Vita

 

Si nasce

Si muore  

Forse si vive       

              

                                        ***

 

Meravigliosamente

Ho digiunato la tua assenza

masticando pugni di sale

 

Ho cancellato me

per resisterti più solo  

 

L'amore è la cosa

più meravigliosamente impossibile

 

                                        ***

Io a te

L'infinito

sta a pensare

chi sa cosa

 

Io a te

e

nient’altro

 

 

                                                                            Paese

                                                                                            Hai messo radici dentro di me

                                                                          fino all’impossibile

 

                                                                                        Per te questo solco d’uomo

                                                                                               è la storia di un’alba continua   

                                                 

                                                                                              Mi togli le parole dalla bocca     

                                                                                    per donarle alla speranza

  Prefazione di

                                                         
                                                                 Aldo Onorati

 

Questa intensa silloge poetica si compone di più sezioni, che vanno dalla descrizione della terra in cui l’autore è nato, fino alle memorie, agli affetti, alle riflessioni sulla vita e su Dio. Ce n’è quanto basta per un discorso a raggiera. Ma procediamo con ordine. L’impatto con il libro si apre con la poesia “Terra”, assai sentita, in cui la prima quartina dà l’impronta interna di quello che sarà poi lo svolgimento intimo del filo d’Arianna attraverso i meandri di un’anima, la quale esplora se stessa chiamando a testimoni oggettivi i luoghi, gli affetti, le speranze e i tormenti della conoscenza (e lo vedremo nella sessione in cui il problema Dio si fa presente in tutto il suo spessore drammatico). Il paese si concretizza con una zoommata su varie cose: la fontana, la scalinata, le mulattiere (“Ora tocca a me/portare nel tempo/senza sapere esprimere/due sillabe di pena/un’altra spina da soffrire”: siamo molto al di là della poesia descrittiva di pittura tonale, o di semplice commozione nel ricordo; qui Montini va alla radice del battito vitale di quello che è divenuto un paesaggio dell’anima, pervaso di malinconia, di ombre, di pianto), il cimitero, il focolare (ove sfilano i ricordi, ma sempre con la regola d’un presente attento al vaglio di quel che resta: “e non trovo/che dare/per averti/ancora”), fino alla stupenda lirica breve fatta di una quartina e un distico (tra le poche a mezzo ipermetro) intitolata “In una finestra”, dove possiamo cogliere l’assunto programmatico di questo elemento che è il ricordo: “Ho portato a spasso la mia fantasia/nelle vicinanze delle radici/che uniscono la cima al fondo”. Ed ecco l’autunno che ha la malinconia di una donna, forse, e il castagneto, e le foglie (“Foglia staccata dal vento/di un giardiniere/che ruba la vita // Non voler più dolce/un paesaggio che rimarrà/triste. Sempre.”), lirica intensa in cui, ancora una volta, il paesaggio è appena accennato e si trasfigura subito in un paesaggio dell’anima, e la natura diviene antropocentrica, malinconica, come se l’autore prendesse spunto dalle cose per decifrare un discorso esistenziale in cui i protagonisti non sono né gli alberi, né le fontane, né lo stesso paese, ma due dialoganti, ovvero un monologante che coinvolge come sostrati speculari le occasioni del paesaggio, degli oggetti-ricordo, delle ore del giorno (molto commossa “Tramonto”, piena di rimbalzi fra le cose del mondo e il se stesso che vuole ritrovarsi nel tempo, dopo un certo tempo di partenza e uno di arrivo fra chi gli fu caro). Le radici del cuore, però, noi le ritroviamo intatte ed eloquenti nella sezione “Affetti , che ha una poesia dietro l’altra a salire, come una sinfonia in cui tutti gli accordi sono dosati e depurati dai segni, e il fatto gnomico ci viene chiarito proprio in questo intermezzo, che io trovo di grande effetto espressivo (si legga: “Famiglia”, struggente percorso emotivo che il passato cobra di nostalgia, ma una nostalgia vitale, non sterile, non di quelle che si piangono addosso: qui c’è il battito fermo d’una virile sensibilità tesa a trattenere quanto potrebbe debordare oltre; si legga “Padre”, la cui prima stanza prende il lettore a viva forza per il potere espressivo e anche per la metafora della terra oggetto paziente al