"Le grandi provocazioni moderne Usa: Pearl harbor"

di Gianfranco Pala, "la Contraddizione", N. 87, novembre-dicembre 2001

Soltanto se comprendiamo gli eventi del passato
- e soppesiamo le responsabilità della nostra società –
possiamo evitare di commettere azioni
ugualmente orrende nel futuro.
(Stephen R. Shalom, V-J day)

Non è un caso, forse, che l’attacco giapponese al “porto delle perle” (così è tradotto in italiano!) sia stato  da più parti definito come la “madre di tutte le cospirazioni”. Tale dizione è stata privilegiata, tra gli altri, da Mark Willey e Rudolph Kies, che non sappiamo chi siano (di sinistra o di destra, comunque usamericani) tranne che fanno capo ad agenzie di spionaggio [intelligence]. Ma per ciò che tra breve si dirà, poco importa. Chi lo desiderasse potrebbe allargare ulteriormente le proprie conoscenze; oltre ai documenti qui consultati e appresso riassunti, tra cui compaiono fonti specificamente citate, oltre all’enorme massa di materiale reperi-bile in “rete” [e di cui perciò si trascurano qui dettagli, rimandando a un qualsiasi “motore di ricerca], si pos-sono vedere i testi di Stinnet, Day of deceit (Il giorno dell’inganno) e del contrammiraglio Edwin Layton, And I was there (E io c’ero), quest’ultimo curiosamente insignito proprio di quel “premio Pulitzer” il cui nome, si vedrà, è fondato sull’ambiguità]. Molte analisi si aprono con la famosa frase ufficiale scritta dal Comitato di difesa Usa nel 1944 (a guerra non ancòra finita, soprattutto rispetto all’“esperimento” nucleare proprio contro il Giappone): “ogni piano giapponese era noto agli Usa”!
Ovviamente, quella di Pearl harbor non fu la prima, né verosimilmente sarà l’ultima provocazione Usa. Se si parte dalla “nascita” dell’imperialismo Usa, nel 1898 con la guerra contro la Spagna, per sottrarle le colonie a partire da Cuba e dalle Filippine, è ormai “storia” la pretestuosa e provocatoria auto-esplosione della corazzata Maine davanti a la Habana. Quella “esplosione” fu una splendida occasione, e per essa fu mobilita-ta tutta la grandissima stampa Usa dell’epoca, in nome di un rigurgito mai sopito di patetico nazionalismo, da Pulitzer (quello nel cui nome è assegnato il premio odierno!) a Hearst (il simbolo wellesiano del “quarto potere”). Da allora la storia di navi, porti e golfi si ripete.
La prima guerra mondiale (a parte l’uso surrettizio e pretestuoso dell’attacco sottomarino tedesco a navi commerciali Usa nell’Atlantico – col mitico “Lusitania” in testa) vide l’entrata in guerra degli yankee, in conto dei sionisti di New York, come “scambio” di favori con la Gran Bretagna, a séguito del provocatorio riconoscimento da parte di quest’ultima del nascituro stato d’Israele. La “dichiarazione Balfour” [cfr, la Con-traddizione, no.24, aprile 1991] concedeva infatti ai sionisti, come protettorato britannico, un territorio pale-stinese al tempo ancòra sotto giurisdizione ottomana, e sul quale né Gb né tantomeno Usa avevano alcun di-ritto.
Sono successivi altri episodi di provocazione – ormai assodate – a cominciare del golfo del Tonkino per la guerra al Viet-nam. Ancòra più recenti [sulle quali ci siamo soffermati diffusamente] sono l’invasione del Kuwait da parte delle truppe dell’“amico-nemico” Saddam Hussein preannunciata dall’ambasciatrice Usa Glaspie un paio di giorni prima; successivamente, l’esumazione di cadaveri dal cimitero di Ra?ak, presenta-to come fossa comune di civili, per giustificare l’aggressione alla Serbia, preceduta dalla provocatoria ag-giunta di un dodicesimo punto al protocollo del 1999 di Rambouillet, già sottoscritto dalle parti nei preceden-ti undici punti, al fine di renderlo inaccettabile per i serbi. Tanti altri episodi, forse inferiori per risonanza ma non per qualità e importanza (da Timisoara a Grenada, ecc.), sono ormai entrati nella coscienza collettiva: la provocazione è, in Usa, un vizio di famiglia.
