Crisi dei fondi pensione Usa

da "Operai contro", n. 84, 5 dicembre 2002

Titolava un articolo del giornale “Sole 24 Ore” del 24 ottobre 2002: “Fondi pensione, la ‘spina’ nei conti delle imprese Usa. Sugli utili pesano i portafogli aziendali, che da polmone finanziario sono diventati buchi neri di liquidità”. Uno dei primi allarmi della crisi dei fondi americani, si era avuta con il fallimento della Enron, alla fine del 2001. Il titolo azionario della società, era crollato dal suo massimo valore di 90 dollari, a pochi centesimi. Più del 60 per cento del capitale del fondo pensione aziendale, era stato investito proprio nei titoli dell’azienda stessa (la Enron appunto). La maggior parte dei ventimila dipendenti aveva finanziato questo fondo, il denaro depositato era sparito quasi del tutto. Un tecnico della Enron che all’inizio 2001 aveva accumulato 615 mila dollari (circa un miliardo e 200 milioni di vecchie lire), si è ritrovato sul conto appena 11 mila dollari (cioè 22 milioni di lire). Quindici mila dipendenti ed ex dipendenti hanno fatto causa all’azienda, devono però vedersela con le banche creditrici, anche loro coinvolte nel crack, con ben maggiori capitali coinvolti. Nel 2001, i capitali dei fondi pensione privati nel mondo, ammontavano alla stratosferica cifra di 9000 miliardi di dollari circa (18 milioni di miliardi delle vecchie lire); più di 5.000 miliardi solo negli Stati Uniti. Un quarto di questi, sono fondi aziendali, i cosiddetti conti 401(k), e coinvolgevano nel 2001, più di 34 milioni di lavoratori. Questi conti permettono l’investimento dei soldi degli operai ed impiegati, anche in azioni e obbligazioni (comprese azioni della società stessa); hanno un rendimento maggiore, ma non danno nessuna garanzia. Particolare importante: la stragrande maggioranza di questi lavoratori non può uscire liberamente dai fondi. Alcuni possono riprendere il loro denaro accumulato, se si licenziano, i più devono aspettare l’età del pensionamento. Nel caso della Enron, mentre i massimi dirigenti, nascondendo le difficoltà della società, rivendevano le azioni quando erano al massimo e guadagnavano miliardi, gli operai e gli impiegati non potevano fare assolutamente niente, mentre vedevano i soldi della loro pensione andare in fumo. I lavoratori non potevano toccare i loro soldi, le imprese invece potevano attingere ai fondi pensioni, quando questi erano in attivo; così facendo aumentavano gli utili e rendevano appetibili in borsa le azioni delle società. Fino a che le borse erano in salute la cosa ha funzionato a meraviglia, ma la crisi economica, con il calo brusco degli indici azionari, ma anche delle obbligazioni dello stato (in netto calo per l’abbassamento dei tassi d’interesse), ha mandato in crisi tutto il sistema. Si è passati da un saldo attivo medio del 7% nel 2000 ad un disavanzo del 6% nel 2001. Anche se le società hanno dai 3 ai 5 anni di tempo per ripianare i deficit, nel 2002 hanno dovuto, per forza, incominciare ad immettere capitali nei fondi, ma così facendo gli utili delle società coinvolte sono diminuiti. L’IBM per esempio nel 2000, aveva dichiarato che circa un decimo del suo utile era derivato dal surplus dei fondi pensione. Nel 2001 circa 1,5 miliardi di dollari di utili derivava da questi trasferimenti, ma in quell’anno il fondo era già in deficit. Nel 2002, senza questi soldi aggiuntivi, hanno dovuto dichiarare una diminuzione dei profitti di 700 milioni di dollari. L’IBM, nell’ottobre scorso, aveva annunciato l’intenzione di versare nel fondo, circa 1,5 miliardi di dollari entro l’anno. Nella stessa situazione sono colossi come General Motors, Verizon, Boeing, General Elettric, Lucent e molte altre famose società. La General Motors per esempio ha già versato 2,2 miliardi di dollari nel 2002, ma il buco del deficit sarebbe molto più alto, servirebbero dai 13 ai 17 miliardi. Questi giganti dell’industria sono preoccupati, se devono riversare miliardi di dollari nei conti delle pensioni dei lavoratori, non hanno più sufficienti capitali per i finanziamenti della società e non possono far sembrare più belli i loro profitti. Potrebbero salvarsi solo da una ripresa veloce dell’economia. Ma la ripresa stenta a ripartire. Come uscire da queste “difficoltà”? Si fa strada il progetto padronale di proporre al sindacato delle loro aziende (questi fondi sono stati creati con un accordo tra questi e i padroni) uno scambio, abbassare i rendimenti del fondo con il conseguente peggioramento delle future pensioni, in cambio del mantenimento dei posti di lavoro. Non ci sarebbe più bisogno di ripianare il deficit e i capitali risparmiati servirebbero appunto per finanziare le imprese. Altrimenti si ipotizza una perdita di quote di mercato e sicuri licenziamenti. Ci mancava anche questa. La crisi è scaricata sugli operai e i lavoratori, con disoccupazione e salari più bassi, ma per i padroni non è sufficiente, tentano anche di rubare i soldi versati dagli operai per le pensioni. La crisi dei fondi pensione Usa e i soliti tentativi di scaricarne gli effetti sui lavoratori ci riporta in Italia. Un giorno sì e uno no ci viene posto il problema della riforma pensionistica. Ai padroni italiani ha sempre fatto invidia l’abbondanza dei capitali dei fondi americani a disposizione dell’accumulazione dei profitti: in Italia siamo il fanalino di coda, con solo 50 miliardi di dollari circa (ricordiamo che negli Stati Uniti sono 5000 miliardi). Per avere maggior sviluppo economico e quindi posti di lavoro, occorreva seguire l’esempio Usa. Peccato che l’esempio americano dimostri ogni giorno (sia nello sviluppo sia nelle crisi) di essere comunque, molto conveniente per i padroni, di certo non per gli operai e i lavoratori.