Iraq sei mesi dopo. Fra resistenza e terrorismo

di Giuliana Sgrena, "Rivista del manifesto", N. 44, novembre 2003


Che accade nell'Iraq occupato? Le cronache registrano quotidianamente attacchi ai militari soprattutto Usa ma anche a membri del Consiglio governativo e alla polizia irachena `collaborazionista', atti clamorosi e sanguinosi di tipo terroristico contro autorità religiose e contro l'Onu, manifestazioni di protesta popolare per il lavoro, la sicurezza, i servizi elementari; ma c'è una resistenza all'occupazione anglo-americana in Iraq? Che cosa si intende per resistenza irachena? Tutto ciò che può essere riconducibile a una lotta - in forme più o meno condivisibili - contro l'occupazione straniera, oppure occorre fare delle distinzioni? L'interrogativo nasce dal fatto che per ora in Iraq non esiste una rappresentanza politica che rivendichi gli atti di guerriglia, e, se si vuole evitare di `mitizzare' il termine resistenza, è necessario fare una distinzione tra azioni armate contro le truppe straniere e atti di terrorismo che colpiscono indiscriminatamente. Vi è infatti un sentimento diffuso contro l'occupazione che si manifesta con un appoggio più o meno esplicito alle azioni armate, ai sabotaggi, ma prende le distanze dal terrorismo.
L'occupazione A oltre sei mesi dall'inizio dell'occupazione (9 aprile 2003) l'ostilità verso gli occupanti è aumentata ed è palpabile per le strade di Baghdad e di altre città irachene. L'illusione degli americani `liberatori' è ben presto crollata, anche tra chi aveva appoggiato l'intervento armato come necessario per eliminare Saddam Hussein. Lo rivela anche un sondaggio - per quanto credibile possa essere un'inchiesta realizzata di questi tempi in Iraq - del Centro iracheno di ricerca e studi strategici e diffuso il 23 ottobre. Secondo l'inchiesta, la percentuale di iracheni che considera gli americani invasori è salita dal 46 (il 9 aprile) al 67%, coloro che li considerano liberatori sono scesi dal 43 al 15%. Che cosa ha provocato questo cambiamento? Innanzitutto le condizioni di vita: dopo sei mesi di occupazione la situazione è peggiore di prima della guerra. Nonostante l'Iraq fosse già stato dissanguato da un seguito ininterrotto di guerre - quella contro l'Iran e la guerra del Golfo - e da dodici anni di embargo, la persistente mancanza di servizi essenziali - elettricità, acqua, telefoni - è avvertita con particolare acutezza. E soprattutto manca il lavoro: la disoccupazione supera il 50% (c'è chi parla addirittura del 75) della popolazione. Inoltre, in un paese senza legge, la violenza imperversa: furti, omicidi, stupri, rapimenti sono all'ordine del giorno. E s'aggiunge la resa dei conti in corso con i militanti dell'ex partito unico, il Baath, e gli assassinii a sfondo religioso - sono stati uccisi cristiani che vendevano alcoolici - o causati da rivalità politico-religiose.
In Iraq la sicurezza è ancora considerata la priorità. Ma ci sono due percezioni del problema: per gli americani - e gli altri militari stranieri - è il terrore quotidiano di essere colpiti ovunque. Le truppe Usa non sono più visibili come prima, la loro presenza è concentrata in alcune zone dove la resistenza è particolarmente attiva, il cosiddetto `triangolo sunnita', che si estende a ovest di Baghdad fino a Ramadi (a un centinaio di chilometri) per poi salire a nord fino a Tikrit (città natale di Saddam) e ridiscendere verso la capitale passando per Baquba, spostata leggermente a est. A Baghdad, dove i mezzi militari si sono rarefatti, si stanno costruendo muri enormi di cemento per circondare i possibili `target'. Innanzitutto la sede della Coalition Provisional Authority (Cpa), che occupa tutto l'ex palazzo presidenziale di Saddam, con l'enorme parco che lo circonda, diventato passaggio obbligatorio anche per raggiungere l'Hotel Rashid, una volta base dei giornalisti e ora residenza di funzionari e militari della coalizione (naturalmente dopo aver rimosso il mosaico di Bush padre collocato - all'epoca della prima guerra del Golfo - all'entrata dell'albergo e calpestato a ogni passaggio).