Poco  importa, a questo punto, se le infamanti accuse scagliate contro Franklin Delano Roosevelt – FDR per gli “amici” [sui suoi strettissimi rapporti col fascismo neocorporativo italiano, cfr. la Contraddizione, no. 47, aprile 1995] – siano state ampiamente utilizzate da oppositori della sinistra “radicale” Usa o da “revisionisti storici” di quel paese (per non ipotizzare nazionalisti sospettabili di fascismo conclamato). Il fatto è che le documentatissime prove, anche giudiziarie e non solo politiche militari, circa la “cospirazione” che ebbe per protagonista la Casa bianca di allora (e oggi?) sono state tutte regolarmente insabbiate. Perciò, chiunque le abbia tirate fuori – e da anni! – vedendosele ogni volta ulteriormente depistate, come nei casi Kennedy (JFK in primo luogo), è benemerito: sono i documenti che contano, infatti, e non chi li abbia ripro-dotti tra mille difficoltà. Del resto, rimanendo alla II guerra mondiale, e al ruolo della cosiddetta politica e-conomica “keyensiana” di Roosevelt, è ormai più che consolidata l’opinione che non furono le spese civili (la famosa Tennessee authority valley e simili) a risolvere la crisi e la corrispondente disoccupazione, bensì gli investimenti nella filiera militare industriale e, in ultima analisi, la guerra stessa. “Fu soltanto la spesa monetaria enormemente accresciuta per la seconda guerra mondiale che finalmente curò la grande depres-sione” – scrisse esplicitamente  il keynesiano Abba Lerner, cosa che percepì Keynes stesso [cfr. la Contraddizione, no. 31, agosto 1992].

Nell’epoca storica delle “torri gemelle”, con notevole profusione di “amorevoli affari” (sensi, no!) tra le grandi famiglie, petroliere innanzitutto, Bush e Laden dall’inizio del secolo scorso [cfr. il no], riportare a co-noscenza la “madre di tutte le provocazioni” (soprattutto dopo le altre “esperienze”) ha l’utile connessione immediata che ciascuno da sé può supporre. Ci sia permesso, perciò, di risparmiarci eventuali palesi simili-tudini, anche perché – com’è stato giustamente osservato – le circostanze Usa sono in loro stesse assai diffe-renti. Dalla “Maine” in occasione dell’ascesa dell’imperialismo Usa, a Pearl harbor nella fase della sua piena affermazione, a oggi nel deperimento di esso, le condizioni possono apparire, e sono, molto diverse; ma il “vizio di famiglia” è sempre lo stesso, e la tecnica della provocazione non cambia. Quindi, se in questo senso molti paragoni fatti dalla stampa a proposito di Pearl harbor sono fuori luogo, il riportare alla memoria stori-ca la ripetizione usamericana di provocazioni e cospirazioni è invece oltremodo utile.
Del resto, non noi ma insospettabili fonti in “rete” come quelle gestite dalle britanniche Bbc e Guardian, adombrano, con argomentate congetture, che il governo Bush jr possa aver provocato l’attacco terroristico alle due torri – come riferito anche altrove. Per noi, affermare che gente come Cheney e Rice o Armitage po-tessero essere al corrente della cosa rimane, né più né meno – oggi – che un divertente e utile esercizio di fantapolitica, fino al punto di insidiare la vita stessa del presidente (come, tra l’altro, avemmo a scrivere gio-cosamente mesi fa), sull’aereo presidenziale, alla Casa bianca, in piazza nelle commemorazioni di rito o su un campo di baseball. Senonché le fonti inglesi citate rammentano come il clan Bush, anche prima dell’elezione truccata dello scimmione, ebbe a dichiarare di voler sostituire i talebani con un governo fantoccio, fa-vorevole a far passare di là la “nuova via della seta”, per conto di quei capitali investitori strettamente legati al clan stesso, suoi finanziatori elettorali e no.
