Privatizzazioni e fine della grande industria in Italia. Primato ideologico della centralità dell’impresa, condizioni reali dei lavoratori e dell’economia generale
 
Vladimiro Giacchè, "L'Ernesto", maggio-giugno 2003


1. Dai profitti industriali alle rendite da monopolio

“Dalla metà degli anni novanta è iniziato un declino della competitività che ha riportato la partecipazione italiana agli scambi mondiali al livello raggiunto alla metà degli anni sessanta... La perdita è diffusa in tutti i mercati... È scarsa la presenza delle nostre merci nei settori tecnologicamente avanzati... L’aumento degli acquisti dall’estero per soddisfare una porzione crescente della domanda interna di prodotti finiti e di beni intermedi ha nettamente superato quello delle esportazioni”. Lo ha detto Antonio Fazio all’assemblea della Banca d’Italia del 31 maggio scorso, mandando su tutte le furie il presidente della Confindustria D’Amato. La verità, però, è ancora peggiore, e comincia ormai ad aver corso anche su quotidiani e periodici a larga diffusione. “Nell’ultimo decennio del secolo Ventesimo l’Italia ha perso la sua grande industria manifatturiera”(1). “Se si guarda alla mappa del capitalismo italiano si fa una curiosa scoperta. Dopo il tramonto di Fiat Auto gli unici grandi gruppi rimasti in piedi sono quelli ex-monopolistici pubblici e di fatto ancora sotto controllo pubblico: Eni e Enel. Anche l’ultimo grande gruppo privato rimasto, Tronchetti-Telecom, nasce in realtà come monopolio pubblico. Ci tocca celebrare la scomparsa della grande industria italiana”.(2)
Fermiamoci sull’ultima citazione. Significa che dobbiamo dire addio alle grandi famiglie, ai grandi nomi del capitalismo italiano? Assolutamente no: praticamente nessuno dei vecchi capitalisti industriali è scomparso. Hanno soltanto cambiato mestiere: adesso riscuotono le nostre bollette. Negli anni Novanta le grandi famiglie del capitalismo italiano hanno abbandonato la nave del settore manifatturiero, l’hanno lasciata colare a picco e si sono imbarcate sulla scialuppa di salvataggio offerta dalle società pubbliche in via di privatizzazione. Per avere conferma di questo basta scorrere l’elenco degli azionisti di controllo delle principali società di fornitura di servizi pubblici (le cosiddette “utilities”) privatizzate. Oltretutto, talvolta la coincidenza tra il momento del passaggio ai servizi pubblici e la crisi nei settori di origine è addirittura impressionante. Così, la Fiat si lancia nell’avventura di Montedison al peggiorare della situazione nel settore auto.(3) Pirelli si compra Telecom quando arrivano i primi segnali della crisi nei suoi comparti tradizionali, ed in particolare nel settore cavi e sistemi di telecomunicazione, poi destinata ad aggravarsi drasticamente.(4) Infine, Benetton nei primi mesi del 2003 lancia una offerta pubblica di acquisto in borsa sulle azioni di Autostrade; negli stessi giorni escono i dati del suo conto economico 2002, che evidenziano la contrazione di tutte le voci principali.(5) Sul manifesto c’è chi osserva che “fa un po’ pena vedere la famiglia più innovativa d’Italia abbandonare i colors per indossare il grigio abito dell’esattore al casello autostradale”. Ma forse non è il caso di commuoversi troppo: infatti il rendimento sul capitale investito nelle magliette è (quando va bene) del 7%, quello dei pedaggi autostradali arriva al 18%.(6)
Questo dato chiarisce molto bene il motivo della passione generalizzata degli ex capitalisti industriali del nostro Paese per le utilities in via di privatizzazione: queste società rappresentano una fonte di profitti certa, che può godere di una rendita di monopolio (o, nel peggiore dei casi, oligopolistica); si tratta tra l’altro di una fonte di profitti sottratta non soltanto alle fasi alterne del ciclo economico (le bollette si pagano sempre), ma anche alla concorrenza internazionale. La famiglia Benetton, insomma, non ha di che lamentarsi. Noi invece sì: perché un’economia il cui settore manifatturiero dà forfait non ha futuro.
Si potrebbe obiettare che tra le molte privatizzazioni effettuate negli anni Novanta non poche riguardavano aziende industriali (spesso a suo tempo acquisite dallo stato perché i loro proprietari le avevano condotte sull’orlo del fallimento): si tratta di circa un terzo delle società vendute, e per lo più di grandi imprese. Che fine hanno fatto? Se le sono comprate grandi gruppi multinazionali, traendone notevoli vantaggi in termini strategici. Ecco come sono andate le cose: “Krupp ha comprato la Acciai Speciali Terni diventando il primo produttore mondiale di laminati piani in acciaio inossidabile. La Nestlé con Italgel è entrata nel settore dei surgelati, con Motta, Alemagna e Antica Gelateria del Corso nei gelati, completando la sua gamma di prodotti. La Pilkington, con la Siv, ha raddoppiato la sua quota in Europa nei vetri per autoveicoli raggiungendo con il 36% la Saint Gobain. Prendendo l’Alcantara dall’ENI, il gruppo giapponese Toray ha raggiunto il 50% della produzione mondiale di tessuti tipo suede a base di ultramicrofibre. Con la Inca, la Dow Chemical è entrata in un mercato dal quale era assente: i granuli di Pet per bottiglie di acque minerali. La General Electric ha preso la Nuovo Pignone che, con una quota del 25%, rappresenta il maggior produttore mondiale nei compressori per impianti petroliferi. Una delle vendite più dolorose per l’industria italiana italiana è stata la Elsag Baily finita alla Abb, colosso svizzero-svedese, leader mondiale nei flussometri e tra i primi nell’automazione industriale”.(7) Citando questo elenco, due dati balzano subito agli occhi: in primo luogo, non abbiamo a che fare con aziende “decotte” né a basso contenuto tecnologico; in secondo luogo, queste acquisizioni, a differenza della quasi totalità di quelle effettuate dai capitalisti di casa nostra, sono funzionali ad un ulteriore sviluppo nel settore manifatturiero delle multinazionali acquirenti.
Le privatizzazioni italiane, insomma, sono state un Giano bifronte: da una parte la privatizzazione delle utilities, che ha offerto alle principali dinastie imprenditoriali nostrane una comoda e redditizia via di fuga dal settore manifatturiero; dall’altra, quella delle imprese industriali, che ha consentito il controllo di una buona fetta dell'apparato industriale del nostro paese da parte di imprese multinazionali.

