"Il mestiere di sopravvivere. Storie di lavoro nella crisi di una città-fabbrica"

di Fabrizio Billi, "Guerre & Pace", 2001


Gabriele Polo, "Il mestiere di sopravvivere. Storie di lavoro nella crisi di una città-fabbrica", Editori Riuniti, 2000, p. 175, L. 18.000

“Flessibilità” e “sicurezza” sono le due parole-chiave del dibattito politico odierno. Tutti fanno a gara a promettere maggior flessibilità e maggior sicurezza. Quasi nessuno osa affermare che forse non sono il rimedio alla disoccupazione e alla criminalità. Gabriele Polo riflette sul nesso tra flessibilità e sicurezza partendo dall’analisi della situazione di Torino, di cosa sia la flessibilità nell’economia della città. Torino, a partire dal 1980, ha visto una drastica riduzione del personale Fiat e dei lavoratori delle ditte in qualche modo legate alla Fiat. Questo non significa che le cose siano andate male per la Fiat, che anzi ha accresciuto fatturato e profitti. Si è trattato invece di un processo di riconversione industriale che ha portato ad una sempre maggiore esternalizzazione, ovvero l’affidare a ditte esterne lo svolgimento di alcune fasi produttive, come, nel caso della Fiat, la produzione di componentistica per auto, restando alla casa madre l’assemblaggio e le attività commerciali.
Ma cosa significa veramente, nel concreto, la flessibilità? Gabriele Polo racconta la vita di alcuni lavoratori “atipici”: con contratti part-time, a tempo determinato, di collaborazione coordinata e continuativa, insomma con tutti i tipi di contratto tranne quello a tempo indeterminato. Il libro si basa su una serie di interviste a lavoratori atipici. Il quadro che ne emerge è drammatico: la flessibilità si risolve quasi sempre in orari lunghissimi, bassi salari, alternanza di periodi di lavoro a periodi di non lavoro, insomma in un netto peggioramento delle condizioni di lavoro che si ripercuotono nel peggioramento delle stesse condizioni di vita. La precarietà, il basso reddito, le molte ore di lavoro incidono pesantemente sulla vita sociale ed affettiva: “non è flessibile il lavoro, diventa flessibile la vita”.
Potrebbe sembrare che l’analisi di Polo abbia un tono dickensiano: come Dickens descriveva le misere condizioni di vita e di lavoro degli operai inglesi durante la rivoluzione industriale, Polo analogamente descrive vite di persone che, due secoli dopo, si arrabattano per sopravvivere. Ma il quadro desolante che emerge dalle storie di vita dei lavoratori atipici è rafforzato da citazioni di indagini statistiche che inframmezzano i capitoli. Da queste statistiche risulta, per esempio, secondo una indagine del Cnel, che solo il 12 per cento dei lavoratori atipici può vantare una entrata mensile superiore ai due milioni, e quindi disporre di un reddito che non sia di mera sopravvivenza. Dunque “se la cavano bene solo gli autonomi che appartengono alle élites del sapere”, i professionisti di alto livello, non la grande maggioranza dei lavoratori atipici.
La flessibilità è vissuta soggettivamente in modo differente dalle persone intervistate. Per alcuni i lavori precari sono la sola opportunità di lavoro che siano riusciti a trovare, per altri è una scelta da preferire al posto fisso perché considerata in grado di dare maggiore indipendenza e libertà.
Ma il lavoro indipendente, senza padroni, è solo un mito: “la vera indipendenza è quella delle imprese committenti, basata sulla temporaneità del rapporto di lavoro”. Con i contratti atipici le grandi imprese riescono a ridurre i costi del personale, dovendo pagare minori oneri fiscali e pensionistici e non avendo personale a cui pagare uno stipendio anche nei momenti in cui il mercato ristagna. Il maggior datore di lavoro atipico di Torino è certamente la Fiat, che dall’inizio degli anni ’80, per ridurre i costi al livello della concorrenza, ha drasticamente ridotto il personale. Nel corso di un decennio, dall’inizio degli anni ’80 all’inizio degli anni ’90, i dipendenti del settore auto della Fiat sono dimezzati da 80.000 a 40.000. Spesso la Fiat ha incentivato gli ex dipendenti a mettersi in proprio per svolgere la stessa attività che svolgevano prima alla Fiat, ma stavolta da “indipendenti”, dai quali la Fiat acquista beni e servizi. Questo non avviene solo per la produzione di componentistica per auto, ma anche per le mansioni impiegatizie, come descrive una delle vicende raccontate, il caso di un ex quadro Fiat, prepensionato e che continua a svolgere la stessa attività che svolgeva quando era dipendente Fiat, nello stesso ufficio, ma stavolta a costi minori per la Fiat, potendo ora disporre di una pensione che costituisce la base del suo reddito. Insomma, dopo la cassa integrazione, ora anche la pensione è diventata un aiuto di Stato alla Fiat!