Già a luglio scorso, a “elezione” preconfezionata avvenuta, infatti, fu fatta artatamente trapelare un’informazione relativa a un piano Usa di invasione dell’Afghanistan, che mostrava – scrivono le fonti succitate – “sia un’incredibile stupidità nei rapporti internazionali, sia una deliberata e cinica provocazione per predi-sporre l’inevitabile attacco al Wtc e al Pentagono sul suolo Usa, tale da giustificare poi l’uso della forza. Ci sarebbe materiale sufficiente per aprire un’inchiesta sul ruolo del governo Bush relativo agli attacchi provo-cati, con conseguente incriminazione”. Ma le giustissime illazioni non finiscono qui.

Si dia la possibilità perciò a chi legge di avere piena contezza della “bufala” mandata in scena alle Ha-waii sessant’anni fa (tra l’altro, questo anniversario cade proprio il 7 dicembre – 1941-2001). La “tigre” allo-ra evocata non era quella reazionaria dell’imperialismo, che con saggezza – secolare – Mao Tse-tung defini-va, appunto in tempi assai lunghi, di “carta”. In quel tempo si trattava della “tigre” eroica invocata dai kami-kaze (“tempesta di dio”, questo il significato) lanciati alla morte su navi e aerei Usa (qualche centinaio) e su american boys in servizio militare (2403 morti e 1178 feriti: quasi quanti quelli delle “torri” – oltre a 18 navi e 188 aerei); il loro grido di battaglia, altamente simbolico, era “Tora!”, ritualmente ripetuto tre volte. Tora, in giapponese, vuol dire appunto “tigre”. Senonché, in  quel caso, la tigre di carta non era, ahinoi, l’imperialismo yankee, uscito vincente dalla “madre” delle varie provocazioni, bensì rappresentava proprio coloro che la suddetta “tigre” credevano di invocare “in nome di dio”.
Qual è oggi la situazione? Difficile dirsi. È arduo sostenere che, almeno nell’immediato e nel periodo a noi più prossimo, l’imperialismo a base Usa sia una “tigre di carta”: forse lo diverrà. ma ci vuole ancòra del tempo. E i kamikaze islamici [il loro nome effettivo, anche giornalistico, posto che ci sia, dovrebbe essere un altro, non quello giapponese; anche se essi stessi si ritengono, e non certo coranicamente, pur sempre “guerrieri di dio” votati alla morte] incarnano in fondo un ideale strategicamente perdente, di fronte non tanto alla “civiltà” occidentale quanto allo strapotere Usanato armato fin nelle peggiori forme nucleari “non impoveri-te”. Quei fanatici spronati in termini religiosi purtuttavia sono capaci – col sacrificio “suicida” che altri loro impongono per interessi personali ben mascherati da convincimento fideistico, tra disperazione e dogma e fanatismo – di portare scompiglio sull’intero pianeta, con i loro deterrenti di vario genere. Quindi, anche co-desta “tigre”, se è di carta, prende tuttavia fuoco assai facilmente, con le conseguenze che tutti conoscono.
Mai come adesso, con “dabliu gump” Bush che parimenti invoca dio – “dio benedica l’America” [perché: Cuba o Brasile o Messico o Nicaragua, ecc., non sono America?], o “chi non è con noi, è contro di noi!” (ci pare di aver già sentito questa frase, in altre circostanze, un paio di millenni fa), fino alle parodie dei film western del “vivo o morto” perché “dio perdona, noi no” – torna tragicamente alla memoria il lugubre “gott mit uns”. È il caso di capovolgere il detto: “chi semina tempesta, raccoglie vento”; dalla “desert storm” di guerre “chirurgiche e umanitarie” al vento delle stragi del fanatismo suicida (e omicida).
