PREFAZIONE

 

    L’oggetto del presente libro è la gnoseologia, la scienza umana che si occupa del conoscere, delle sue modalità e dei suoi limiti. Esso è sicuramente l’obbiettivo fondamentale della scienza, ma non meno di ogni autentica filosofia che con questa non si ponga in contrasto e che ne segua le evoluzioni e i progressi. Nella misura in cui la scienza sposta gli orizzonti del conoscere sperimentale e sottrae spazio all’ignoto agendo “sul terreno”, la filosofia sorvola i nuovi territori conquistati connettendoli, col suo sguardo d’insieme, a quelli già acquisiti. La scienza e la filosofia sono quindi due attività umane complementari, avendo ciascuna un proprio ambito e un proprio terreno operativo pur esistendo un’intima connessione che le rende inscindibili. Tuttavia, siccome il fine ultimo di ogni conoscere è l’adeguamento del nostro pensiero alla realtà, e l’unica realtà indagabile e conoscibile è quella della materia nei suoi comportamenti fisici, chimici e biologici, il giudizio ultimo della congruità di tesi e di ipotesi sulla realtà “conoscibile” spetta alla scienza e non alla filosofia, restando tuttavia compito di questa indagare quella realtà soltanto “intuibile” [1], preclusa, per ragioni istituzionali e metodologiche, a quella.

    Alla filosofia tocca anche l’importante compito di correlare la conoscenza sperimentale ed esatta della scienza alla prensione della mente umana, che non produce solo conoscenza attraverso l’osservazione, l’esperimento, l’analisi e il calcolo ma anche attraverso la fantasia, i sentimenti, gli affetti, i desideri, che se non altro consentono di conoscere meglio se stessi, i propri simili e le modalità di interazione con essi e tra essi. Ma la mente umana è anche il recettore e l’elaboratore finale dell’amore e dell’odio, del piacere e della sofferenza, della speranza e della paura, della consapevolezza razionale e dell’illusione psichica, e quindi è anche per tale elemento di emotività insito in ogni attività umana che la scienza, in quanto fondata sulla ragione e occupandosi prevalentemente della realtà extra-umana, va assunta come paradigma di una conoscenza oggettivamente più affidabile. E ciò poiché, restando nella mostra metafora, il terreno è più facile da misurare e analizzare, mentre lo spazio aereo è meno affidabile, più incerto, più facilmente illusorio. E tuttavia va aggiunto che l’obbiettività della scienza può diventare sterile per la coscienza umana se la filosofia non media e traduce il “dato” in una conoscenza più complessa che lo inserisca in una weltanschauung, in una visione del mondo. 

    Eppure, per uno di quegli equivoci e di quei travisamenti ai quali la storia dell’homo sapiens ci ha purtroppo abituati, alla “conoscenza del reale” (operata dalla scienza sperimentale e da un’autentica filosofia) si mescola la “conoscenza del divino”, che trova la propria profonda ragion d’essere nelle irrazionalità della psiche, nelle sue paure, nelle sue aspettative e nelle sue illusioni. Ma la teologia si offre alla coscienza umana in due forme alternative, ma convergenti; la prima concernendo la conoscenza della verità del divino attraverso la “rivelazione”, mentre la seconda persegue lo stesso fine attraverso la “dimostrazione” logico-dialettica metafisica. Prescindendo entrambe dal terreno su cui opera la conoscenza della realtà, poiché il loro fine è librarsi a quelle “eterne altezze” rispetto alle quali il “basso” divenire della vile materia va fuori prospettiva e diventa frutto inferiore di una causa divina. La quale più assumere le più svariate forme e le più differenti connotazioni, ma che in ogni caso si caratterizza per il fatto di stare comunque o “sopra”, o “sotto”, oppure “dentro” l’ambito del fenomenico, senza identificarsi mai col fenomenico stesso se non in maniera del tutto surrettizia, come avviene nei panteismi. Riprendendo la nostra metafora diremo allora che si dà una scienza che opera sul terreno, una filosofia che opera da un po’ più in alto (ma sempre in vista del terreno) e una teologia che con le sue fantasie opera ad un’altezza tale da perdere di vista il terreno. Su questa gerarchizzazione della conoscenza hanno fondato il loro valore trascendentalistico tutte le religioni e tutte le pseudo-religioni metafisiche che si sono presentate sotto le millantate spoglie della filosofia attraverso i millenni. Ed è di queste, che chiameremo teologie filosofali [2], che ci occuperemo prevalentemente in questo libro.

