Tibullo

vita - opera - considerazioni

 

 

 

 

Albio Tibullo

(Gabii? 55/48 – 19 o 18 a.C.)

 

 

Vita.

Biografia incerta. Abbiamo poche e incerte notizie sulla vita di T. (anche il "praenomen" è ignoto), il poeta elegiaco che Orazio, in una sua epistola, pur ritrae bello e dotato di ogni bene, mentre s'aggira nella campagna di Pedum (nei pressi di Tivoli) troppo immerso in penosi pensieri, ridotto come un "corpo senz'anima".

La vita in campagna. Di ceto equestre, T. nacque in territorio laziale, anche se è molto improbabile l'identificazione del luogo di nascita nel villaggio di Gabii, come da qualcuno è stato proposto. Vittima come tanti altri dell'ondata di confische di terre a favore dei veterani di Filippi, egli poté tuttavia conservare del suo patrimonio quel tanto che gli permise di condurre un'esistenza non più ricca come i suoi avi, ma certamente agiata.

L'incontro con Messalla. Il fatto più importante della sua vita "pubblica" fu l'incontro con Messalla Corvino, cui fu sempre legato da intensa amicizia e del cui circolo romano fu il principale rappresentante, fino alla morte: pur avversando la vita militare, T. accettò di accompagnarlo addirittura in due spedizioni militari, una in Oriente, nel corso della quale dovette fermarsi, ammalato, a Corcira (Corfù); l'altra in Aquitania, ove si distinse per meriti militari (e in un'elegia, canterà proprio il trionfo di Messalla, celebrato nel 27). 

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Opera.

Corpus Tibullianum [vers.lat] [trad.it]. I codici ci hanno trasmesso, sotto il nome di T., 3 libri di elegie, comunemente noti come "Corpus Tibullianum". I primi due sono sicuramente del nostro poeta: il I fu composto tra il 30 e il 25, consta di 10 elegie e vi si canta sopra tutto l'amore per una donna, Delia, che Apuleio, nell' "Apologia", dice chiamarsi Plania (T. avrebbe ellenizzato il suo nome: "planus" = "delos"); il II comprende 6 elegie, in 3 delle quali è cantata un'altra donna, chiamata con uno pseudonimo, Nemesi: come una "Vendetta" per i tradimenti di Delia. Di un altro nome di donna fa cenno Orazio: una certa Glicera, "crudele" perchè venuta meno al patto d'amore col poeta.

C'è poi il III libro, ch'è un'antologia di 20 componimenti in distici elegiaci (salvo il VII, in esametri), divisa dagli umanisti italiani in 2 parti, o addirittura in 2 libri distinti (il III e il IV): la prima parte contiene una raccolta di 6 elegie [1-6] che l'autore, un poeta che si fa chiamare Ligdamo, dedica alla sua Neera; la seconda consta di 11 elegie [8-18] che cantano l'amore di Sulpicia e Cerinto, per concludersi con 2 componimenti, verosimilmente attribuibili a T. giovane: un'elegia per una "puella innominata" (la Glicera di cui sopra?) e un epigramma. Fra l'una e l'altra sezione, è inserito infine il "Panegyricus Messallae" (è questo il componimento in esametri), un elogio, appunto, delle imprese di Messalla.

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Considerazioni.

Opera "collettiva". Molto probabile è che l'intero "Corpus" sia frutto di poeti del circolo letterario di Messalla Corvino: vi si nota come una ispirazione comune, quasi monocorde, comunque lontana dall'estrema ricchezza e varietà di toni dei poeti appartenenti invece alla cerchia di Mecenate.

I temi. Come ci rivela già la "programmatica" I elegia del I libro, i temi fondamentali della genuina poesia tibulliana, rinvenibile - a conclusione di quanto detto - nei primi 2 libri del "Corpus", sono la campagna e l'amore (a cui possiamo associare, per importanza, il profondo senso di religiosità), sempre vagheggiati, molto spesso intrecciati: il poeta ama vedere la sua donna, Delia, sullo sfondo della campagna, e contemplarla con tenerezza, talora appena tinta di un'indefinita malinconia e nostalgia.