Ma torniamo alla “madre di tutte le provocazioni”, l’attacco giapponese a Pearl harbor. È ovvio – al pari dei casi più recenti riguardanti l’Irak o parte dei Balcani o l’Afghanistan – come anche allora le atrocità commesse dal militarismo giapponese fossero fuori discussione. Ma non è questo il problema: un’atrocità non scaccia l’altra, e quella imperialistica Usa è sempre al primo posto. Ancòra il 5 giugno 2001, sulla “rete” si poteva leggere che la faccenda di Pearl harbor ha rappresentato la più riuscita campagna di disinformazio-ne da parte di una presidenza Usa: si può oggi continuare a sostenere questo?  Occorre perciò procedere ad analizzare le basi di informazione reperibili. Su di esse si può dire, senza tèma di smentita, che Roosevelt fomentò quell’attacco che conosceva in anticipo, e che nascose la verità alla popolazione, giungendo perfino alla mancata comunicazione delle manovre in atto ai comandanti militari di stanza nelle isole Hawaii.
Già nel corso del 1940 ordinò alla flotta di spostarsi dai porti sicuri della costa occidentale Usa, sul Paci-fico, per stabilirsi nelle Hawaii, dove era poco protetta. Le ripetute lamentele a questo proposito sollevate dall’amm. Richardson, responsabile della flotta stessa, gli valsero la sua destituzione; fu sostituito dall’amm. Kimmel. Poi, all’inizio di dicembre 1941, una settimana prima dell’“attacco”, allorché Roosevelt assunse i pieni poteri militari per le decisioni riguardanti il Giappone, alle portaerei “Enterprise” e “Lexington” con cinquanta velivoli (quasi la metà della difesa, già precaria, di Pearl harbor) fu ordinato di lasciare l’isola “il più presto possibile”. Non fu un caso che  proprio per la tragica fine della prima settimana di dicembre 1941, mentre tutta la costa occidentale Usa del Pacifico fino al canale di Panama compreso fu messa in stato di massima allerta, le Hawaii furono abbandonate al loro destino.

Che cosa sta “dietro” la guerra? Questa è la domanda alla quale sostanzialmente occorre cercare di dare risposta. Le risorse del Pacifico, soprattutto nei possedimenti britannici e olandesi, sono state un elemento centrale del conflitto. Gli Usa hanno usato codesta situazione piuttosto come pretesto. Infatti, ancòra nell’agosto 1941 l’allora (per poco) primo ministro nipponico, il principe Konoye, propose agli Usa di trattare la questione. All’orizzonte c’era l’“embargo” Usa, di cui Konoye provò a proporre a Roosevelt la revoca, of-frendo in cambio il ritiro giapponese dall’Indocina e, parzialmente, dalla Cina. Naturalmente, il presidente Usa rifiutò pregiudizialmente ogni trattativa, invadendo anzi l’Indocina stessa. Il suo comportamento andava contro il suggerimento di alcuni suoi consiglieri, del tutto inascoltati, che avrebbero voluto invece a tutti i co-sti evitare la guerra.  In séguito a un grave attentato – praticamente un colpo di stato – Konoye fu costretto a dimettersi, il che favorì l’ascesa alla guida del governo del fascista e guerrafondaio gen. Hideki Tojo (il quale a guerra finita e persa fu processato per alto tradimento e impiccato, come in una “Norimberga” giapponese). La voluta chiusura del governo Roosevelt – come in séguito altri governi hanno ripetuto più volte – ha in-nanzitutto aperto la strada al colpo di stato di Tojo (con contorno di attentato), e, perciò, favorito sul fronte opposto ciò che desiderava anche Roosevelt: la guerra.