    Dunque, se la scienza conquista e dissoda il terreno e la filosofia sorvola il nuovo spazio agibile del non-più-ignoto, questa deve far collimare le acquisizioni conoscitive delle scienze esatte con quelle meno esatte delle scienze umane. Così la filosofia parte dall’esatto sperimentale e osservazionale per trarne ipotesi e tesi per nulla esatte, ma il cui valore consta della corrispondenza tra la realtà materiale e l’orizzonte conoscitivo antropico, che in quanto tale è specifico della realtà umana e per nulla della realtà cosmica, che ci resta perlopiù relativamente estranea. Quest’opera di conciliazione deve esser umile, poiché solo con l’umiltà è possibile per l’uomo un approccio corretto a quell’altro-da-sé” che è l’universo. Laddove esista la presunzione di immaginare la mente umana come parte del divino o recante traccia del divino e quindi votata a raggiungerlo, noi vediamo soltanto l’arroganza teologico-metafisica di dogmatizzare un’ipostasi della nostra immaginazione come “causa” del cosmo, indipendentemente dalle innumerevoli forme dottrinarie e teoriche che essa possa assumere. Ed anche quando non si dia arroganza, ma sussista il sincero intendimento di produrre scienza, il presupposto dell’esistenza di Dio rischia sempre di compromettere un sapere che non può che fondarsi su dati di base afferenti l’osservazione e la sperimentazione scientifica, prescindendo quindi totalmente da presupposti ideologici o da costruzioni metafisiche di sorta quale vis a tergo.

    Nella storia dell’homo sapiens le fonti della conoscenza risultano essere state sostanzialmente due, alternative e reciprocamente escludentesi: lo studio della natura e lo studio della divinità. L’espressione “studio della divinità” non paia provocatorio, dal momento che fare scienza significa eminentemente “studiare effetti e ricercare cause” mentre lo studio della divinità, cioè la teologia, da un punto di vista gnoseologico si pone eminentemente come lo studio della “causa di tutte le cause”, prima e ultima dell’essere stesso dell’universo. Né la teologia coincide con la religione, come spesso si pensa, ma la religione non è che una forma della teologia, quella dottrinale e cultuale, che è la meno importante, in quanto priva di supporto razionale e dimostrativo. Molto più importante è la teologia sotto le specie della metafisica, ovvero la “filosofia prima”, che costruisce se stessa non già attraverso la rivelazione, ma attraverso il “ragionamento” quale strumento rivelativo di carattere discorsivo. Le due forme teologiche, la religione e la metafisica, si pongono reciprocamente per certi versi a monte e per altri versi a valle l’una dell’altra e molto spesso come alternative e oppositive; frequenti infatti diatribe ideologiche tra esse, ma anche contaminazioni ed imprestiti, collusioni, fusioni e trasmigrazioni concettuali. La teologia è per una religione il suo scheletro, i suoi organi, i suoi muscoli, essendo la parte cultuale soltanto il vestito che la rende visibile e comunicabile in modo semplificato, estetico e diretto. La metafisica è invece di ogni ideologia religiosa o para-religiosa il suo essere più profondo e la sua ragion d’essere, non esistendo metafisica che non presupponga un Essere meta-fenomenico.

    Penso che siano in molti a essere rimasti colpiti, almeno una volta, dal fatto che nei manuali di filosofia tanto spazio venga riservato alla Patristica e alla Scolastica, le quali, con buona evidenza, si connotano più come ermeneutiche dei libri sacri del Cristianesimo (sia pure secondo i processi logici e dialettici posti dall’idealismo platonico e dal post-idealismo aristotelico) piuttosto che come approcci conoscitivi all’essere del mondo e dei suoi costituenti. Naturalmente si tratta solo di capirci su ciò che si deve intendere per “conoscenza”, poiché noi riteniamo che sia perfettamente legittimo cercare di conoscere Dio nella misura in cui si crede al suo esistere e si ritiene che egli si sia espresso nel proprio rivelarsi nel mondo e agli uomini. Ma non possiamo esimerci dal domandarci se la conoscenza di Dio possa essere considerata il paradigma di riferimento del conoscere stesso, come peraltro pensavano già Platone ed Aristotele, che presupponevano l’esistenza del divino come fondamento dell’essere in generale e del conoscere umano.