2. L’ideologia delle privatizzazioni: l’“efficienza del privato”

Questi gli effetti delle privatizzazioni. I motivi addotti a suo tempo per privatizzare, ovviamente, non erano questi. Ci dissero allora (Rita Martufi e Luciano Vasapollo lo ricordano nel loro bel libro su questi argomenti) che le privatizzazioni non erano soltanto una dura necessità, una via obbligata per “fare cassa” e pagarsi il biglietto per entrare nel club dell’euro, ma avrebbero consentito di modernizzare il nostro Paese.(8) In che modo? In tre modi: 1) ridimensionando la presenza pubblica nell’economia (eliminando lo “Stato imprenditore”), 2) rafforzando il mercato finanziario italiano, e – soprattutto – 3) restituendo efficienza alle imprese privatizzate.
In particolare su quest’ultimo punto la vittoria del fronte pro-privatizzazione è stata totale, anche a sinistra: la tesi secondo cui l’impresa pubblica sarebbe per definizione (e non, poniamo, a causa delle ruberie di DC e PSI) inefficiente rispetto all’impresa privata è diventata senso comune. Peccato che sia falsa. Tanto per cominciare, come è stato ricordato in un utile saggio su questi argomenti, “le numerose ricerche condotte per misurare l’efficienza relativa impresa pubblica-impresa privata fino ad ora non hanno dato risposte univoche”: in altri termini, non esiste alcuna dimostrazione della superiorità, in termini di efficienza, dell’impresa privata sull’impresa pubblica. Non solo: “ciò che è ritenuto espressione di inefficienza delle imprese pubbliche, ... spesso altro non è che la conseguenza di una funzione obiettiva stabilita dal soggetto politico che non considera prioritaria l’efficienza”. In altri termini: “le imprese pubbliche sono in grado di essere efficienti; possono tuttavia essere chiamate dal referente politico a perseguire obiettivi generali, quali ad esempio redistribuzione del reddito, salvaguardia dell’occupazione, sostegno della produzione nazionale e/o alle aree depresse, soddisfacimento di particolari interessi.” Insomma, non c’è una “intrinseca incapacità ad essere efficienti” delle imprese pubbliche.
Dal punto di vista dell’efficienza(9) “il contesto concorrenziale in cui opera l’impresa è più importante dell’assetto proprietario: è la presenza di concorrenti che costringe l’operatore pubblico o privato ad adottare comportamenti efficienti, pena l’emarginazione dal mercato”.(10) E, viceversa, è il possesso di una rendita monopolistica che rende inefficiente un’impresa. Questo punto è importante, perché le imprese di stato che forniscono servizi pubblici sono state privatizzate, ma in genere i loro mercati non sono stati liberalizzati. Ora, quando si privatizza senza liberalizzare, non si fa che sostituire ai monopolisti pubblici monopolisti privati.(11) Con l’aggravante che in questo secondo caso l’assetto proprietario impedisce che lo Stato possa adottare misure, quali la fissazione di tetti ai prezzi, per contenere lo sfruttamento della rendita di monopolio. Come ben sanno i lavoratori, il cui potere d’acquisto negli ultimi anni è stato eroso in misura significativa anche dall’aumento dei prezzi dei servizi pubblici.
Infine, non va dimenticato che nella storia italiana degli ultimi anni non ci sono soltanto monopoli rimasti tali, ma anche concentrazioni create a seguito delle privatizzazioni. A questo proposito una ricerca prodotta da Mediobanca e presentata al Parlamento nell’ottobre 2000 ha potuto concludere che “gli effetti sull’industria delle privatizzazioni hanno comportato in generale un aumento della concentrazione, e quindi – in via di principio – una riduzione della concorrenza”.(12)

