Nepote, Storie di uomini illustri
De Excellentibus Ducibus Exterarum Gentium
Praefatio Agesilaus - Alcibiades - Aristides - Chabrias - Cimon - Conon - Datames Dion - Epaminondas - Eumenes - Hamilcar - Hannibal - Iphicrates - Lysander - Miltiades - Pausanias - On Kings - Pelopidas - Phocion - Themistocles - Thrasybulus - Timoleon - Timotheus.
De Latinis Historicis
Attico - Catone
De Excellentibus Ducibus Exterarum Gentium
PREFAZIONE.
1. Non dubito che saranno i piu', o Attico, a giudicare questo genere di scrittura leggero e non abbastanza degno del carattere di uomini eccellenti quando leggeranno il racconto su chi ha insegnato la musica a Epaminonda o quando leggeranno che si ricorda tra le sue virtu' che bene danzava e che con maestria suonava il flauto. 2 Ma si tratterà al solito di quelli che, ignari di cultura greca, riterranno conveniente solo ciò che è conforme alle loro abitudini. 3 Se questi si renderanno conto che non tutti hanno lo stesso concetto di ciò che è onorevole e di ciò che è turpe, ma che tutto si giudica in conformità delle consuetudini degli antenati, non si meraviglieranno se noi, nel trattare dei meriti dei Greci, abbiamo seguito i loro costumi. 4 Per Cimone, ad esempio, uno dei più eminenti Ateniesi, non era cosa turpe aver per moglie una sorella consanguinea dato che i suoi concittadini seguivano la stessa usanza; invece questo secondo i nostri costumi è ritenuto un'empietà. A Creta è titolo di lode per i giovani aver avuto il maggior numero possibile di amasi. A Sparta non c'è vedova per quanto nobile che non si rechi, dietro mercede, ad un banchetto. 5. L'essere nominato vincitore a Olimpia era tenuto in gran merito in quasi tutta la Grecia; senza dubbio per quelle genti mostrarsi in scena ed essere spettacolo per il popolo non fu motivo di infamia per nessuno. Tutto questo invece da noi è considerato in parte disonorevole, in parte spregevole, in parte disonesto. 6 Al contrario sono onorevoli, secondo i nostri costumi, parecchie usanze che presso di loro vengono ritenute indecorose. Quale Romano per esempio si vergogna di portare ad un banchetto la moglie? o quale padrona di casa non risiede nella parte anteriore della casa e non fa vita di società? 7 Ben diversamente stanno le cose in Grecia: la donna non è ammessa a un banchetto se non di parenti e risiede solo nella parte più interna della casa chiamata gineceo, dove nessuno ha accesso se non i parenti più stretti. 8. Ma sia la grandezza dell'opera sia l'impazienza di raccontare ciò cui ho dato inizio mi impediscono di proseguire qui oltre. Verremo perciò al nostro scopo e in questo libro esporremo la vita dei piu' straordinari condottieri.
AGESILAO.
Agesilao, spartano, fu colmato di lodi non solo dagli altri storici, ma anche, e straordinariamente, da Senofonte, il discepolo di Socrate; e di costui fu molto amico. In un primo tempo egli ebbe una disputa riguardo il regno con Leotichide, figlio di suo fratello. Era infatti usanza tramandata dagli antenati agli Spartani di avere sempre due re, di nome piu' che nel governo concreto, dalle due famiglie di Procle e di Euristene, che dalla progenie di Ercole furono i primi re di Sparta. Non era permesso diventare re da una di queste due famiglie al posto dell'altra famiglia . Così entrambe rispettavano il proprio ordine di successione. In primo luogo era considerato diritto per diventare re quello di essere il figlio maggiore tra i figli dell'ultimo reggente morto; se questi non aveva lasciato figli maschi allora era scelto il piu' vicino per parentela. Era morto il re Agide, fratello di Agesilao. Aveva lasciato il figlio Leotichide, che Agide non aveva riconosciuto come suo quando era nato, ma che poi in punto di morte aveva dichiarato suo figlio. Costui con Agesilao, suo zio paterno, lottò per la carica del regno e non conseguì quello che aveva cercato di ottenere. Infatti gli fu anteposto Agesilao, giacchè sosteneva Agesilao Lisandro, uomo, come abbiamo mostrato sopra, intrigante e a quel tempo potente.
