni prima parevano granitici.
E, a sconfessare la posizione su questo punto della Rete dei Comunisti, stanno le rivolte che in Libia si erano prodotte già prima delle mobilitazioni ora in corso, proprio in occasione dell’eliminazione dei sussidi statali.
 
Perché e quando scoppiano le rivoluzioni?
Tuttavia, anche a voler prescindere dai dati economici che abbiamo appena fornito, l’esame della situazione libica porta alle stesse conclusioni e revoca in dubbio quelle avanzate nel testo di Cararo.
Partiamo da un’osservazione molto generale: le società non cambiano nella misura in cui le loro relazioni economicosociali sono più ingiuste o le loro istituzioni più tiranniche. Se tutto fosse così semplice, basterebbe ridurre la miseria o le dittature per avere un mondo senza rivoluzioni. Cambiano invece quando il combinarsi di diversi fattori rendono impossibile il protrarsi della situazione precedente. L’ingiustizia e la tirannia da un lato e la miseria materiale delle masse dall’altro non sono fattori sufficienti di per sé soli a spiegare l’esplosione di situazioni rivoluzionarie.
Prendiamo ad esempio proprio l’Africa: se fosse bastata la fame, questo continente sarebbe stato il più rivoluzionario del secolo scorso. Ma non è stato così: la prima metà del XX secolo ha visto l’Europa protagonista di lotte decisive; mentre nella seconda metà, e in momenti diversi, sono state l’Asia, l’America Latina e il Medioriente sulla scena. Di più: se fossero necessarie la miseria e la fame per lo scoppio di una rivoluzione, non si spiegherebbero situazioni rivoluzionarie come quella francese (e, più in generale, europea) del 1968 e quella portoghese del 1974, in società cioè in cui il popolo non aveva problemi di alimentazione. E, d’altro canto, se le rivoluzioni fossero solo una giusta reazione a regimi dittatoriali, come spiegare la realtà latinoamericana degli ultimi vent’anni, con dieci presidenti democraticamente eletti e successivamente defenestrati?
In realtà, è appunto il combinarsi di molteplici fattori a determinare lo scoppio di una rivoluzione. Nel caso del Nord Africa, quando le masse popolari hanno sedimentato in sé la convinzione che non erano possibili riforme; quando le classi dominanti non hanno saputo percepire che era giunto il momento di concederle; quando la gigantesca crisi del capitalismo (e, più in generale, la sua stessa naturale dinamica) ha indotto i governi di ogni dove, per salvare il sistema sull’orlo del fallimento, a portare ai lavoratori e al popolo attacchi così violenti da determinare un arretramento di decenni risvegliando così la loro disponibilità alla lotta e la loro radicalità; quando tutto questo è accaduto, l’intero Nord Africa – Libia compresa, con buona pace di Cararo – è stato violentemente scosso dalle rivoluzioni democratiche in atto.
E tutte queste considerazioni, comprovate anche dalle immagini che ci sono giunte dalla terra libica, sconfessano anche, senza che sia necessario opporle particolari argomentazioni, la ricostruzione – completamente priva di fondamento – di una contrapposizione tra diversi settori del “gruppo dirigente della Jamahiriya che… [avrebbe] portato ad uno scontro militare feroce”, quasi si trattasse di contraddizioni interistituzionali e non già, come invece è ed abbiamo dimostrato, una rivoluzione democratica. La realtà ha mostrato, al contrario, che le rotture con Gheddafi da parte di uomini fino a ieri al suo fianco non si producevano sul terreno della direzione rivoluzionaria. Anzi, quando in un caso l’ex ministro della giustizia ha cercato di installare un governo provvisorio, la resistenza popolare l’ha completamente sconfessato.
 
Il giudizio su Gheddafi: un po’ di storia
L’articolo che qui commentiamo sviluppa poi il profilo della valutazione del personaggio Gheddafi, definito in maniera mirabolante – riprendendo un testo di Luciana Castellina pubblicato su il manifesto (10) – “un valoroso combattente anticolonialista”.
Giova ricordare che nel 1969 il tenente colonnello Muammar Gheddafi diresse, alla testa di un settore delle forze armate, un colpo di Stato che depose il re Idris I, imposto dall’imperialismo e da Stalin quando, dopo la II Guerra Mondiale, venne nel 1951 concessa l’indipendenza alla Libia. L’ideologia che sosteneva il golpe era quella nazionalista pan-araba che aveva il suo referente in Nasser, a differenza del quale, però, Gheddafi voleva costruire non già uno Stato laico, bensì islamico. Ad ogni modo, nel 1977, fondò la Jamahiriya (Stato di Massa) Socialista Araba di Libia, un regime totalitario basato sulle forze armate e su accordi intertribali. L’intervenuta nazionalizzazione del credito e delle imprese straniere, il ripudio degli accordi firmati da Sadat con gli Usa ed Israele e l’appoggio a vari movimenti guerriglieri, valse al regime libico l’odio da parte dell’imperialismo, espressosi nell’embargo delle armi e nella rottura delle relazioni diplomatiche, fino al bombardamento da parte degli Stati Uniti, nel 1986, delle principali città del Paese. Come risposta, Gheddafi promosse una serie di attentati terroristi, culminati, nel 1988, con l’attentato all’aereo della Pan Am su Lockerbie, in Scozia.