3. ...e la “nuova democrazia economica” dei piccoli investitori

Se quanto all’”efficienza” la situazione non appare particolarmente allegra, non diversamente vanno le cose per quanto riguarda un altro obiettivo delle privatizzazioni: la creazione di un mercato finanziario sviluppato, in linea con gli altri principali Paesi europei. Questo obiettivo si componeva, a sua volta, di due obiettivi-condizioni. 1) la diffusione dell’investimento azionario a livello di massa, presentato come un fattore di “democrazia economica”; 2) la quotazione in borsa di un numero maggiore di imprese private. Le privatizzazioni avrebbero potuto contribuire a raggiungere tali obiettivi in questo modo: le società privatizzate sarebbero state quotate in borsa, facendone delle public companies (aziende ad azionariato molto frammentato) ed invogliando i risparmiatori ad acquisirne delle quote. Così la quantità dei titoli trattati alla borsa di Milano sarebbe cresciuta, lo spessore del mercato sarebbe aumentato, e questo avrebbe indotto alla quotazione molti proprietari di imprese non quotate.
Questa operazione è riuscita solo a metà: la prima metà. Infatti è vero che molti risparmiatori hanno partecipato alle privatizzazioni. Ma i capitalisti italiani, salvo pochissime eccezioni, si sono ben guardati dal portare le proprie imprese in borsa.(13) In compenso, hanno acquisito quelle privatizzate assumendone il controllo. In questo modo, “la maggior parte delle principali società privatizzate ad azionariato diffuso sono state oggetto di successive acquisizioni che hanno portato in alcuni casi al loro delisting [uscita dal listino di Borsa] o alla determinazione di un assetto di controllo fortemente concentrato”.(14) Altro che public company!
In effetti, non solo la concentrazione proprietaria delle principali società quotate italiane è rimasta molto maggiore della media europea, ma negli ultimi anni è cresciuta la concentrazione attraverso le “scatole cinesi”, un meccanismo che consente agli azionisti più importanti di una determinata società di controllare un quota del capitale assai maggiore di quella effettivamente detenuta. E quindi consente la concentrazione del controllo senza che ci sia la concentrazione della proprietà.(15)
In questo contesto, quale ruolo giocano i risparmiatori, i piccoli investitori che dovrebbero costituire il pilastro della nuova democrazia economica? Quello di mettere i soldi nella società e di rendere possibile agli azionisti principali di controllarla senza doverla possedere. È, insomma, ancora vero quanto denunciava già Lenin: “La ‘democratizzazione’ del possesso di azioni, dalla quale i sofisti borghesi e gli opportunisti ‘pseudosocialdemocratici’ si ripromettono (o fingono di ripromettersi) la ‘democratizzazione del capitale’, l’aumento di importanza e di funzione della piccola produzione, ecc., nella realtà costituisce un mezzo per accrescere la potenza dell’oligarchia finanziaria”.(16)

