Una miniera d’oro. Il grande business della privatizzazione dei servizi pubblici locali

Renato Strumia, "Umanità nova", n. 27, 9 ottobre 2011


“È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala”.
(dalla lettera “segreta” della BCE al Governo italiano, il 5 agosto del 2011)

La strategia delle istituzioni finanziarie internazionali per gestire la crisi dei debiti sovrani in Europa è ben sintetizzata dalla lettera che Trichet e Draghi hanno inviato a Berlusconi e Tremonti nelle giornate di fuoco della manovra speculativa contro l’Italia ed il sistema dell’euro. Naturalmente le ricette non si limitano a questo: gli euro-tecnocrati della moneta unica chiedono la totale liberalizzazione del mercato del lavoro, la possibilità di licenziare e la supremazia dei contratti aziendali su ogni altro tipo di negoziazione, per ridare flessibilità al sistema economico. Tutto questo dovrebbe consentire la salvaguardia del valore supremo per chi governa il sistema economico: il rispetto dell’onorabilità della firma, il mantenimento dell’impegno a pagare i debiti, il tenere fede alla parola data e quindi assumersi il compito di pelare i cittadini pur di salvare le banche e la finanza.
Liberalizzare i servizi pubblici locali è però una cosa ben diversa dal toccare i servizi professionali: lo dimostra la levata di scudi degli ordini, che hanno impedito al governo anche solo di discutere quello che timidamente aveva ipotizzato. Le categorie hanno fatto catenaccio, a partire dagli organizzatissimi avvocati, che rappresentano un settore molto potente del Parlamento italiano.
Gli enti locali sono vittime di tagli feroci che azzerano qualunque ipotesi di praticabilità del federalismo, fragile foglia di fico che non riesce più a coprire neanche per finta la totale integrazione della Lega dentro un equilibrio di potere che le stava molto bene, così com’era, e che sta fragorosamente crollando.
I tagli previsti dalla doppia (o quadrupla?) manovra estiva prevedono, da qui al 2013, un taglio dei trasferimenti agli enti locali di circa 7,4 miliardi di euro (dopo lo “sconto” di 1,8 miliardi di euro, sostituiti dalla Robin Tax sulle società energetiche). Il decreto prevede un premio di 500 milioni egli enti locali, nel caso che riescano a privatizzare le pubbliche utilità locali: sono in gioco più di 5.000 società con un volume di business da decine di miliardi.
Il tema della privatizzazione dei servizi assume pertanto un duplice significato: da una parte consente a comuni, province e regioni di procurarsi nuove fonti di entrate compensative, attraverso l’affidamento di servizi ai privati; dall’altra dischiude al capitale privato spazi di valorizzazione prima preclusi, potenziale terreno di guadagni sicuri, con ridotto impiego di capitale proprio.
Il dibattito sulla privatizzazione dei servizi è aperto da lungo tempo, nel nostro paese. Ed ha assunto fin da subito, nella seconda repubblica, carattere bipartisan. I partiti e gli schieramenti si sono spesso sfidati a chi era più liberista, a chi aveva il coraggio di privatizzare di più, più in fretta e a prezzi migliori per il bilancio statale.
La vendita del patrimonio statale è stata una pietra angolare, sin dai primi anni ’90, nel dibattito economico e nel processo che ci avrebbe portato all’integrazione europea: dal Britannia in poi, cioè da un’altra estate “rovente”, quella del 1992, in cui si decise sul panfilo della regina inglese, la svolta privatizzatrice, destra o sinistra, governi tecnici o politici, statalisti o liberisti, tutti si sono dati come obiettivo quello di ridimensionare il ruolo dello Stato e aprire al capitale privato.
L’attuale leader del centro-sinistra, Bersani, ha legato il proprio nome a due riforme “liberalizzatrici”: l’apertura del mercato dell’energia elettrica, quando era Ministro dell’Industria nel 1999 e le lenzuolate del 2006/2007, quando ricopriva lo stesso ruolo nel 2^ governo Prodi. Tra le altre cose, e divagando un attimo, abbiamo rivisto in questi giorni in televisione Bersani, ripreso alle spalle di Amato e Chirac, quando i governi italiano e francese, nel 2001, firmavano a Palazzo Reale di Torino l’accordo sulla TAV…
  Anche Bassanini ha lavorato sodo alla privatizzazione dei servizi pubblici locali, anche se è stato necessario aspettare il terzo governo Berlusconi, nell’autunno 2009, per vedere approvare un decreto che impone alle municipalizzate di scendere sotto il 30% nell’azionariato delle utilità locali, entro il 2015, pena la perdita della concessione. Il capitale si fa spazio a forza di decreti dei governi amici, ma verrebbe da dire che tutti i governi sono amici del capitale…
In ogni caso siamo nelle condizioni di trarre un primo bilancio delle “privatizzazioni” italiane, con particolare riferimento al segmento dei servizi di base.
Si intende per tali, in genere, tre settori: acqua, luce, gas.
