Pentimenti sospetti. Chicco Testa e gli ambientalisti nuclearisti

Sabina Morandi, "Liberazione", 21 aprile 2006

 
Chissà se a spingere un ambientalista storico a intraprendere la crociata contro “l’Italia che non vuole crescere” (dal titolo di un articolo di qualche mese fa) conta di più l’esperienza alla presidenza dell’Enel o quella meno nota di membro dell’European Advisory Board del Carlyle Group, il mega-fondo di investimento della famiglia Bush. Certo da Chicco Testa, fondatore 20 anni fa di Legambiente, non ci si aspetterebbe una tale entusiastica adesione per qualunque progetto in cantiere - dai futuristici gassificatori off shore alle vecchie centrali della generazione di Chenobyl che l’Enel ha recentemente acquistato in Slovacchia e che si accinge a completare. Però, dall’insalata energetica del suo editoriale pubblicato ieri da Il Giornale, appare abbastanza evidente la preferenza data alle grandi opere rispetto alle “piccole” iniziative di risparmio energetico e fonti rinnovabili che pure, naturalmente, vengono menzionate. Ma, inequivocabilmente, l’accento cade sull’appello alla “responsabilità bipartisan” da dimostrare, appunto, approvando in tutta fretta la costruzione di gassificatori e centrali nucleari, oltre naturalmente al carbone del quale si auspica un «ricorso più esteso». Del resto, continua Chicco Testa, non è questo il nocciolo dei progetti energetici proposti da Bush e da Blair ai rispettivi paesi? Quel che c’è di diverso è che in Gran Bretagna, così come negli States, gli ambientalisti di vecchia data non si limitano a fare il tifo ma criticano, indagano e, conti alla mano, smontano le nuove svolte energetiche come ha fatto Franck Vervastro, esperto energetico del Center for Strategic and International Studies che, sul Financial Times della settimana scorsa, scriveva: «E’ molto più facile promettere invenzioni fantascientifiche piuttosto che infastidire i produttori di automobili e altre lobby industriali imponendo loro degli standard di efficienza energetica più elevati».
Insomma, non è certo un bel modo per ricordare Chernobyl riproporre pari pari la vulgata nuclearista che credevamo definitivamente liquidata dal referendum dell’87. Una vulgata che si basa su mirabolanti tecnologie - come i reattori autofertilizzanti dell’epoca di Nixon o i mai testati gassificatori off shore - e sulla solita esternalizzazione dei costi il che, tradotto in parole povere, significa non conteggiare mai, nel costo di una tecnologia, quello che potrebbe venir fatto pagare ai contribuenti - magari a quelli della generazione successiva come avverrà per le conseguenze ambientali e sanitarie dell’incidente in Ucraina dell’86. Ma lasciamo comunque perdere gli incidenti che i nuclearisti mettono sotto la categoria dei rischi più o meno evitabili - anche se la tecnologia non si è affatto evoluta come si vuole far credere - e facciamoci due conti veri.
Il problema è che alla domanda, quanto costa un chilowattora prodotto con l’energia nucleare? , non si può rispondere limitandosi a fornire le tabelle di una centrale già operativa. Se si vuole essere onesti bisogna aggiungere gli elevatissimi costi di costruzione delle centrali e di dismissione delle stesse - vedi il Superphoenix francese - cui bisogna sommare il prezzo dell’annoso problema dello smaltimento delle scorie.
Perché, diciamocelo, avremo pure «trent’anni di esperienza in più», come scrive Testa, ma non s’è trovato altro modo per liberarsi delle scorie che seppellirle in qualche cava - Scanzano insegna - oppure esportarle nel Terzo mondo con il solerte aiuto delle mafie internazionali. Le nostre poche scorie, insieme a quelle francesi e tedesche, sono finite fra il Mozambico e la Somalia come Ilaria Alpi qualche anno fa stava per dimostrare. Ma questa, ovviamente, è un’altra storia.
Su di una sola cosa Chicco Testa ha ragione: il nucleare riduce le emissioni di gas serra - naturalmente escludendo dal conteggio il grande dispiego di energia necessario per la loro costruzione, dismissione e smaltimento scorie… - e il problema del cambiamento climatico, ormai sotto gli occhi di tutti, richiede un intervento tempestivo e globale. Alle preoccupazioni ambientali va aggiunto poi quello del declino della produzione petrolifera - il famoso picco - che rende il prezzo dell’oro nero suscettibile a qualunque evento e soggetto a ogni tipo di speculazione. Si sottovaluta, in questo discorso, che anche l’uranio è destinato ad esaurirsi - di qui a vent’anni secondo quei noti ambientalisti dell’Us Army - e il gas è votato al medesimo destino.
Ci troviamo dunque di fronte a un cambiamento epocale - il superamento dell’età dei combustibili fossili - da affrontare con scarsità di risorse e di strumenti operativi, visto che la furia distruttiva della stagione iper-liberista ha tagliato le unghie a governi e organismi di controllo. Per gestire il passaggio ci saranno insomma pochi soldi e pochi strumenti per monitorarne l’impiego, il che dovrebbe suggerire ai governanti prudenti di spendere poco e bene, possibilmente investendo nelle opere a più alto impiego di manodopera e a più basso impiego di capitale. Ci si aspetterebbe quindi che un ambientalista di razza fornisse una lista delle priorità basata appunto su questi parametri, nella quale dovrebbe svettare al primo posto misure di efficienza energetica come il rifacimento dell’intera rete elettrica nazionale che - Testa lo saprà meglio di chiunque altro - si lascia sfuggire un 15-20 per cento dell’energia che trasporta, ovvero l’equivalente di parecchie centrali. Naturalmente nella lista andrebbero anche le rinnovabili, fermo restando il criterio base che dovrebbe guidare questa sorta di New Deal Ecologico: un chilowatt risparmiato costa sempre meno di un chilowatt prodotto. Utilizzando questi semplici criteri, più economici che ambientalisti, l’energia nucleare non riuscirebbe a piazzarsi nemmeno agli ultimi posti. E’ un ragionamento davvero così disfattista e anti-industriale? A noi sinceramente non sembra proprio. Forse sarebbe però opportuno cominciare a esplicitare di quale sviluppo e quali interessi si stia parlando, se quelli dei grandi gruppi come il Carlyle o quelli dei contribuenti ai quali, finita la stagione del mercato über alles, si chiede nuovamente di aprire il portafoglio.