A dispetto dell’autodefinizione di socialista, lo Stato libico venne presentato, per bocca dello stesso Gheddafi, come una terza via fra capitalismo e socialismo sovietico. In ogni caso, nei primi anni, egli promosse riforme (assistenza sanitaria, istruzione) di un certo peso, rese possibili dall’investimento dei proventi del petrolio nazionalizzato. In definitiva, quel periodo si caratterizzò per un certo interventismo statale nell’economia.
Tuttavia, come già accennato, il ruolo relativamente progressivo del nazionalismo di Gheddafi venne gradualmente meno a partire dal 1992, con la firma dei trattati commerciali, politici e finanziari, attraverso cui fu invertito il corso delle nazionalizzazioni con privatizzazioni sempre più estese e l’introduzione di riforme in senso liberale direttamente sotto il controllo del Fmi.
Insomma, il giudizio così generoso su Gheddafi non riposa in altro se non nella nostalgia stalinista per un mondo bipolare che non esiste più, nella tragica tradizione “campista” propria dei ferrivecchi dello stalinismo: una tradizione che inevitabilmente sbocca in un supposto “schieramento antimperialista”, basato perlopiù sul blocco con le borghesie nazionaliste o con le burocrazie restaurazioniste, e che ha avuto un ruolo particolarmente negativo nella storia del movimento operaio subordinandolo agli interessi di queste stesse forze invece di dargli la prospettiva della rivoluzione socialista mondiale.
E non è casuale che l’articolo di Cararo riprenda le argomentazioni di Fidel Castro, che di quella burocrazia restaurazionista costituisce il più fulgido esempio (11), oltre ad essere stretto alleato di Gheddafi. Né è parimenti casuale che l’appoggio più esplicito al sanguinario regime di Tripoli sia venuto dal governo del Nicaragua (12) e, soprattutto, dall’altro idolo della sinistra neostalinista, Hugo Chávez, che ha espresso totale sostegno a Gheddafi, dopo che, al termine di un summit a due (13), nel paragonarlo a Simón Bolivar lo definì il liberatore del suo popolo, insignendolo della più importante onorificenza venezuelana.
 
Gheddafi antimperialista o agente dell’imperialismo?
E veniamo ora al “pezzo forte”, al centro nevralgico dell’articolo della Rete dei Comunisti.
Basandosi sulle dietrologie della stampa borghese, Cararo insinua che dietro ciò che accade in Libia via sia la mano dei servizi segreti italiani (!) e dell’imperialismo statunitense, la cui “aperta ingerenza” avrebbe l’obiettivo di “togliersi di torno un leader arabo odiato, odioso e imprevedibile”.
Anche qui appare evidente il maldestro tentativo di adattare la realtà alla propria visione delle cose (14). L’imperialismo degli Usa e dell’Ue all’inizio delle mobilitazioni ha avuto un atteggiamento prudente (15). Quando poi ha percepito che il dittatore non aveva più in pugno la situazione, gli ha chiesto di non usare la violenza e di trattare con l’opposizione. E solo ora che si rende conto che la rivoluzione può vincere gli chiede di lasciare il potere lasciando sullo sfondo la possibilità di un intervento diretto. Ma procediamo per gradi.
In realtà, in evidente disaccordo con Cararo, gli imperialisti da anni considerano Gheddafi il proprio agente nella regione: basti ricordare la docile collaborazione di quest’ultimo con gli Usa rispetto alla cosiddetta “guerra al terrorismo”, concretatasi nel riconoscimento della responsabilità per l’attentato di Lockerbie, nella consegna di tutti i nomi di cittadini libici sospettati di aver partecipato alla Jihad con Bin Laden, nella rinuncia alle “armi di distruzione di massa” con le pressioni sulla Siria perché facesse lo stesso; basti ricordare l’altrettanto docile collaborazione del rais con la Gran Bretagna quando consegnò tutti i nomi dei repubblicani irlandesi che si erano addestrati militarmente in Libia; basti ricordare gli accordi con l’Ue – e principalmente l’Italia – in funzione di contrasto all’immigrazione, con la creazione di campi di concentramento in cui vengono rinchiusi e torturati gli africani che attraverso la Libia cercano di entrare in Europa.