    La questione è cruciale e carica di equivoci, poiché ben prima dell’avvento della religione che fa riferimento a Gesù Cristo, con la creazione del suo enorme carico dottrinario sincretistico, già le teologie filosofali idealistiche e post-idealistiche  dominanti il panorama filosofico post-socratico (e dalle quali il Cristianesimo ha assunto molti criteri metafisici e categorie di giudizio e ragionamento) si erano occupate di Dio, o sotto questa denominazione o sotto quella di Logos [3], Essere [4],  Bene [5], Intelligenza [6], Verità [7], Necessità [8], ecc. Questo splendido e fastoso sposalizio della religione cristiana e della metafisica greca deve farci riflettere, poiché la tendenza prevalente nella storiografia filosofica ufficiale di operare surrettiziamente una netta distinzione tra il patrimonio letterario idealistico e post-idealistico e quello della letteratura cristiana ci sembra non solo assai discutibile, ma decisamente capzioso. Ciò che intendiamo però subito chiarire è che qui non si intende affrontare il problema di quanto le procedure logiche possano risultare adeguate a produrre conoscenza in generale, poiché è indiscutibile la loro utilità (se non altro sul piano formale del discorso), bensì se tali procedure (qualora non posseggano un “dato” fisico certo di partenza quale loro fondamento operativo) possano venire accettate come produttrici di qualche conoscenza concernente la sfera fisica.

    La tesi che intendiamo sostenere è che, in realtà, la maggior parte di quelle che vengono chiamate correntemente “filosofie” abbiano tutti i caratteri peculiari di mere “teologie”, nel senso che pongono a proprio fondamento l’esistenza di entità divine (non-fisiche) e di loro correlati, ed in base alla presunta realtà di questi puri “enti di pensiero” leggono l’esistenza del cosmo, la sua origine, la sua struttura, il suo destino. Per entrare subito nel merito della questione che intendiamo affrontare possiamo cominciare col porci alcune domande tra le molte che ci sembrano emergere in relazione al problema posto. Per esempio: A. «È possibile avviarsi sulla strada della ricerca del vero e del reale dell’universo ponendo come elemento a priori di tale ricerca l’esistenza di un’entità trascendente od immanente ad esso che ne sia causa?». E poi: B. «Su che cosa si basa l’ipostatizzazione di tale entità (non deducibile dalla materia dell’universo e dal suo denotarsi attraverso la verifica e l’esperimento) che si pretende causa, origine o ragione del cosmo stesso?» E ancora: C. «Come può una deduzione basata su procedure logiche (cioè fondata su meccanismi linguistico-comunicazionali), e quindi di per se stessa confinata sul piano logico da cui è fondata, pretendere di “saltare” abusivamente al piano ontico-ontologico [9], entrando così in un campo di indagine che le è del tutto estraneo?» E analogamente: D. «È possibile ritenere che quelli che si possono chiamare “enti di pensiero”, quali l’Essere, lo Spirito, l’Intelligenza, il Bene, la Necessità, ecc. siano in qualche modo ontologicamente assimilabili a “enti di fatto” come lo sono i costituenti  dell’universo fisico?» Fermiamoci per ora qui e proviamo a fornire una riposta a queste poche domande in termini logico-razionalistici.