L'amore. A Delia, nel I libro, egli dedica 5 elegie [I, II, III, V, VI]: ella è quasi certamente una creatura reale (anche se filtrata dalla fantasia letteraria del poeta), una bella biondina, sposata e liberta, o comunque di umile condizione: è lei la donna ideale per T., è lei l'ispiratrice degli accenti più teneri e delicati, dei pensieri più umani e gentili del canzoniere: il poeta, come già detto, sogna di vivere con lei una vita serena e felice nella pace dei campi e di averla accanto a sé in punto di morte. Eppure Delia si rivela tutt'altro da come T. se la rappresenta: è una creatura volubile, che sa anche tradire senza scrupolo. Inevitabile, così, la rottura, che il poeta, nonostante il voltafaccia di lei, pur non sopporta: egli si lascerà andare all'ira, ma un'ira essa stessa dolce, e portata al perdono: l'invettiva cruda e feroce è solo nei confronti della mezzana, che ha procurato alla "sua" Delia un nuovo amante.

Nel II libro i toni divengono forse più sofferti e più "crudi": vi sono 3 elegie [III, IV, VI] dedicate a Nemesi, la "saeva, dura puella", una cortigiana sensuale ed avida di denaro, tra le cui braccia il poeta malauguratamente si getta per "vendicarsi" dei tradimenti di Delia: ma il nuovo amore ben presto si mostra per quello che è veramente, imponendo al poeta un'umiliante schiavitù, un triste "servitium".

Tuttavia, nonostante i cambiamenti di registri e situazioni, l'ispirazione di fondo permane sostanzialmente identica: infatti, le avventure con Delia, con Nemesi o, ancora, col giovinetto Màrato (cui T. dedica ben 3 elegie nel I libro) sembrano spesso svaghi di fantasia e di sogno più che reali, effettive esperienze: il poeta non ama soffermarsi su ciò che è attuale e presente, ma abbandonarsi sempre - come detto - alla speranza, al desiderio, alla rievocazione nostalgica del passato. La stessa Nemesi, pur se descritta, <<talora, con qualche tratto realistico, adempie troppo scopertamente ad una funzione di contrappunto, per riuscire a celare la letterarietà della sua costruzione artistica>> [I. Lana].

La campagna. Se metà di ogni libro è per la donna che domina, in quel momento, la vita del poeta, l'altra metà tocca altri temi cari a T.: rispettivamente, nel I libro, oltre al già detto amore per il giovinetto Màrato [elegie IV, VIII, IX] troviamo, quindi, la VII elegia che celebra la gloria di Messalla dopo il trionfo del 27, e la X, che loda la pace e la vita nei campi; nel II libro, la I elegia descrive la festa rurale degli "Ambarvalia" (rito di purificazione dei campi), la II è per l'amico Cornuto che festeggia il compleanno, la V - infine - è un'esaltazione (in toni che ricordano molto da vicino Virgilio) del Lazio agreste e idillico anteriormente alla fondazione di Roma (anche il nostro poeta, insomma, paga il suo tributo ai programmi di restaurazione augustei).

Si affaccia, così, prepotente il "mito" della campagna: essa non è solo quella di Delia e delle tenerezze d'amore: è anche la campagna che, con la sua idillica pace, si contrappone agli avidi guadagni e al fragore delle armi; T., infatti, non cerca la ricchezza e detesta la guerra, nella quale vede un mezzo di arricchimento, non di diffusione della civiltà: al contrario, egli s'accontenta di un' "aurea mediocritas", che gli consenta una vita moderatamente agiata e soprattutto tranquilla, nel segno di un profondo e desiderato "disimpegno".

 

La religiosità. Quella di T. è, ancora, la campagna delle feste contadine, quella che conserva i riti antichi del mondo rurale. Il poeta è rimasto legato alla fede della sua infanzia, agli dèi della campagna e del focolare: i Lari (ai cui piedi egli correva, da bambino) e Silvano e Priapo e Bacco, e poi Cerere e Pale. La campagna coi suoi riti è per lui l'approdo sicuro, ove più genuini si manifestano gli affetti domestici e i sacri vincoli della famiglia. Anche la già affermata esaltazione di Roma, presente nel II libro, si risolve nella rievocazione della religiosità agreste del Lazio primitivo. torna all'inizio