Per quanto riguarda l’acqua, si è assistito dall’approvazione della legge Galli in poi, cioè dal 1994, ad un costante rincaro dei prezzi per le famiglie, giustificato con l’argomento che il sistema idrico “faceva acqua” da tutte le parti e quindi gli investimenti necessari per il ripristino avrebbero richiesto enormi capitali (privati). Quindi occorreva rendere profittevole il business. Ai privati sarebbe stato necessario persino garantire per legge un profitto del 7%, a prescindere dal capitale investito. L’esito del referendum sull’acqua ha posto la parola fine a queste facezie, ma dopo poche settimane i privatizzatori erano già tornati all’attacco (con rilevanti problemi giuridici, peraltro, perché il referendum non era finalizzato alla proprietà pubblica dell’acqua, ma alla pubblicizzazione delle municipalizzate).
Per quanto riguarda la luce, o meglio l’energia elettrica, il monopolio dell’Enel è stato smontato solo in parte, e solo per “aprire” il mercato ad una serie di soggetti, dalle municipalizzate alle società private, che applicano politiche tariffarie assai simili e spesso collusive, adottando peraltro politiche commerciali aggressive che sconfinano spesso nella truffa e nella criminalità di basso livello. Chi non ha mai sentito parlare di contratti estorti con l’inganno, nella più totale assenza di trasparenza e correttezza?
Per i consumatori, un’esperienza da dimenticare…
Per quanto riguarda il gas, sia domestico che per il riscaldamento, si tratta di una voce di spesa molto importante nel bilancio delle famiglie italiane (mediamente circa il 6%) ed anche qui si viaggia tra bollette incongruenti e tariffe malandrine: la differenza di spesa tra Lombardia e Sicilia si può spiegare con ragioni climatiche, ma perché in Emilia si deve pagare il 14% in più del Piemonte?
In buona sostanza ci sembra di poter concludere su questo punto in modo inequivocabile: il processo di liberalizzazione dei servizi non ha portato vantaggi ai consumatori, anzi; ha peggiorato la condizione lavorativa degli addetti ai settori coinvolti, aumentando esternalizzazioni e precarietà; ha accresciuto i profitti degli azionisti delle imprese coinvolte, ma solo nel breve periodo; l’esigenza di distribuire dividendi elevati ne ha infatti minato la capacità di investire nel lungo periodo, come faceva il monopolista sfruttando la sua posizione di rendita, ponendo a rischio la stessa profittabilità strategica, se non addirittura la sopravvivenza aziendale.
Il discorso si potrebbe ampliare ai servizi di telefonia, dove la spinta della concorrenza internazionale, la corsa alle tariffe flat, la tendenza alla concentrazione, hanno portato a pratiche collusive tra operatori, in difficoltà a gestire l’indebitamento e reggere gli elevati investimenti richiesti. Telecom era un’azienda all’avanguardia e oggi si è ridotta ad una sopravvivenza assai stentata, sotto tutela di partner bancari che non vedono l’ora di liberarsene e le mire della spagnola Telefonica, che ambisce a conquistare solo Tim Brasil.
Quello su cui rischia di incidere ancora più pesantemente il processo in corso è l’insieme dei servizi alla persona, che nella concezione tradizionale della costruzione del welfare, storicamente acquisita, dovevano essere forniti dalle amministrazioni pubbliche, in tutto o in parte, senza corrispettivo, in quanto elementi costitutivi dello stato sociale: istruzione, sanità, trasporti, giustizia.
L’irruzione del privato in questi settori è in corso da tempo e in alcuni casi è già saldamente consolidata una presenza non facilmente estirpabile. In genere la fornitura privata di servizi pubblici è caratterizzata da tre elementi: un servizio peggiore, un costo più elevato (a carico dello stato o dell’utente, a seconda dei casi); una condizione lavorativa e contrattuale sfavorevole per i lavoratori addetti. A fronte di questa triade di elementi negativi, c’è invariabilmente una interessante “creazione di valore” per l’azionista o l’imprenditore privato, che riesce a muoversi a proprio agio dentro i meandri della crisi della finanza pubblica, con gli agganci giusti, le gare indovinate ed il “giusto profitto”.
Lo scandalo dei pannoloni, esploso con la denuncia della tresca tra farmacie private  e Assessorato alla Sanità della Regione Piemonte, è un bell’esempio di amministratori “liberisti” che si costruiscono le ville con le tangenti, dopo avere preso i voti con il sostegno delle ‘ndrine calabresi (storia vera dell’ex assessore Pdl Caterina Ferrero, nuora dell’ex-sindaco di Leinì Coral, arrestato per appartenenza alle cosche). Per il “risanamento” la Sanità piemontese è stata affidata a Paolo Monferino, un ex-manager del Gruppo Fiat: come se fosse la stessa cosa costruire camion e curare le persone…
E’ lecito pensare che alla BCE non interessi affatto lo stato di benessere delle persone, né tanto meno garantire alle fasce svantaggiate della società la possibilità di sopravvivere in modo decente, avendo a disposizione un pacchetto minimo di servizi, affidabili e funzionanti, in forma gratuita o a prezzi accessibili. Tuttavia è proprio questa stabilità che a noi interessa, un obiettivo per cui vale la pena lottare. Non ci servono servizi orientati al mercato: noi dobbiamo batterci perché l’economia organizzata sia al servizio dell’uomo, e non viceversa.