Altri consiglieri del presidente Usa, tra cui il sottosegretario agli interni White [il futuro vincitore di Bret-ton Woods] spingevano per la guerra al Giappone e, per questa interposta persona, alla Germania nazista, al fine di penetrare in Europa al posto della Gran Bretagna. E così è stato: i precedenti tentativi di provocazione erano tutti falliti. Essi, fino all’ultima iniziativa contro il Giappone, avevano l’esplicito consenso interessato di Churchill. Per cercare di parare in prospettiva i colpi Usa, Churchill non aveva altra scelta che seguire l’antico detto latino: se non puoi battere il tuo nemico, fai il suo alleato [perché, forse oggi non è così con Blair e gli Usa?].
Naturalmente, perciò, Churchill era complice di Roosevelt e al corrente di tutto, compreso l’oscuramento dello spionaggio militare alle Hawaii. Il 14 agosto 1941 notò “lo straordinario e intenso desiderio di Roosevelt per la guerra”. Il ministro dell’industria del governo di Churchill affermò che “gli Usa provocarono il Giappone a tal punto che i giapponesi furono costretti ad attaccare Pearl harbor. È un falso storico affermare il contrario, che furono gli Usa a essere costretti a entrare in guerra”. Con tali precedenti, la stretta finale del-la provocazione fu attuata proprio attraverso l’insopportabile “embargo” che gli Usa imposero al Giappone [e questa storia degli “embargo” Usa non è ormai una novità], attirandolo nella trappola, affinché poi ci ca-desse la Germania nazista.
Già il 24 luglio 1941 (si rammenti che erano quattro mesi e mezzo prima dell’“attacco a sorpresa”) Roosevelt disse: “se tagliassimo il rifornimento di petrolio al Giappone, esso probabilmente attaccherebbe l’Indonesia e scoppierebbe la guerra”. Più o meno nello stesso periodo, alla conferenza Atlantica, il presidente ebbe a dire che “nulla deve restare intentato per provocare un "incidente" che possa giustificare le ostilità”. Tale “embargo” avvenne effettivamente allorché l’occasione cercata fu offerta dalla guerra che l’Olanda per prima intraprese contro il Giappone, quando questo le attaccò appunto la colonia dell’Indonesia (Indie orien-tali); sicché gli Usa, invadendo contemporaneamente la penisola indocinese, resero mortale per il Giappone l’“embargo” su petrolio e materie prime. Tale azione tolse a quest’ultimo qualsiasi altra possibilità di rifornimento alternativo, avendo già perso la possibilità, nella lotta contro la Cina, di assicurarsi le risorse minera-rie ed energetiche di parte della Siberia.
Al Giappone rimase, come ultima e unica possibilità, l’accettazione della provocazione della guerra. An-còra tre settimane prima di Pearl harbor, il segretario di stato Morgenthau [noto in séguito per aver cercato, alla fine della II guerra mondiale, di distruggere la Germania industriale, “gallina dalle uova d’oro” per gli investimenti Usa avviati col “piano Marshall”] propose un piano, redatto dal sottosegretario White, per la pa-ce col Giappone, che significava sostanzialmente la sua resa incondizionata. Un simile piano, proprio per come fu volutamente formulato, era totalmente inaccettabile e rappresentava una vera e propria provocazione [ricordate Rambouillet 1999?]. Un contrammiraglio Usa ha testimoniato come fosse “evidente che il Giappone era stretto in un angolo. È da credere che questo fosse il desiderio di Roosevelt e Churchill per poter fa-re entrare gli Usa in guerra”.