4. Un bilancio per dire “no”

Volendo tracciare un bilancio delle privatizzazioni italiane, si può dire che tra i suoi obiettivi dichiarati siano stati conseguiti soltanto quello di “far cassa” (sono state vendute proprietà per un valore di 220.000 miliardi di lire) e quello di ridimensionare la presenza statale nell’economia: di fatto è stata eliminata l’”economista mista” che aveva caratterizzato l’Italia dagli anni Sessanta in poi. È assai difficile sostenere che i lavoratori, ma più in generale il sistema economico del nostro Paese, abbiano tratto giovamento da tutto questo. Per quanto riguarda più in particolare il settore manifatturiero, siamo di fronte ad una crisi senza precedenti. E questa crisi non è avvenuta nonostante le privatizzazioni, ma a causa anche di esse. Lo ha ammesso anche un editorialista del Sole come Giangiacomo Nardozzi: “la grande stagione delle privatizzazioni ha sì lasciato la gran parte delle attività dismesse in mani italiane, ma a costo di indebolire lo slancio competitivo di importanti pezzi dell’industria, offrendo occasioni di più facili profitti”.(17)
Nel frattempo, la dismissione delle proprietà pubbliche ha privato lo Stato di un’importante leva di politica industriale, le tariffe dei servizi pubblici sono aumentate, le condizioni dei lavoratori sono peggiorate, e la “democrazia economica” dei piccoli speculatori di borsa si è rivelata per quello che era – ossia una trappola per allocchi. Prendere consapevolezza di tutto questo è importante, alla vigilia della seconda (ed ultima) tornata di privatizzazioni, quella che investirà in particolare i servizi pubblici locali. È importante per opporsi con efficacia a questa politica ed alle mistificazioni ideologiche che la sorreggono.
 

Note:

1 M. Mucchetti, Licenziare i padroni?, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 160.

2 G. Turani, “Grande industria addio, in Italia si chiude un’era”, la Repubblica, 6 ottobre 2002.

3 Montedison (oggi Edison) non è una società privatizzata, ma vede crescere i suoi spazi potenziali di mercato in occasione del riordino oligopolistico del mercato dell’energia successivo alla parziale privatizzazione dell’Enel.

4 Il 2002 si è chiuso per la Pirelli & C. con una perdita netta di 58,4 milioni di euro e con un giro d’affari in calo del 13,2% (fonte: il Sole 24 ore, 7/5/2003).

5 Fatturato: -5%; risultato operativo: -15%; e, dulcis in fundo, perdita netta di 9,8 milioni di euro (contro l’attivo di 148 milioni del 2001).

6 Galapagos, “United colors of rendita”, il manifesto, 23/2/2003. “C’erano una volta gli united colors of Benetton”, Il Riformista, 8/2/2003.

7 S. Cingolani, “I boiardi son spariti, dove sono i capitalisti?”, Il Riformista, 17/5/2003.

8 R. Martufi, L.Vasapollo, Vizi privati... senza pubbliche virtù. Lo stato delle privatizzazioni e il Reddito Sociale Minimo, Napoli, Mediaprint, 2003, p. 82.

9 G. Bognetti, Il processo di privatizzazione nell’attuale contesto internazionale, “Working Paper” n. 23.2001 (dicembre 2001), Dipartimento Economia Politica e Aziendale, Università degli Studi di Milano, pp. 4-5.

10 G. Bognetti, cit.

11 Va aggiunto che in qualche caso le liberalizzazioni non sono attuabili. Basti pensare ai servizi pubblici a rete, che agiscono in condizioni di monopolio naturale: qui sono le caratteristiche del mercato di riferimento a rendere necessaria l’esistenza di un monopolio. In casi come questi una eventuale liberalizzazione potrebbe infatti avere effetti disastrosi, creando società non in grado di sostenersi economicamente.

12 Le privatizzazioni in Italia dal 1992, a cura della R & S, ottobre 2000, p. 14. Si noti lo stupendo eufemismo rappresentato dalla locuzione “in via di principio”.

13 Le imprese quotate sono infatti diminuite negli ultimi anni: erano 276 alla fine del 2001, oggi sono 265 (A. Fazio, Considerazioni finali, 31 maggio 2003, p. 31).

14 Consob, Relazione per l’anno 2002, p. 3. Il delisting è un caso da manuale di centralizzazione dei capitali.

15 Il sistema delle “scatole cinesi” (o del “controllo a cascata”) è utilizzato da Agnelli, Barilla, Benetton, De Benedetti, Gavazzi, Orlando, Pesenti, Pininfarina, Tronchetti Provera (vedi R. Amoruso, “In quelle casseforti c’è il 30% di borsa”, MF, 1/2/2003). In questo modo, rileva Mucchetti, “la famiglia Agnelli governa su un impero che vale cento rischiando di tasca propria, in proporzione, non più di dodici”, e “Tronchetti decide come vuole in Pirelli avendovi impegnato una quota reale pari a un misero 3,6 per cento del totale”, e – per quanto riguarda Telecom Italia – con un investimento appena dello “0,018 [sic!] per cento del totale” (op.cit., pp. 52 e 100).

16 V.I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, 1916-7; tr.it. in Scritti economici, a cura di U. Cerroni, Roma, 1977, p. 535.

17 G. Nardozzi, il Sole 24 Ore, 20/10/2002.