    Alla domanda A. ci pare che la risposta possa essere la seguente: se l’iter della conoscenza presuppone l’esistenza di un elemento sufficientemente “certo”, di base, su cui costruire delle ipotesi e da esse derivarne tesi (da sottoporre a verifica per giungere a una conclusione in accordo con l’elemento certo di partenza) occorre ammettere che se il dato di partenza è l’esistenza di Dio (dell’Essere, del Logos, dell’Uno [10], del Brahman [11], ecc.) quale causa dell’universo, essendo essa estranea agli strumenti conoscitivi in nostro possesso, se ne deve concludere che tale millantato processo conoscitivo è infirmato nella sua validità dall’illegittimo presupposto di partenza. Con ciò non si intende mettere minimamente in discussione l’assoluta legittimità esistenziale di credere a Dio o al Logos o all’Essere e di farne il riferimento base del proprio esistere e del proprio pensare l’esistenza dell’universo; il problema che ci poniamo è in che cosa tale assunzione fideistica abbia a che fare con una vera conoscenza. L’illegittimità è qui infatti di carattere ontologico-gnoseologico, poiché, anziché avviare l’indagine a partire dall’universo “in sé”, sia le teologie basate sulla rivelazione sia quelle basate sul ragionamento logico-dialettico partono, identicamente, da un presupposto aprioristico concernente un frutto dell’immaginazione (un’Entità meta-fisica) che ne sarebbe causa trascendente o sostrato immanente. Di fronte a ciò sta il fatto oggettivo che l’universo “in quanto tale” non rivela in alcun modo qualcosa che gli sia causa meta-fisica, né nessuna entità che non si manifesti nella sfera della “fisicità” o la concerna direttamente. In altre parole, il cosmo è l’unico rivelatore di se stesso e in tale auto-rivelazione non rinvia a null’altro fuori si sé.

    Ora, le teologie filosofali sostengono che l’Essere “si nasconde” alla ragione umana che sarebbe inadeguata a conoscerlo, ma pretendono che sia conoscibile “per mezzo” di un processo discorsivo logico-dialettico che la rivelerebbe. Il Dio-Logos-Essere-Intelligenza della metafisica, che starebbe a monte del cosmo, non si rivela infatti in questo, ma soltanto nel cervello di un mammifero suo ospite. Ma questi, essendo comparso soltanto molto di recente nel cosmo stesso (che gli preesiste da quattro miliardi di anni), non è in alcun modo legittimato ad auto-eleggersi testimone e indagatore di un’origine non-fisica di esso, se non in via puramente immaginativa e quindi del tutto priva di qualsiasi elemento deduttivo-cognitivo di carattere oggettivo. Questo è possibile solo se l’uomo rinuncia sia alla propria immaginazione e sia ad ogni meccanica linguistica con cui possa creare enti metafisici logicamente dedotti, ma si affida esclusivamente ai dati forniti da una strumentazione materiale che operi in un rapporto rivelativo diretto “materia-materia” col cosmo e i suoi costituenti. L’uomo pilota e partecipa alla scoperta del “dato” solamente come agente “esterno”, in quanto della strumentazione egli è progettista, costruttore, utilizzatore, e interprete finale di ciò che lo strumento rileva, e non gia suo “produttore” attraverso il pensiero logico-dialettico. Il “dato” non deve essere una creazione del pensiero dell’uomo, ma nascere da quel rapporto diretto materia-materia che lo strumento intraprende col cosmo fisico, il quale offre i suoi elementi costitutivi sotto forma di propri oggetti o di propri fenomeni che esistono indipendentemente dall’essere “pensati” dall’uomo. Uscire dall’ambito del “pensato” come punto di partenza del processo conoscitivo è quindi l’indispensabile premessa di ogni conoscenza autentica ed oggettiva.