Questa bunkerizzazione ha indotto gli iracheni a sostenere che il proconsole Paul Bremer vive ormai più isolato di Saddam, un isolamento che evidentemente non è solo fisico, ma anche psicologico. Il Palazzo presidenziale non è il solo a essere stato bunkerizzato, l'alto muro ha circondato prima l'Hotel Baghdad, sede di gran parte degli agenti della Cia e del Mossad, e poi altri alberghi come il Palestine e lo Sheraton, tutti possibili bersagli a causa della presenza straniera. Ma nemmeno i muri basteranno; se ne rendono conto anche gli esperti di sicurezza piovuti a Baghdad da tutto il mondo, che si esercitano in complessi conteggi e calcoli di probabilità: se i dipendenti iracheni - numerosi - portassero dentro un hotel un etto di tritolo al giorno, quanto tempo ci vorrebbe per accumulare una quantità di esplosivo sufficiente a far saltare uno di questi alberghi? Molto tempo ma non infinito. Del resto, tra il personale, e non solo ai livelli più bassi, l'ostilità alla presenza Usa è diffusa e visibile.
Per gli iracheni mancanza di sicurezza vuol dire paura di furti quotidiani, in casa o nel negozio. Tutti sono armati; dopo una certa ora, che coincide con il buio e non con il coprifuoco, uscire è un'avventura pericolosa. La situazione è ancor più terribile per le donne: le violenze sessuali e i conseguenti e impuniti `delitti d'onore', i rapimenti e le sparizioni sono all'ordine del giorno. Una delle conseguenze più drammatiche è stata la drastica riduzione della percentuale di bambine che vanno a scuola, provocata dalla paura dei genitori di lasciarle uscire di casa.
E non è tutto. Gli iracheni temono anche i rastrellamenti compiuti dalle truppe americane. Durante il coprifuoco i militari irrompono di notte nelle case, buttano giù tutti dal letto, anche le donne - ed è facile immaginare la reazione di musulmani che vedono perquisire le mogli - e i bambini, terrorizzati quando viene loro puntato un fucile. Prima di perquisire la casa i soldati buttano fuori gli abitanti. Quando questi rientrano, protestano per la sparizione di oggetti di valore, gioielli e soldi ma non hanno modo di dimostrarlo. Gli arresti sono assolutamente arbitrari. L'entrata in funzione della polizia locale, che in gran parte ha sostituito i soldati stranieri nelle città, facilita i contatti con la popolazione, ma non ha certo migliorato la situazione. Nessun iracheno si affida alla protezione dei poliziotti iracheni, a loro volta bersaglio di attacchi in quanto `collaborazionisti' degli americani, i quali, per quanto li riguarda, si guardano bene dal fidarsi di ex poliziotti o ex militari di Saddam.
Alcuni ex militari sono stati riciclati nella polizia, ma la maggior parte dei 400.000 soldati dell'esercito iracheno - che sostiene di aver combattuto per l'Iraq e non per Saddam e che comunque da quando sono arrivati gli americani non ha più combattuto - è rimasta senza lavoro, costretta a fare file lunghe giornate intere per recuperare il sussidio minimo concesso dagli occupanti sin dal momento in cui si sono resi conto che inimicarsi un esercito ben armato (e le armi sono ancora nelle loro mani) non era una scelta prudente.
Tra i motivi che alimentano l'ostilità nei confronti dell'occupazione occorre anche tenere presente il numero di vittime civili. Non vi sono dati certi, ma le stime dell'organizzazione americana Iraq Body Count riferiscono di 5700 morti durante la guerra e 2000-2200, tra il primo maggio e la fine di settembre, dopo che Bush aveva dichiarato la `fine' del conflitto. Chi ha visto i propri cari cadere sotto il fuoco americano senza un motivo, se fino ad allora era rimasto indifferente all'occupazione, non nasconde più la propria avversione. Anche se si tratta di un sentimento quasi impotente.
Se non bastassero le condizioni di vita e i cosiddetti `effetti collaterali' di una guerra che continua, a diffondere un sentimento profondo di ostilità contro l'occupante si aggiunge l'ottusa arroganza degli americani che ferisce l'orgoglio e la dignità degli iracheni. Dopo l'esperienza umiliante della durezza e del disprezzo degli yankees, non basterà il ripristino della corrente elettrica e dei telefoni a far accettare l'occupazione. Tanto più che il piano di privatizzazioni, annunciato alla fine di settembre, ha reso palese l'obiettivo degli occupanti. Sebbene gli iracheni non si facessero illusioni sul fatto che Bush scatenava una guerra per liberarli di Saddam , ora le carte sono scoperte: l'obiettivo era ed è accaparrarsi il petrolio e tutte le risorse del paese.