ricordo e un domani soggetto violento nell’abbraccio della morte; si legga “Talita”, col suo respiro naturale, con le similitudini, le analogie, le tristezze d’una chiusa che lascia senza respiro). La sezione “Amore” cambia binario, ma il treno è lo stesso, un treno che sbuca dalla notte, dal profondo dell’anima, per attraversare nel giorno della vita tenerezze, estasi, bellezze e timori, attese e trasfigurazioni (si legga “Ciò che è tuo”). Ma l’amore è esclusivo, determinante e determinato nel sogno, tanto che il poeta ci dà la chiave di lettura di questo intermezzo attraverso una brevissima silloge, dal verso che Montini ama (quello cortissimo, fatto talvolta di una congiunzione, ma sistemato intelligentemente fra spazi e silenzi assai impor­tanti alfine musicale ed espressivo): “Io e te”, dove i punti chiave sono l’infinito che forse, non pensa a nulla o non pensa nulla, e l’uomo che ama e pensa solo alla donna amata. La donna è “il di più” del cuore di chi la ama. Indicherei al lettore di soffermarsi sulla poesia “Amore nostro”, il cui finale è assai signi­ficativo: “Il nostro amore è un angelo/che passerà a dire amen/su quello che ci tormenta/per riempirlo e tacerlo”. La poesia di Montini è sempre lievitata dall’interno: egli guarda all’uomo interiore, ai fatti dell’anima, al rapporto che il fuori ha con il dentro, l’infinito con la persona singola, il tutto con il poco, la memoria con la sua portata di specularità al presente. “Riflessioni” si apre con una sentenza di tre versi: “Si nasce/si muore/forse si vive”. Qui bisogna riflettere, perché nella certezza di due momenti necessari: nascita e morte, c’è l’incertezza della vita per Montini, ma non un’incertezza probabilistica, bensì di segno filosofico, di possibilità ontologica, di categoria della verità. Non per nulla questa sintesi ci rimanda alla bellissima “Attesa”: “Gli alberi/hanno radici per stare dove sono // A me resta/questo tronco/e basta/ ad aspettare la morte”, che, al di là del problema della visione triste della vita, ci pone su un fronte di interrogativi densi su quanto l’autore vuole significare (e ci sarà d’aiuto anche il distico: “La vita si vive/non si spende”, in quanto essa non concede molto e la si impara a vivere pezzo a pezzo da sé fra la bugia e la verità degli altri. Ma cosa risponderemo a un poeta che scrive dolorosamente così: “Bisogna che vada/che sparisca/per non avere più sogni/da cullare nella notte/e da soffrire il giorno”? Un senso di delusione affiora serpentino, forse inconscio, quando Montini parla degli altri, che hanno parole per dire tante cose, ma non il cuore. Già: la vita è un’ala di vento data a te solo. Si infiltra fra le cose e freme in un doloroso perché: questi versi stupendi sono, per me, il centro di tutta la raccolta. Una raccolta che si compie in itinerario globale con la sezione intitolata “Fede”, ma una fede molto problematica, che fa riflettere nella bellissima ma terribile lirica “Il di più”, ove il cielo è sotto accusa, con una novità di metafora e di intendimento che può riallacciarsi alla teologia di Montini, la quale si racchiude nella lirica “Fatto croce”, in cui l’uomo dichiara di essersi lui stesso fatto croce per Cristo aprendo semplicemente le braccia (una trovata letteraria di grande efficacia metaforica, e di reale conclusione d’un discorso che prende a termini ultimi l’uomo, Dio e la morte). Ora, dopo una lettura attenta d’una silloge complessa e sofferta, quale conclusione si può accennare?  Io di solito non azzardo mai conclusioni, proprio perché ogni opera rimane aperta non solo alla rilettura, ma al discorso, all’esame, alle nuove interpretazioni, anche perché non è possibile esaurire un argomento con tre pagine. Tuttavia, se qualcosa si può dire, si deve dire sulla capacità poetica dell’autore, il quale ci ha offerto dei versi limpidi, nudi, essenziali e molto sentiti. La problematica della vita, assai complessa, si è dipanata via via nelle metafore e nelle analogie, nelle immagini vive e nei raccordi di sentimento. Una silloge piena, dalle molteplici tematiche, dalla sensibilità viva e dolorosa, ma aperta al dibattito del cuore, se “cuore” non e una parola abusata. E’ superficiale dare giudizi di valore, perché l’aver già affrontato una prefazione porta in sé un parere positivo del prefatore; quindi, dare giudizi di valore può anche risultare inutile. Ma se è lecito esprimere un punto di vista personale, una sensazione immediata, debbo dire con tutta sincerità che l’opera di Pierino Montini mi ha convinto sotto vari punti di vista, non ultimo lo spessore propriamente poetico, comunicativo, espressivo, di canto per intenderci. E mi è venuta voglia di rileggerla, e di meditarla.