Poesie, racconti e...

Racconto n. 1: "Il viaggio"

" Le onde che si infrangono sui costoni di pietra mi danno una certa inquietudine ma non riesco a smettere di guardare. Poi il panorama scorre lesto, si intravedono delle case trasandate, qualcuno le utilizza soltanto nel periodo estivo.Poi ancora la spiaggia, il mare che in lontananza si confonde con il colore grigio del cielo. Il passeggero seduto accanto a me prepara i suoi bagagli, la sua fermata è alla prossima stazione. Non ha la faccia soddisfatta né allegra, forse come me è costretto a lavorare lontano da casa. Ha una sciarpa di lana rossa che stona sul suo abbigliamento elegante, ma durante il viaggio l'ho visto spesso affondarvici il volto come per cercare un profumo, per rivivere un ricordo, deve essere stata regalata da una persona cara. Frugo nella mia borsa per cercare il walkman, devo ascoltare della musica per annientare il tempo che scorre e per lenire la mia malinconia. Una sorta di tristezza mi sta invadendo la mente. Ho sempre lottato per vivere nel mio piccolo lembo di terra del Sud, portavo avanti i miei ideali, ho sempre rifiutato l'idea di lasciare la mia casa per cercare lavoro altrove, ho fatto dalla venditrice porta a porta all'agente assicurativo, ho lavato piatti in un ristorante, ma l'arte di arrangiarmi non mi ha permesso di mettere da parte i soldi per fare quel viaggio che ho sempre desiderato: andare a New York. Non so di preciso cosa mi spinge a sognare l'America, forse perché sono cresciuta sentendo parlare di questa parte di terra come il crogiuolo del mondo. Non so se oggi, alla luce degli ultimi eventi che hanno segnato le pagine della storia voglio ancora fare questo viaggio per dare vita ad un pensiero di bambina, forse un giorno chissà. Questa mattina ho preso il treno per Milano, ho trovato lavoro come segretaria in un'azienda, è stato facile via Internet, un mezzo telematico che accorcia le distanze nel mondo e che ha di fatto allontanato per migliaia di chilometri me dai miei affetti. Mio padre eri lì alla stazione, aspettava che il treno partisse mentre continuava a guardarmi dal finestrino. I suoi occhi rugosi erano tristi, gli ho detto più volte di andare, io ero seduta, i bagagli erano a posto. Lui è rimasto lì finchè il mio sguardo è riuscito a intravederlo, finchè all'orizzonte, lasciata la stazione, non è comparsa una città che diventava sempre più piccola fino a dissolversi nei campi inverditi dai germogli del grano. A Milano non ci sarà nessuno ad aspettarmi. Chiamerò un taxi per farmi accompagnare alla pensione dove sono riuscita a fittare una camera per un mese. I soldi me li ha dati papà e mi sono ripromessa che glieli restituirò lavorando sodo.
a mio padre Antonio

Racconto n. 2: "Una giornata qualsiasi"

" La mattina alzarmi è sempre un trauma, per quanto io la possa ancora chiamare mattina. Anche questa giornata prevede lo stesso copione: mio padre che torna a casa e mi sveglia urlando, mio nonno accanto al camino che continua a rigirare un vecchio ferro nella brace come se tutto ciò servisse a ravvivare la fiamma, la tavola apparecchiata. Devo lavare i piatti, passare l'aspirapolvere e poi sprofondare nella poltrona per leggere qualsiasi cosa mi capiti a tiro, avevo iniziato un libro di avventura ma l'ho messo da parte, anche i miei pensieri sono troppo stanchi per poter sognare. A 30anni dovrei avere un lavoro, una ragazza, una mia vita. Invece sopravvivo a me stesso e continuo a rifiutare l'idea di essere depresso. Il dottore la scorsa settimana mi ha di nuovo dato quei farmaci che servono a stordire un elefante per farmi dormire, ma io non li prenderò perché voglio dimostrare che sono più forte della mia paranoia. Faccio una doccia, metto su i miei jeans nuovi e un bel maglione, le scarpe nuove ultimo modello della levi's che mia sorella mi ha regalato piacevano a mio fratello più piccolo così gliele ho regalate, tanto io mi adatto, metterò quelle vecchie reebok che indosso da anni, un salto dinanzi allo specchio, una sistematina ai capelli, devo ricordarmi di dire a qualcuno di comprare quella cera per capelli che non so dove ho messo, e poi fuori. Fa freddo, stringo un po' la sciarpa, non c'è quasi nessuno in giro del resto cosa pretendo di trovare alle quattro del pomeriggio in un paesino di provincia. Al bar ci saranno i soliti scansafatiche come me, ma almeno loro hanno una macchina, soldi in tasca. Anche io ho una macchina, una Renault 4 bianca, è stato l'unico sogno da ragazzo che sono riuscito a realizzare. Quattro milioni e mezzo più passaggio di proprietà, tutti in contante, i miei primi ed unici risparmi di quando lavoravo, adesso è parcheggiata nel garage, non mi sento in grado di guidarla perché non riesco a concentrarmi e poi non ho più la patente persa chissà dove. Sorride ripensando alla firma di quel contratto, possedere quell'auto è stata una cosa indescrivibile. Peccato che gli eventi catastrofici della vita mi hanno investito in pieno ed io non sono riuscito più a rialzarmi. Un colpo di tosse del nonno desta il suo sonno, Giò si era addormentato sulla poltrona e ci sono ancora i piatti da lavare.
A Giò ! ! !