Gli iracheni non hanno certo rinunciato alla loro sovranità e la maggior parte non si sente rappresentata dal Consiglio governativo - a sovranità limitata - che è stato nominato dall'amministratore Usa Paul Bremer, che ha l'ultima (o la prima) parola su tutte le decisioni. Anche i ministri nominati dal Consiglio governativo sono stati affiancati da potenti consiglieri anglo-britannici, più un italiano al ministero della cultura. Gli americani condizionano il passaggio di potere agli iracheni all'approvazione di una nuova Costituzione e allo svolgimento di elezioni. Ma quale consenso può riscuotere una Costituzione che non è stata elaborata da un organismo eletto e quindi rappresentativo?
Resistenza Questo è il quadro in cui la resistenza all'occupazione anglo-americana appoggiata da altri contingenti, compreso quello italiano, cresce ogni giorno. Poiché autori e organizzatori delle azioni armate non si dichiarano e non sono riconoscibili resta campo aperto per diverse attribuzioni. Si tratta di una realtà complessa. Non esiste, per quanto abbiamo potuto sapere finora, un coordinamento dei vari gruppi della resistenza armata, che si concentra soprattutto nel `triangolo sunnita', con episodi frequenti anche al Nord - Kirkuk e Mosul - e più sporadicamente nel Sud sciita. Non a caso la resistenza è soprattutto opera dei sunniti, la comunità religiosa cui Saddam ha sempre riservato privilegi eccezionali.
La scintilla della resistenza era scoccata a Falluja, una cittadina a cinquanta chilometri da Baghdad, quando alla fine di aprile gli americani avevano ucciso sedici manifestanti. Da allora Falluja è diventata il simbolo della resistenza e continua a essere teatro di continui attacchi alle truppe americane - che qui hanno subito molte perdite - ma anche delle rappresaglie degli occupanti. La matrice di questi attacchi non sarebbe tanto e soltanto `saddamista' ma, stando alle testimonianze da noi raccolte, religioso-tribale. Falluja è una cittadina che gode di un certo benessere: ha sfruttato la sua posizione strategica sulla strada di Amman per sviluppare attività economiche: trasporti e commercio. Ma è anche estremamente conservatrice: alle donne è stato imposto il velo già prima della caduta di Saddam; non si sono mai venduti alcoolici e non c'è mai stato un cinema, nel pieno rispetto dei dettami dell'islam nella versione wahabita (fondamentalisti sauditi) che qui ha una forte influenza. La città detta delle moschee trova nelle numerose madrasa (scuole coraniche) una base di resistenza religiosa che si sposa con gli interessi tribali di difesa di tradizioni e codici che si scontrano con le interferenze occidentali. Sempre a Falluja, ma l'esempio può valere anche per altre situazioni simili, abbiamo trovato anche chi si oppone alla presenza americana richiamandosi ai valori del nazionalismo laico del Baath della prima ora, non quello islamizzato e tribalizzato di Saddam. La scelta americana di nominare il Consiglio governativo su basi etnico-religiose ha come obiettivo, sostengono molti iracheni, proprio quello di colpire il nazionalismo arabo oltre che di dividere il paese in tre zone: sciiti al Sud, sunniti al centro e kurdi al Nord.
A Baquba, una delle città che ha dato un grande contributo in uomini all'esercito di Saddam, la resistenza sembra motivata soprattutto da questa `vocazione'. A Tikrit, la città natale di Saddam i cui abitanti hanno goduto di notevoli privilegi durante il passato regime, la resistenza è anche espressione di rimpianti per l'ex rais. Ed è soprattutto nella zona di Tikrit che la resistenza assume anche la forma di sabotaggio agli oleodotti in cui passa il petrolio che rimpingua il fondo gestito dagli americani.
Il fatto che non esista un leader della resistenza, rischia di far riemergere Saddam come il simbolo della lotta contro l'occupazione. Non a caso i ritratti dell'ex rais sono riapparsi in molte manifestazioni anti-americane, si è riascoltato lo slogan con cui si inneggiava al rais prima della guerra («Con la nostra anima, con il nostro sangue ci sacrificheremo per te Saddam!») e si rafforza l'elemento religioso di una resistenza che si richiama senza troppa convinzione al jihad (guerra santa). È una ripresa di vecchi sentimenti che fa ripensare alle minacce lanciate da Saddam prima della guerra, quando sosteneva che avrebbe fatto arrivare gli invasori fino a Baghdad per poi colpirli strada per strada, casa per casa, e la capitale sarebbe diventata la tomba degli americani.
Le azioni quotidiane contro le truppe americane, anche quando sono realizzate con ordigni artigianali, dimostrano una preparazione militare. Del resto, la maggior parte degli iracheni ha combattuto per anni (soprattutto contro l'Iran), ed è quindi sicuramente preparata a fare la guerra, e inoltre dispone in abbondanza di armi, non solo fucili (prima della guerra Saddam aveva concesso il porto d'armi a tutti, e le stime parlano della presenza di sette milioni di fucili su una popolazione di 24 milioni di abitanti), ma anche lanciarazzi, bazooka e contraerea. I depositi di armi sono rimasti incustoditi dopo l'occupazione e tutti hanno potuto rifornirsi.