A guerra finita, nel 1946, la marina militare Usa svelò che i principali sistemi cifrati giapponesi erano stati decodificati, e concluse che tra il 1° settembre e il 4 dicembre 1941 ben 188 dei messaggi inviati dai giapponesi in codice indicavano chiaramente che l’obiettivo era Pearl harbor. A conclusioni altrettanto gravi era già giunta anche la commissione segreta dell’esercito, dell’ottobre 1944, la quale affermò che “tutti i principali responsabili dei ministeri interessati conoscevano perfettamente le intenzioni dei giapponesi, com-presa la probabile data e ora dell’attacco”. In quella sede, il gen. George Marshall sostenne che la lealtà verso il proprio capo era da lui considerata come lealtà verso il suo paese. Due anni dopo, nel novembre 1945, la commissione d’inchiesta parlamentare congiunta su Pearl harbor riuscì a scoprire che c’erano state molte fal-se testimonianze, palesi bugie e depistaggi; ma che, tuttavia, su tali fatti non si sarebbe potuto fare piena luce finché i materiali al proposito non fossero stati “desecretati”. Naturalmente la maggioranza parlamentare, a guerra finita e vinta dagli Usa, mandò prosciolti gli imputati, mentre solo la relazione di minoranza censurò esplicitamente, tra gli altri, oltre al presidente Roosevelt, il ministro della difesa Stimson, quello della marina Knox, il capo operativo del ministero della guerra Marshall, il responsabile delle operazioni navali Stark e il comandante in capo della flotta amm. Kimmel.
Da tali capi d’accusa, comunque, risulta almeno evidente che Roosevelt non poteva non coordinare i mi-nisteri dell’esercito, della marina e della guerra, alla cui guida erano militari scelti da lui stesso. Di tutti gli avvenimenti il presidente era tenuto informato due volte al giorno. In nome della “sicurezza nazionale”, il governo Usa, più di mezzo secolo dopo l’“attacco”, non ha ancòra deciso di togliere il segreto sui messaggi giapponesi decrittati (quelli che precedevano il fatidico 7 dicembre). Non è certo un caso che il direttore del-la Cia, George Tenet, nel suo annuale indirizzo celebrativo di Pearl harbor rivolto agli “amerikani”, ancòra nel 2000, abbia affermato che, “infine, voi potete esser certi che noi agiremo con onore, aggressivi, ma sem-pre rispettosi delle leggi e dei valori americani”, e che codesto stesso spirito nazionalistico di “Pearl harbor” sia stato sùbito rispolverato preventivamente nella buffonata filmica disneyana e immediatamente dopo per l’attacco alle torri gemelle: un puro caso!?
Se quelle che precedono sono le conclusioni evidenti che si possono trarre dall’esame dei documenti noti, una loro analisi anche solo poco più dettagliata chiarisce meglio la situazione. A parte alcuni dati più signifi-cativi e con radici storiche profonde, gli elementi ricostruiti intorno all’episodio di Pearl harbor contribuisco-no a  togliere ogni residuo dubbio. Già il 27 gennaio 1941 un inviato peruviano avvertì l’ambasciata Usa a Tokyo del piano giapponese, relativo a un “attacco a sorpresa” da scatenarsi “all’alba a Pearl harbor”; tale notizia fu sùbito trasmessa dall’ambasciata al ministero della marina e all’amm. Kimmel. La stessa cosa fu fatta dallo spionaggio australiano. A luglio dello stesso anno, l’addetto militare Usa in Messico fece sapere che i giapponesi stavano costruendo dei piccoli sottomarini, particolarmente progettati per attaccare la flotta Usa ancorata nel porto hawaiano che è poco profondo. Addirittura sul New York times del 12 agosto – nell’articolo intitolato “L’attacco è atteso” – già si parlava di questa possibile azione nipponica.
Nell’ottobre 1941, la famosa spia sovietica Richard Sorge avvertì il Cremlino, il quale a sua volta informò immediatamente gli Usa, che Pearl harbor sarebbe stata attaccato entro sessanta giorni. Può essere interessante sapere che la lunghissima deposizione di Sorge (32 mila parole, circa 100 pagine) fu totalmente distrutta. Il famigerato direttore della Cia Allen Dulles disse che, a metà novembre 1941, gli Usa erano al corrente che la flotta giapponese salpò verso est per poi attaccare Pearl harbor, mentre l’ambasciatore giapponese negli Usa [ancòra erano tenuti i normali rapporti diplomatici] ebbe l’ordine tassativo, dal proprio governo, di non protrarre i negoziati oltre il 29 novembre. Degli spostamenti della flotta giapponese era informata anche l’Urss (nonostante tutto alleata degli Usa).