Racconto n. 3: "La coscienza di Oriana"

Preferisco parlare dell'invulnerabilità che tanti, in Europa, attribuivano all'America. Invulnerabilità? Ma come invulnerabilità?!? Più una società è democratica e aperta, più è esposta al terrorismo. Più un paese è libero, non governato da un regime poliziesco, più subisce o rischia i dirottamenti o i massacri che sono avvenuti per tanti anni in Italia in Germania e in altre regioni d'Europa. E che ora avvengono, ingigantiti, in America. Non per nulla i paesi non democratici, governati da un regime poliziesco, hanno sempre ospitato e finanziato e aiutano i terroristi. L'Unione Sovietica, i paesi satelliti dell'Unione Sovietica e la Cina Popolare, ad esempio. La Libia di Gheddafi, l'Iraq, l'Iran, la Siria, il Libano arafattiano, lo stesso Egitto, la stessa Arabia Saudita di cui Usama Bin Laden è suddito, lo stesso Pakistan, ovviamente l'Afghanistan, e tutte le regioni musulmane dell'Africa. Negli aeroporti e sugli aerei di quei paesi io mi sono sempre sentita sicura. Serena come un neonato che dorme. L'unica cosa che temevo era essere arrestata perché scrivevo male dei terroristi. Negli aeroporti e sugli aerei europei, invece, mi sono sempre sentita nervosetta. Negli aeroporti e sugli aerei americani, addirittura nervosa. E a New York, due volte nervosa. (A Washington, no. Devo ammetterlo. L'aereo sul Pentagono non me lo aspettavo davvero). A mio giudizio, insomma, non è mai stato un problema di "se": è sempre stato un problema di "quando". Perché credi che martedì mattina il mio subconscio abbia avvertito quella inquietudine, quella sensazione di pericolo? Perché credi che contrariamente alle mie abitudini abbia acceso il televisore? Perché credi che fra le tre domande che mi ponevo mentre la prima torre bruciava e l'audio non funzionava, ci fosse quella sull'attentato? E perché credi che appena apparso il secondo aereo abbia capito? Poiché l'America è il Paese più forte del mondo, il più ricco, il più potente, il più moderno, ci sono cascati quasi tutti in quel tranello. Gli americani stessi, a volte. Ma la vulnerabilità dell'America nasce proprio dalla sua forza, dalla sua ricchezza, dalla sua potenza, dalla sua modernità. La solita storia del cane che si mangia la coda. Nasce anche dalla sua essenza multi-etnica, dalla sua liberalità, dal suo rispetto per i cittadini e per gli ospiti. Esempio: circa ventiquattro milioni di americani sono arabi- musulmani. E quando un Mustafà o un Muhammed viene diciamo dall'Afghanistan per visitare lo zio, nessuno gli proibisce di frequentare una scuola di pilotaggio per imparare a guidare un 757. Nessuno gli proibisce d'iscriversi a un'Università (cosa che spero cambi) per studiare chimica e biologia: le due scienze necessarie a scatenare una guerra batteriologica. Nessuno. Neppure se il governo teme che quel figlio di Allah dirotti il 757 oppure butti una fiala di batteri nel deposito dell'acqua e scateni una strage. (Dico "se" perché stavolta il governo non ne sapeva un bel niente e la figuraccia fatta dalla Cia e dall'Fbi va al di là d'ogni limite. Se fossi il presidente degli Stati Uniti io li caccerei tutti a pedate nei posteriori per cretineria). E detto ciò torniamo al ragionamento iniziale. Quali sono i simboli della forza, della ricchezza, della potenza, della modernità americane? Non certo il jazz e il rock and roll, il chewing-gum e l'hamburger, Broadway ed Hollywood. Sono i suoi grattacieli. Il suo Pentagono. La sua scienza. La sua tecnologia. Quei grattacieli impressionanti, così alti, così belli che ad alzar gli occhi quasi dimentichi le piramidi e i divini palazzi del nostro passato. Quegli aerei giganteschi, esagerati, che ormai usano come un tempo usavano i velieri e i camion perché tutto qui si muove con gli aerei. Tutto. La posta, il pesce fresco, noi stessi (E non dimenticare che la guerra aerea l'hanno inventata loro. O almeno sviluppata fino all'isteria). Quel Pentagono terrificante, quella fortezza che fa paura solo a guardarla. Quella scienza onnipresente, onnipossente. Quella tecnologia raggelante che in pochissimi anni ha stravolto la nostra esistenza quotidiana, la nostra millenaria maniera di comunicare, mangiare, vivere. E dove li ha colpiti, il reverendo Usama Bin Laden? Sui grattacieli, sul Pentagono. Come? Con gli aerei, con la scienza, con la tecnologia. By the way: sai cosa mi impressiona di più in questo tristo ultramiliardario, questo mancato play-boy che anziché corteggiare le principesse bionde e folleggiare nei night-club (come faceva a Beirut quando aveva vent'anni) si diverte ad ammazzar la gente in nome di Maometto e di Allah? Il fatto che il suo sterminato patrimonio derivi anche dai guadagni d'una Corporation specializzata nel demolire, e che egli stesso sia un esperto demolitore. La demolizione è una specialità americana.
Grazie dei fior ! ! !