    Alla domanda B. pensiamo di poter rispondere come segue: l’ipostatizzazione nella mente umana dell’esistenza di un’Entità intelligente, che si ponga come causa prima ed ultima dell’essere dell’universo (e in contrasto con la sua oggettività materiale) riposa unicamente nell’esigenza psichica di conciliare l’”intimità” del nostro pensiero sul cosmo con l’”esteriorità” oggettuale del cosmo stesso nella sua estensione fisico-fenomenica. Questo, infatti, è in gran parte fuori del nostro campo d’indagine, e la presunzione umana di poterlo spiegare in termini metafisici inquina irrimediabilmente ogni conoscenza. L’ipostatizzazione di un personalizzato Dio-Volontà o di un impersonale Dio-Necessità conferenti un senso e un significato “umani” all’esistenza del cosmo è del tutto arbitraria. Esso, offrendosi all’homo sapiens (date le limitate facoltà di conoscenza vera e oggettiva di cui questi è capace) soltanto in minima parte quale “oggetto di conoscenza” vera, si sottrae ancora in gran parte all’intellezione antropica, presentandosi come un “ignoto” da conquistare passo-passo, con la fatica umile della ricerca e non già con la presunzione arrogante della teorizzazione metafisica. Altrimenti esso viene strumentalmente e surrettiziamente dotato “antropicamente” di un senso e di un significato del suo essere di cui è totalmente privo nella sua materialità, non recandone alcuna traccia rilevabile da nessun tipo di indagine razionale e strumentale. In altre parole, per quanto siamo tutti consapevoli che l’universo esista indipendentemente dall’essere pensato “da” quell’animale bipede e intelligente che ne popola un infinitesima parte posta alla periferia di un infinitesimo elemento galattico complesso (e se non altro perché esso esiste da 14 miliardi di anni e l’homo sapiens solamente da centocinquantamila), nondimeno le teologie metafisiche immaginano che l’animale intelligente, in virtù delle sue facoltà cogitative e immaginative, rechi traccia “in sé” di un Principio Cosmico che sarebbe causa prima e ultima dell’esistenza dell’universo.

    Il fondamento di tale ipostatizzazione, essendo riposto unicamente nella facoltà di un animale di cui l’universo stesso è rimasto privo sino a tempi recentissimi, è certo frutto della magnifica fantasia creativa di esso, ma tale “prodotto” rimane confinato nella sfera antropica essendo privo di alcun rapporto col cosmo reale. Il prodotto cogitativo antropico, essendo privo di alcun elemento gnoseologico plausibile in merito a ciò che lo eccede, è del tutto delegittimato ad inferire sull’origine dell’universo e su ciò che di tale origine possa essere stato causa, per il fatto stesso che l’oggetto d’indagine “tace” su se stesso all’orecchio umano. Alla base di tale ipostasi sta quindi una pura “credenza” metafisica, del tutto legittima sul piano dell’esistenzialità e su quello della formalità logico-dialettica, ma che non può pretendere di accampare alcun diritto d’ingerenza nella sfera della conoscenza oggettiva che deve porsi a base di ogni indagine filosofica se filosofare significa amare la conoscenza. L’estraneità del pensiero umano in quanto tale (ovvero quando è privo di riferimenti fisico-oggettivi strumentali) all’universo nella sua oggettività materiale è totale, a meno di immaginare tale universo dotato di “vita” organica e di pensiero, ed in quanto tale essere un organismo dotato di anima nei termini posti dalle teologie ilozoistiche dei popoli arcaici, basate sul pensiero mitico fantasticante e non sul pensiero razionale deducente. Solo in tal caso (ovvero se dotato di vita e di pensiero) il cosmo possiederebbe le prerogative per “rivelarsi” attraverso le sue struttura biologiche a un organismo biologico come è l’uomo, che avendo in sé una parte dell’”anima del mondo” che informa il Tutto potrebbe averne accesso cognitivo.