Come può Gheddafi essere ritenuto “odiato, odioso e imprevedibile” se nel 2002 Romano Prodi lo definiva “un amico di cui ci si può fidare”? Se, a partire dal 2004, Tripoli negozia discretamente con Israele attraverso il c.d. “Vertice della Sirte”? Se dall’ottobre dello stesso anno fu tolto l’embargo di armi alla Libia? Se nel 2008 la segretaria di Stato Usa, Condoleezza Rice, dichiarò: “la Libia e gli Stati Uniti condividono interessi permanenti: la cooperazione nella lotta al terrorismo, il commercio, la proliferazione nucleare, l’Africa, i diritti umani e la democrazia”? Se Berlusconi, Sarkozy, Zapatero e Blair, lo hanno ricevuto con tutti gli onori? Se solo un anno fa l’Onu ha eletto la Libia nel Consiglio per la difesa dei diritti umani?
 
La strategia dell’imperialismo: difendere direttamente i propri interessi ora che non è più difendibile l’agente
Certo, nelle ultime ore l’imperialismo ha mutato atteggiamento. Il massacro ai danni del popolo libico viene adesso utilizzato per giustificare un possibile intervento armato, semmai mascherato da “intervento umanitario”: l’argomento principale è quello di evitare un bagno di sangue, supportato dal corollario di impedire ad Al Qaeda di prendere in mano le redini della situazione (16).
Tuttavia, la ricostruzione della Rete dei Comunisti – secondo cui, così come dicono anche Castro, Ortega e Chávez, l’imperialismo è contro Gheddafi e prepara un intervento militare per liberarsene – è del tutto infondata: se, dopo aver sostenuto fino a ieri il dittatore, si vedrà costretto all’intervento armato, sarà proprio per difendere gli accordi che aveva raggiunto con Gheddafi e per cercare di controllare il Paese. Un Paese – ed è qui la vera, l’unica differenza con la Tunisia e l’Egitto che i residui dello stalinismo non vogliono vedere perché contraddice la loro visione delle cose – in cui non esiste una borghesia di ricambio sulla quale l’imperialismo può fare affidamento; in cui l’esercito è di fatto distrutto, con una parte delle truppe passata con l’opposizione e l’altra composta di mercenari; in cui il popolo è in armi ed è unito da una tradizione ribelle condivisa; in cui nelle città liberate e controllate dagli insorti armati sorgono embrioni di doppio potere; in cui a Bengasi, quando è giunta l’eco delle dichiarazioni di Hillary Clinton, sono apparsi grandi manifesti di ripudio per il possibile intervento Usa.
È questa, e solo questa, la ragione per cui l’imperialismo Usa e Ue deciderà, se non ci saranno soluzioni alternative, l’intervento in Libia: per difendere i propri interessi minacciati – dispiace per Cararo e la Rete dei Comunisti – non già da Gheddafi (che, come abbiamo visto, li ha rappresentati ottimamente per decenni) ma da una rivoluzione incontrollabile in un Paese chiave dell’area del Mediterraneo. Ed è la stessa ragione per cui agli imperialisti non è invece passato neanche per l’anticamera del cervello di ipotizzare un intervento in Tunisia o in Egitto, dove anzi potevano contare su una borghesia filoimperialista che per il momento garantisce una transizione ordinata continuando a gestire gli interessi delle potenze occidentali.
Naturalmente, ove questo scenario dovesse verificarsi, è necessario che i rivoluzionari di tutto il mondo sostengano attivamente la rivoluzione libica chiamando i popoli arabi confinanti – che già hanno dato prova del loro valore rovesciando le dittature di Tunisia ed Egitto – a combattere insieme ai loro fratelli della Libia organizzando spedizioni di armi e milizie armate che prendano parte a questo grandioso processo rivoluzionario nel più ampio processo rivoluzionario che ha attraversato tutto il Nord Africa. Rovesciare il dittatore e impedire il possibile intervento imperialista debbono essere i primi compiti per portare a termine questa rivoluzione democratica e approfondirne il corso affinché possa trascrescere in rivoluzione socialista.
 
Appoggiare la rivoluzione libica o l’imperialismo?
A ben vedere, invece, lo scopo di fondo di tutta l’argomentazione dell’articolo che qui commentiamo è quello da sempre utilizzato dalle correnti staliniste: la subordinazione del movimento operaio alle borghesie nazionali – in questo caso a quella corrotta e sanguinaria di Gheddafi – come base della teorizzazione di una presunta “rivoluzione a tappe”.
Ma la conclusione dell’articolo di Cararo vuole essere un colpo ad effetto per scompaginare il campo avverso: la sinistra che non fosse d’accordo su questa proposta in realtà “lavora per il re di Prussia o per il ritorno della monarchia!”. Davvero geniale, se non fosse anche questo un ferrovecchio dello stalinismo; cioè l’accusa di intelligenza con il nemico: “chi non assume la difesa di Gheddafi insieme ai nostri ‘padri nobili’ Castro e Chávez è un filomonarchico, poiché preferirebbe il ritorno del re Idris al valoroso combattente anticolonialista”.