Il vero salto di qualità, nei rapporti di forza tra la resistenza e gli occupanti, sarebbe rappresentato dall'entrata in scena degli sciiti che per ora, al di là di qualche dichiarazione infuocata del leader più fanatico e radicale Muqtada al Sadr, sono rimasti in attesa. Per diversi motivi: innanzi tutto perché hanno subito più di ogni altro gruppo la spietata repressione di Saddam e quindi hanno vissuto - anche quando non l'hanno condiviso pienamente - l'intervento armato americano come una liberazione da un regime sanguinario. Inoltre molti sciiti si illudono che comunque gli americani si ritireranno e dichiarano che, se entro sei mesi/un anno non lo faranno, penseranno a organizzare una reazione. Dopo la persecuzione operata da Saddam, dicono, hanno bisogno di tempo per riorganizzarsi, ma è anche vero che sono divisi: alcune componenti, come lo Sciiri (Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq) e il partito Dawa (il primo partito religioso iracheno), sono entrate a far parte del Consiglio governativo, invece Muqtada, l'unica organizzazione che si è sempre schierata contro la presenza Usa, è rimasta fuori. Tutti sono comunque legati a Teheran, dove hanno trascorso gran parte dell'esilio, e da cui aspettano indicazioni, che dipendono peraltro da molti fattori, comprese le minacce di Bush contro il regime degli ayatollah. Nel frattempo i vari mullah hanno occupato molti spazi politici e istituzionali rimasti vacanti dopo la caduta di Saddam, ponendo una forte ipoteca sul futuro assetto del paese.
Terrorismo Dopo che lo slogan delle `armi di distruzione di massa' si è praticamente dissolto, Bush ha cercato di inserire la guerra contro l'Iraq nella campagna contro il terrorismo. In Iraq esisteva un gruppo, al Ansar al Islam, formato soprattutto da kurdi e da `afghani' che si erano stabiliti nel Kurdistan iracheno al confine con l'Iran, ingaggiando spesso scontri con l'Unione patriottica del Kurdistan, che controlla quella zona. Ma prove che Saddam avesse legami con gruppi terroristici non sono mai state trovate, anzi la Ansar al Islam aveva definito Saddam un miscredente. Tuttavia, dopo la caduta del regime, con le frontiere completamente fuori controllo e un paese nel caos, molti `combattenti' provenienti da altri paesi islamici sarebbero arrivati in Iraq. Gli iracheni tendono ad attribuire a questi gruppi gli attentati terroristici che hanno provocato decine di vittime e che, soprattutto, hanno duramente colpito la presenza dell'Onu a Baghdad. Come molti avevano previsto, e temuto, è stata proprio l'invasione americana, con tutte le sue conseguenze, a favorire l'espandersi del contagio terrorista.
Conclusioni Che cosa ci si deve aspettare per il futuro? Probabilmente la situazione peggiorerà, le forze di occupazione non sembrano aver imparato dagli errori commessi: aver lasciato precipitare insieme al regime di Saddam tutte le istituzioni dello Stato ha creato un vuoto di potere istituzionale; aver tollerato saccheggi di ogni genere, anche dei musei, ha ferito un popolo orgoglioso della propria cultura millenaria; aver dissolto l'esercito e alcuni ministeri, sospeso dal lavoro i militanti (centinaia di migliaia) del partito Baath ha aumentato in modo esponenziale la disoccupazione; infine, l'arroganza e la violenza quotidiane offendono aspramente la dignità di un popolo orgoglioso. Gli occupanti si sono alienati anche individui e gruppi che all'inizio li avevano sostenuti, o tollerati perché pensavano di poter trarre vantaggio dalla nuova situazione. Tuttavia, finora, a parte le azioni armate, la gente che manifesta contro gli occupanti - disoccupati, militari, donne - non ha una rappresentanza politica. Il denominatore comune dei sentimenti ostili all'occupazione potrebbe essere la rivendicazione della sovranità irachena, ma i partiti più importanti, entrando a far parte del Consiglio governativo nominato da Paul Bremer, hanno accettato la tutela Usa e l'esercizio di una sovranità limitata, rinunciando fare politica: laici e islamisti sono stati cooptati in una situazione di protettorato in nome di un senso di responsabilità nella gestione della transizione verso una futura sovranità, che gli ha imposto di accantonare le proprie identità e differenze, rinviando (a quando?) le scelte fondamentali sul futuro del paese.