    Veniamo ora alla domanda C.  Una deduzione umana basata su procedure logiche create dall’uomo ed espressa attraverso un linguaggio umano può concernere il cosmo solamente se tale deduzione si fondi su qualcosa di afferente la materia dell’universo stesso, cioè qualcosa che derivi da un fondamento “esterno” al linguaggio e invece “interno” all’oggetto d’indagine; vale a dire su un dato fisico, sperimentale, oggettivo, riproducibile, ripetibile ed esprimibile in termini matematici. In assenza di tale requisito indispensabile non si dà nessuna conoscenza del cosmo in termini di oggettività accettabile. E ciò anche perché quel dato, per il fatto stesso di concernere un oggetto d’indagine in continuo divenire, non potrà mai pretendere di porsi come definito una volta per tutte, in quanto va soggetto a verifiche sperimentali continue al fine di cogliere non solo eventuali mutamenti nella struttura del cosmo, ma anche un sempre teoricamente possibile mutamento delle costanti fisiche che lo governano. D’altra parte, i procedimenti d’indagine sul cosmo sono anch’essi continuamente in evoluzione, con un processo continuo di “adeguamento” che accompagna il divenire di esso col divenire della conoscenza, la quale si affina in senso intensivo (entrando sempre più nei minimi dettagli) ed estensivo (sfondando sempre nuovi orizzonti). Che cosa può avere in comune tale processo conoscitivo in progress con il ricorso a pilastri argomentali inviolabili come il principio di identità o quello di non contraddizione, i quali concernono unicamente la “meccanica” del ragionamento e sono privi di alcun rapporto con la realtà fisica? Come potrebbe mai la logica darci ragione di fenomeni fisici come l’entanglement o il doppio comportamento onda/corpuscolo della materia subnucleare, che risultano in aperta contraddizione con tutti i principi logici? Vi sono infatti nella logica tutti i limiti concernenti schemi linguistici rigidi della discorsività umana, che la rendono irrimediabilmente inadeguata per un approccio esaustivo e veritativo alla complessità pluralistica dell’universo fisico. Un approccio corretto a questo richiede quindi criteri nuovi coi quali la filosofia, se pretende di definirsi tale, deve accompagnarsi cognitivamente al progresso scientifico e nel contempo integrarlo nei campi in cui esso si deve auto-escludere per questioni di competenza.

    All’ultima domanda D., nella misura in cui completa le tre che la precedono, faremo seguire una risposta che costituirà a sua volta un completamento argomentale di quelle che l’hanno preceduta. Il pretendere di porre sullo stesso piano un “ente di fatto” come l’universo fisico ed “enti di pensiero” come Dio, l’Essere, il Brahman, il Logos, il Bene [12], l’Uno, l’Ātman [13], l’Intelligenza, la Verità, la Necessità, lo Spirito, l’Assoluto [14], ecc. è un arbitrio, anzi un abuso, imperdonabile per qualsiasi pensatore che abbia a cuore la filosofia come amore-del-sapere. Laddove il sapere, per il solo fatto di presentarsi come tale, non può che avere il proprio fondamento in un conoscere che si sottragga all’arbitrarietà di tutti gli apriori ideologici, siano essi basati sulla credenza in un rivelazione “diretta” di Dio o in una sua rivelazione “indiretta” ottenuta attraverso meccanismi linguistici (sempre che il linguaggio stesso non venga considerato Dio auto-rivelantesi). Soltanto un’ideologia, infatti, che in quanto tale stabilisca auto-referenzialmente che cosa è bene e che cosa è male, ciò che è legittimo e ciò che non lo è, ciò che va creduto e ciò che va rifiutato, ciò che è logico e ciò che è illogico, può supportare una presunta conoscenza che prescinda dall’ente-di-fatto primario. Anche perché ciò significa dimenticare la materialità e la fenomenicità dei neuroni e delle sinapsi dell’homo sapiens, che del pensiero sono produttori, affidandosi alla credenza in enti-di-pensiero extramateriali ed extrafenomenici  facendone “essenze del fondamento” dell’essere cosmico. Un essere che si offre alla conoscenza come un puro divenire, al quale l’ipostatizzazione di enti-di-pensiero immutabili ed eterni, di esso causa ed origine, debbono negare sostanza, considerandolo pura apparenza o precario darsi dell’“essere” metafisico.

    Pensiamo di poter chiudere qui la nostra premessa, per passare a un’analisi topica dei singoli aspetti della teologia filosofale evidenziandone ambiguità e contenuti mistificatori. Ciò allo scopo di poter rilegittimare un pensiero filosofico che, a nostro parere, per ritenersi tale deve inevitabilmente bordeggiare la conoscenza scientifica dell’onticità per ritradurla in ontologia, evidenziando la natura strumentale delle autoreferenzialità determinate dal puro uso degli strumenti linguistici della logica e della dialettica a fini metafisici (e pur importanti per il filosofare). I temi di fondo di cui ci occuperemo sono pochi, ma verranno sviluppati da varie angolazioni, dal che potrà forse derivare l’impressione di una qualche ripetitività. Ne siamo consapevoli e tuttavia abbiamo ritenuto che l’importanza dell’oggetto d’analisi dovesse indurci a non trascurare alcun aspetto del problema, ponendoci domande su aspetti differenti che in qualche caso possono determinare le medesime risposte.