I giorni immediatamente precedenti l’“attacco” sono stati particolarmente importanti. Il 25 novembre l’ammiraglio giapponese Yamamoto comunicò in codice (sùbito decrittato dagli inglesi e due giorni dopo dagli olandesi) gli spostamenti della sua flotta, di cui si è detto, e l’attacco prossimo “all’alba del giorno X”. Tre o quattro giorni dopo l’Fbi intercettò una telefonata (in chiaro) tra l’ambasciata e Yamamoto che diceva che “l’ora zero è fissata per l’8 dicembre” (fuso di Tokyo, ossia il 7 secondo il fuso orario di Washington). Di tutto ciò era al corrente anche il futuro direttore Cia, William Casey, allora in forza ai servizi segreti Usa Oss. Churchill stesso sapeva che l’attacco a Pearl harbor sarebbe avvenuto il 7 dicembre, e cinque giorni prima telefonò a Roosevelt per chiedergli quali fossero le sue “intenzioni di risposta all’attacco giapponese”.  Anche petroliere e navi mercantili, prima di dicembre, erano aggregate alla flotta Usa per intercettare mes-saggi e trasmetterli ai servizi segreti, mentre il gen. Douglas A. MacArthur forniva scientemente false notizie circa la loro localizzazione nel Pacifico.
Ma il 25 novembre stesso si registrò un interessantissmo colloquio tra Roosevelt e il ministro della guerra Stimson, al cui proposito quest’ultimo ricorda come il presidente pronosticasse “probabile l’attacco non più tardi di lunedì prossimo”. Secondo il presidente “il problema” consisteva nel “come riusciremo a manovrarli, per costringere i giapponesi a sparare il primo colpo, senza avere noi troppi danni, e ricevere il pieno appog-gio del popolo americano, in modo che non possa rimanere nella testa di nessuno il minimo dubbio su chi sia l’aggressore”. Una settimana prima dell’attacco, Stimson scrisse che Roosevelt comunicò con precisione al governo quali fossero ormai i rapporti col Giappone, e che l’attacco sarebbe potuto avvenire senza “dichiarazione di guerra” la domenica successiva: appunto il 7 dicembre.
Il ministro degli esteri giapponese, Shigenori Togo, all’inizio di dicembre avvertì le ambasciate di di-struggere i codici e continuare i negoziati con gli Usa per non dare l’impressione che questi attaccassero. Il messaggio nipponico del 4 dicembre, no.7001 – in codice “vènti orientali, pioggia”, intercettato e decrittato col significato di “guerra dall’est” – fu eliminato dal fascicolo dei documenti raccolti. Roosevelt commentò: “questo significa guerra” [cfr. John Toland, Infamy: Pearl harbor and his aftermath, (Infamia: Pearl harbor e le sue conseguenze)]. A quella data anche lo spionaggio coreano avvertì che l’attacco a Pearl harbor sarebbe avvenuto all’alba della domenica seguente; pure il generale olandese Ter Poorten fece avvisare di ciò diret-tamente il gen. Marshall [“premio Nobel per la pace” nel 1958!]. I collaboratori del “Nobel” Marshall ricor-dano che la mattina dell’attacco il generale temporeggiò con scuse varie, nonostante le loro pressioni per av-vertire la base delle Hawaii, finché fu sicuro che i tempi tecnici per metterla in allerta fossero definitivamen-te scaduti. Il giorno prima, alla domanda del ministro della marina, Knox: “sappiamo dove sta la flotta giapponese?”, Roosevelt rispose semplicemente “sì, lo so”. L’intero “gabinetto di guerra” quella notte restò riunito tutto il tempo, in attesa dell’attacco.