Il ciclo di Ligdamo. Come sopra accennato, l'attuale III libro consta di 6 elegie attribuite a un certo Ligdamo (come si nomina lo stesso poeta), che canta il suo amore per una donna, Neera. Si tratta con ogni probabilità di uno pseudonimo: solo uno schiavo, infatti, avrebbe potuto avere un nome greco, mentre il poeta, come risulta dalle elegie, si rivela di condizione libera. Ardua è però l'identificazione di Ligdamo, anche se l'ipotesi più plausibile è che sia uno poeti che fecero parte del circolo di Messalla (taluni lo identificano con lo stesso T., talaltri addirittura con Ovidio giovane: Ligdamo stesso, del resto, confessa di essere nato nel medesimo anno di quest'ultimo).

Quel che si può con sufficiente certezza affermare è che Ligdamo ha letto, e imitato, sia T. che Ovidio, mutuandone immagini ed espressioni per dare vita al suo ancor tenue, giovanile mondo poetico. E’ innamorato di Neera, con una dilezione tenera e casta, e accarezza il sogno di una vita matrimoniale con lei. Ma Neera è incostante e infedele, e l'abbandona, lasciandolo affranto dal dolore: ed egli nel dolore s'arrovella, certo più di T., e vagheggia disperatamente ma dolcemente la morte.

Il Panegirico di Messala. Il "Panegyricus Messallae", un elogio di Messalla composto forse nel 31 a.C., anno del suo consolato, apre l'attuale IV libro del Corpus. E’ stato attribuito a T. giovane, ma sembra troppo lontano dalla sua arte (con ben altro fermento fantastico T. ha celebrato l'amico-protettore nella citata elegia del I libro). Il caratteristico divagare tibulliano qui scade in una retorica, adulatrice esaltazione di Messalla, oratore (nella I parte) e condottiero (nella II), con l'aggiunta di pedanti digressioni sull'Odissea e sulle cinque zone climatiche.

Il ciclo di Sulpicia e Cerinto. Seguono, nel IV libro, 13 componimenti. Il "ciclo di Sulpicia e Cerinto" ne "occupa" - come visto - 11: le prime 5 narrano le vicende d'amore di Sulpicia, forse una nipote di Messalla, col giovane Cerinto; esse sono state attribuite, con buona probabilità, a T. (ma come suona strano questo T. che narra amori altrui!). Gli altri 6 componimenti sono brevissimi biglietti d'amore composti, per il suo diletto, forse dalla stessa Sulpicia; in essi, la fanciulla confessa il suo amore, che è fuoco di sensi, con sorprendente immediatezza espressiva: ella brama rivelare la sua passione, e non tenerla nascosta, perché dolce le è l'aver peccato e perché se ha un vero pentimento è solo per un mancato incontro, ovvero per aver lasciato solo il suo Cerinto durante una notte, troppo preoccupata di nascondergli tutto il suo ardore.

Lingua e stile. Al tono a suo modo sognante e arcadico dell'opera, e apparentemente "dimesso", contribuisce la stessa tecnica compositiva di T., che ama disporre come a onde i vari motivi che si sviluppano nell'elegia: un tema si innesta su un altro, per poi venire abbandonato e poi ripreso, in un gioco sinuoso di volute entro cui ogni realtà sembra perdere i suoi connotati, come in una composizione musicale. Le vane note della poesia tibulliana si fondono, così, spesso senza scorie che sappiano di stilizzazione o di "maniera", in una struttura tanto sottile quanto organica; l'assenza di erudizione mitologica ne rende ancora più nitido il disegno, tal che l'elegia tibulliana, anche per questo, occupa nell'antichità un posto tutto particolare (già riconosciuto da molti, a suo tempo), e anche oggi straordinariamente moderno.

L'andamento vago, ondeggiante del testo poetico di T. si combina poi - ed è qui forse il suo fascino precipuo - con un linguaggio chiaro, elegante nella sua sobrietà, in apparenza semplice, ma in realtà risultato di un sorvegliatissimo, dotto studio, espressione consumata di quel senso della misura caratteristico del classicismo augusteo (già Quintiliano acutamente definì T. "tersus atque elegans"). Armonioso e musicale è infine il suo distico; forse - se proprio vogliamo muovergli una critica - solo un po' "monotono".

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