    Un’ultima notazione marginale, diciamo di costume letterario. Ci è stato chiesto perché nelle nostre esposizioni venga usato quale soggetto scrivente il “noi” al posto dell’io”. È di tutta evidenza che non si tratti di un pluralis maiestatis, ma esattamente del suo contrario: vale a dire di un soggetto parlante che cerca di stemperare la personalizzazione perentoria dell’”io” sostituendola con un più impersonale “noi”. Esso vuole essere anche un pronome augurale, che immagina ottimisticamente una prospettiva futuribile in cui i punti di vista che esponiamo, a favore di una filosofia che si qualifichi come autentico “amore per la conoscenza”, possano trovare consensi che oggi, francamente, facciamo fatica a scorgere.




NOTE

[1] Sulla conoscenza intuitiva cfr. il nostro Necessità e libertà, Firenze, Editrice Clinamen 2004, pp.41-42  e pp.175-176.

[2] L’aggettivo “filosofale” non paia usato in senso aprioristicamente negativo. Come è noto esso concerne l’alchimia, e nasce nel XIV secolo in riferimento all’utilizzo della “pietra filosofale”, un non ben definito materiale magico (o forse la “parola” connessa al suo uso) in grado di transustanziare la materia. Lo strumento filosofale avrebbe dovuto essere in grado di trasformare, in virtù dei suoi poteri soprannaturali, sostanze volgari in sostanze nobili e, in senso estensivo e più generale, trasmutare il materiale nel divino. Noi ravvisiamo tale funzione “magica” anche nell’uso idealistico della logica, che “magicizza” il linguaggio umano come strumento soprannaturale in grado di auto-trasustanziarsi (attraverso i suoi meccanismi e le sue definizioni e dimostrazioni) in strumento meta-fisico in grado di “fondare” l’essere e i suoi correlati in modo del tutto indipendente dallo studio della realtà che si offre all’osservazione, all’indagine e alla sperimentazione. Diremo allora che, in generale, la “filosofalità” si oppone alla “filosoficità” nella misura in cui, prescindendo dal dato naturale, costruisce una realtà fittizia attraverso il discorso logico dialettico; redigendo classificazioni, categorizzazioni, distinzioni, opposizioni, relazioni e dimostrazioni che restano interne, confinate e “proprie” alla discorsività logico-dialettica. Discorsività che concerne soltanto il linguaggio stesso che la genera e non altro, rimanendo estranea alla sfera del filosofico quale correlato dell’operare cognitivo in rapporto alla possibile conoscenza oggettiva del reale. Conoscenza la quale, a nostro parere, si dà “esclusivamente” a partire  dalla datità propria delle acquisizioni scientifiche e non certo nella discorsività logico-dialettica che da essa prescinde. 

[3] Il Dio di Eraclito.

[4] Il Dio di Parmenide.

[5] Il Dio di Platone.

[6] Il Dio degli Stoici, il Dio-Parola creatrice di San Giovanni Evangelista e il Dio-Figlio di Giustino, di Sant’Ireneo e di Origene.

[7] Un Dio-Verità può ritenersi quello posto da Sant’Agostino, da Sant’Anselmo e da San Tommaso d’Aquino, ma non meno da Husserl e in qualche modo da Heidegger.

[8] Il Dio di Spinoza e di Emanuele Severino.

[9] Precisiamo qui subito il nostro punto di vista, in base al quale in filosofia una qualsiasi inferenza ontologica si può dare esclusivamente di ciò che sia ontico, vale a dire realmente esistente. Ontologico e ontico vengono pertanto a coincidere antropicamente nel senso che ontico è il reale oggettivo e fattuale ed ontologico è il suo riscontro nella mente dell’uomo espresso nel linguaggio. 

[10] Il Dio di Plotino.

[11] Il Dio-Principio cosmico della teologia Veda, dei Brahmanā e delle Upanishad.

[12] Il Dio di Platone.

[13] Il Dio-Anima del mondo del Vedānta.

[14] Il Dio di Fichte, di Schelling e di Hegel.