Si tratta del più paradossale rovesciamento della realtà: è proprio l’embrassons-nous in un supposto “schieramento antimperialista” (per resistere agli Usa insieme al dittatore libico oggi e costruire in un domani indistinto e indeterminato lo Stato socialista relegato al momento solo negli infuocati discorsi della domenica) ad avere in ultima analisi un unico sbocco possibile: quello di approfondire la dipendenza della classe lavoratrice mondiale dalle forze borghesi che costituiscono gli agenti diretti del capitalismo imperialista e di svolgere una funzione oggettivamente controrivoluzionaria.
Detto in termini più espliciti: chi vuole difendere il dittatore libico salendo sull’autobus di Fidel Castro e di Hugo Chávez, non è solo un amico dell'anti-operaio e anti-comunista Gheddafi. E' anche un “compagno di merende” dell’imperialismo.
 
 
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(1) Mattia Toaldo, “Buongiorno Egitto”, in www.sinistraecologialiberta.it/vetrina/buongiorno-egitto.
(2) Liberazione, 11/2/2011.
(3) Così gli esponenti di Rifondazione comunista Claudio Grassi (“Venti di guerra”, in www.claudiograssi.org/wordpress/2011/02/venti-di-guerra/) e Simone Oggionni (“Fermiamo la guerra prima che sia troppo tardi”, in www.reblab.it/2011/02/fermiamo-la-guerra-prima-che-sia-troppo-tardi/).
(4) E' la Rete dei Comunisti stessa a vantare - ma all'estero, in convegni internazionali delle organizzazioni staliniste - di svolgere un "ruolo centrale" ieri in Rdb e oggi in Usb: si veda l'intervento pronunciato dal rappresentante della Rete dei Comunisti al "Seminario Comunista Internazionale di Bruxelles". del 2010. In effetti, anche se ciò non è noto alla gran parte degli attivisti di base di Usb, la maggioranza dell'Esecutivo di questo sindacato è composta da dirigenti della Rete dei Comunisti, che fanno un intervento organizzato ma nascosto dentro al sindacato e al contempo, paradossalmente (ma non tanto), polemizzano contro militanti di altri partiti che, viceversa, fanno attività sindacale senza celarsi. Su ciò si veda sul nostro sito "Una strana polemica. Risposta a un comunicato dell'Esecutivo Usb".
(5) Sergio Cararo, “Libia. Non è una rivolta popolare ma una guerra civile. I dovuti distinguo”, in www.contropiano.org/Documenti/2011/Febbraio11/24-02-11LibiaGuerraCivile.htm.
(6) Il Fatto Quotidiano, 21/2/2011.
(7) Ibidem.
(8) Primeggiano, quanto a penetrazione in terra libica, le italiane Finmeccanica, Saipem, Astaldi, Impregilo.
(9) Si pensi che l’età media in Egitto è di 24 anni, in Tunisia di 29, mentre in Libia il 50% della popolazione ha meno di 15 anni!
(10) Luciana Castellina, “Tragico epilogo”, il manifesto, 23/2/2011.
(11) Com’è noto, la posizione della Lit – Quarta Internazionale, di cui il PdAC costituisce la sezione italiana, è nel senso che a Cuba il capitalismo è stato restaurato dalla burocrazia castrista ancor oggi al potere. Per un approfondimento su quest’argomento, www.litci.org/inicio/especiais/cuba.
(12) Il presidente nicaraguense, Daniel Ortega, ha espresso “solidarietà e appoggio” a Gheddafi (Clarín, 23/2/2011).
(13) Nel settembre del 2009, si tenne un vertice dell’Asa (Africa-Sud America). Le decisioni assunte in quella riunione furono di dare vita a una sorta di Nato dell’America Latina con la partecipazione della Libia, a una Banca del sud del mondo (finanziariamente partecipata, appunto, dalla Libia) e a una specie di Opec del gas e del petrolio fondata dai due Paesi: il tutto in chiave formalmente antistatunitense.
(14) Gli anglosassoni descrivono questo processo con l’espressione “wishful thinking”.
(15) In un’intervista a Il Sole 24 Ore del 20/2/2011, Massimo D’Alema è giunto a ipotizzare una transizione in senso "più democratico" gestita dallo stesso Gheddafi.
(16) Curiosamente, è il medesimo spauracchio agitato dallo stesso Gheddafi. Tuttavia, la stampa internazionale esclude che vi sia nelle mobilitazioni in Libia (come non v’è stata in Egitto) la sia pur minima presenza di fondamentalismo islamico (Clarín, 24/2/2011).