In genere i più anziani, coloro che lavorano da molti anni, sono riusciti a costruirsi un minimo di benessere, quando, fino all’inizio degli anni ’80, le cose andavano meglio: è da venti anni che la Fiat ha iniziato a licenziare non solo gli operai ma, cosa prima inconcepibile, anche gli impiegati, e che con la politica della qualità totale, decisa nel convegno dei dirigenti Fiat a Marentino, ha costretto le imprese subfornitrici ad una durissima concorrenza che ha portato margini di guadagno risicatissimi per centinaia di piccole imprese subfornitrici. Chi invece si è affacciato al mondo del lavoro negli ultimi venti anni, ha trovato per lo più solo impieghi precari e bassi redditi. E’ una svolta epocale, è venuta meno la possibilità di ascesa sociale caratteristica del dopoguerra, è venuta meno la possibilità “che i figli dei contadini avrebbero fatto gli operai, quelli degli operai gli impiegati, quelli degli impiegati i dirigenti, quelli dei dirigenti i liberi professionisti. Gli studi, la laurea, sarebbero stati la chiave per aprire la porta di una nuova “stanza sociale” più bella e ampia della precedente, e nessuno sarebbe più tornato indietro”. Oggi la laurea, specie nelle materie umanistiche, non serve più ad entrare nel mercato del lavoro. Polo racconta le vicende di laureati in lettere che, come Cristina, per conto di grandi case editrici compila libri di frasi di personaggi famosi o libri di barzellette, oppure come Barbara, “un’inutile laurea in lettere e cinque lavori: accompagnatrice turistica, hostess per fiere e saloni, standista, “pierre” e art director per discoteche”, e con questi cinque lavori guadagna un milione al mese.
La fine della stabilità dell’impiego ha portato anche ad un mutamento della rappresentanza politica. In numerosi degli episodi raccontati, si è passati dal voto al Pci, un voto di appartenenza ad una classe operaia od al mondo dell’artigianato con connotati professionali ben definiti, ad un voto al Polo o alla Lega, un voto motivato dalla paura di perdere quel poco che si ha. La minaccia viene vista nell’intervento pubblico nell’economia, visto come parassitario e contrapposto a chi lavora dalla mattina alla sera, e negli immigrati, considerati non tanto concorrenti per il posto di lavoro, dal momento che fanno lavori che gli italiani non vogliono più svolgere, ma piuttosto considerati beneficiari della spesa sociale, quindi parassiti che vivono grazie ai soldi delle tasse degli italiani. La flessibilità del lavoro ha portato ad una maggiore richiesta di “sicurezza” contro chi è visto minacciare i frutti del lavoro: ladri, immigrati, zingari. “Flessibilità”, “sicurezza”: sono le due parole magiche attorno a cui gravitano le società più ricche alle soglie del XXI secolo. Flessibilità del lavoro, sicurezza dei cittadini”.
Questo libro, oltre ad essere una smitizzazione del luogo comune che la flessibilità sia la panacea per lo sviluppo economico e per eliminare la disoccupazione, mette in relazione l’insicurezza del posto di lavoro con la richiesta di maggior “sicurezza” nel senso di controllo del territorio. “I due piani sembrano separati. Più spazio alle esigenze delle imprese, pensando che ciò allarghi le libertà di tutti e le possibilità di scelta dei singoli, e più controllo del territorio, nella convinzione che questo tuteli gli individui contro la “devianza” della criminalità. Eppure basterebbe interrogare la società per comprendere come il principale grado di insicurezza sia provocato proprio dall’accentuarsi della flessibilità, dal venir meno delle reti di protezione sociale che avevano caratterizzato la civiltà europea: sicurezza d’impiego stabile, di assistenza pubblica, di previdenza certa”.
La flessibilità diventa quindi uno dei paradigmi fondamentali della società contemporanea, ed accanto ad essa la richiesta di sicurezza è espressione di una crisi della società dovuta alla stessa flessibilità.