Anche la forza aerea del gen. MacArthur nel Pacifico subì una notevole sconfitta, senza che egli abbia fat-to nulla per evitarla, anzi facendo di tutto, con tre successivi ordini tra loro contrastanti, affinché i giapponesi trovassero i suoi aerei a terra; si giustificò dicendo che “riceveva ordini superiori da Washington”. Assai cu-riosamente, dopo questo episodio, anziché essere ammonito o destituito, MacArthur ricevette la quarta stella di generale con la medaglia d’onore del parlamento! [Tanto per la cronaca: il padre del figlio, il gen. Arthur Mac Arthur, nella guerra di conquista delle Filippine fece uccidere migliaia di persone che da lui erano con-siderate di “razza inferiore” (qualcosa che recentemente si è sentito dire di nuovo ...)].

I giorni successivi l’apparente disfatta di Pearl harbor servono a porre la parola fine all’infamante farsa. Roosevelt, pochi minuti dopo il “sorprendente” attacco, telefonò all’ambasciatore inglese, lord Halifax, co-municandogli che “la maggior parte della flotta era in mare, e alla fonda non c’era nessuna nave nuova”. Qualche tempo dopo, l’amm. Bloch (Usa), affermò che “i giapponesi hanno distrutto solo una certa quantità di vecchia ferraglia, facendoci, in questo senso, un piacere”. La moglie di Roosevelt e altri testimoni, nelle successive memorie, ricordano come il presidente non fosse affatto sorpreso, “ben lontano dallo shock che ebbe il paese, perché si aspettava qualcosa del genere da molto tempo”; sembrò “in qualche modo più sere-no”, ed espresse un “gran sollievo”.
Anche l’intervista a caldo del presidente, fatta dal giornalista Edward Murrow della Cbs, ebbe un anda-mento molto strano; fu infatti Roosevelt, con grande calma, che chiese a Murrow se “fosse sorpreso”, rice-vendo un’ovvia risposta affermativa, mentre egli, dando la netta impressione che l’attacco non fosse indesi-derato, disse: “forse lei pensa che ciò non ci abbia sorpreso”. Solo con l’appoggio di persone fidatissime, Roosevelt poteva perciò portare a compimento il suo piano; tutte persone poi promosse o scagionate con o-perazioni di copertura e depistaggio. Alcune fonti [cfr. John Costello, Days of infamy (I giorni dell’infamia)] suppongono addirittura che il presidente abbia preparato i telegrammi di condoglianze per i parenti delle vit-time quattro giorni prima dell’attacco.
L’“atto esplicito” concesso ai giapponesi nell’attacco a Pearl harbor, dunque, non solo consentiva di far fare loro la prima mossa, ma anche di infliggere danni visibili agli Usa. Infatti, senza simili danni, se gli Usa fossero apparsi imbattibili, Hitler non avrebbe mai osato dichiarare guerra. Il vero obiettivo imperialistico Usa, infatti, era lo scontro aperto con la Germania, e perciò Pearl harbor non concerneva fondamentalmente la guerra col Giappone. Si ricordi che le precedenti provocazioni belliche contro la Germania, fatte con la sollecitazione di Churchill, erano tutte andate a vuoto.
Il necessario specchietto per allodole era il Giappone. Se questo fosse stato sùbito battuto, sarebbe appar-so immediatamente come un suicidio per i tedeschi sfidare gli usamericani. La provocazione, infatti, avrebbe funzionato bene solo se l’attacco “a sorpresa” nipponico fosse sembrato vero. Tra l’altro, ciò avrebbe anche spinto la riluttante opinione pubblica Usa a sostenere nazionalisticamente – anche in memoria dei poveri boys morti – la guerra contro la Germania (la I guerra mondiale, con gli Usa un po’ in disparte e quindi là poco “sentita” nazionalisticamente, aveva insegnato qualcosa).