Questi, non appena si fu impadronito del potere, convinse gli Spartani ad inviare l'esercito in Asia ed a far guerra al re, dimostrando che era meglio che si combattesse in Asia che in Europa. Si era infatti sparsa la fama che Artaserse stesse allestendo flotte ed eserciti di terra, da inviare in Grecia. 2 Ottenuta l'autorizzazione agì con tanta rapidità che giunse con le truppe in Asia prima che i satrapi del re sapessero che era partito. Per cui successe che colse tutti impreparati e di sorpresa. 3 Come venne a sapere ciò Tissaferne, che allora tra tutti i prefetti del re aveva il supremo comando, chiese una tregua allo Spartano, fingendo di adoperarsi, perché si arrivasse ad un accordo tra gli Spartani e il re, ma in realtà per ammassare truppe, e la ottenne di tre mesi. 4 L'uno e l'altro giurarono che avrebbero osservato la tregua senza inganno. Il patto fu rispettato da Agesilao con assoluta lealtà; al contrario Tissaferne non fece altro che preparare la guerra. 5 E quantunque il Lacone si accorgesse di ciò, tuttavia teneva fede al giuramento ed affermava che da questo egli ritraeva grande vantaggio, perché Tissaferne con il suo spergiuro e alienava gli uomini dalle sue imprese e provocava l'ira degli dèi contro di sé; lui invece, mantenendo la parola data, rinsaldava la fiducia dell'esercito, quando questo vedeva che la maestà degli dèi era dalla sua parte e si faceva gli uomini più amici, poiché questi stanno di solito dalla parte di quelli che vedono mantenere la parola data.
Scaduto il termine della tregua, il barbaro non dubitando, dato che egli aveva moltissimi castelli nella Caria e la regione a quel tempo era ritenuta di gran lunga la più ricca, che là soprattutto i nemici avrebbero sferrato l'attacco, aveva radunato là tutte le sue truppe. 2 Agesilao invece marciò alla volta della Frigia e fece in tempo a saccheggiarla prima che Tissaferne Si muovesse affatto. Arricchiti i soldati col molto bottino, riportò l'esercito a svernare ad Efeso ed ivi, organizzate fabbriche di armi, si diede con grande energia a preparare la guerra. E perché si armassero con più zelo e si equipaggiassero con maggior decoro, propose dei premi da elargire a quelli che si fossero dimostrati particolarmente alacri in questa attività. 3 Fece lo stesso nei vari tipi di esercitazioni, sì da premiare con ricchi doni chi si fosse distinto sugli altri. Con questi mezzi poté avere un esercito molto ben equipaggiato ed allenato. 4 E quando gli parve giunto il momento di tirar fuori le truppe dai quartieri di inverno, capì che se avesse indicato apertamente la direzione della sua marcia, i nemici non ci avrebbero creduto ed avrebbero presidiato altre regioni e non avrebbero dubitato che egli avrebbe fatto diversamente da quanto avesse manifestato. 5 E così avendo egli detto che sarebbe andato a Sardi, Tissaferne credette di dover fortificare ancora la Caria. Ma in questa sua previsione si ingannò e quando si vide gabbato dallo stratagemma, parti troppo tardi in soccorso dei suoi. Infatti quando giunse là, Agesilao aveva già conquistate con la forza molte località e si era impadronito di una grande preda. 6 Lo Spartano poi vedendo che i nemici erano più forti nella cavalleria, non accettò mai battaglia campale e venne a combattimento in quei luoghi dove avesse miglior gioco la fanteria. Mise in fuga, ogni volta che si scontrò, le milizie degli avversari di gran lunga superiori e si condusse in Asia in modo da essere considerato, secondo l'opinione generale, il vincitore.
Mentre progettava di fare una spedizione contro i Persiani ed attaccare il re stesso, gli giunse dalla patria, da parte degli èfori, il messaggio, che gli Ateniesi ed i Beoti avevano dichiarato guerra agli Spartani, perciò non indugiasse a tornare. 2 In questo frangente va ammirato il suo amor patrio non meno del suo valore militare: egli comandava un esercito vittorioso ed aveva la massima fiducia di impadronirsi del regno persiano, tuttavia con tanto ossequio obbedì agli ordini dei magistrati lontani come se fosse stato privato cittadino nell'assemblea di Sparta. E magari i nostri generali avessero voluto imitare il suo esempio! 3 Ma torniamo all'argomento. Agesilao ad un regno ricchissimo antepose la buona reputazione e stimò molto più glorioso, se avesse obbedito alle istituzioni della patria, che se avesse conquistato in guerra l'Asia. 4 Con questi sentimenti dunque trasportò le truppe oltre l'Ellesponto e fu di tanta rapidità che il tragitto che Serse aveva compiuto nel corso di un anno, egli lo compì in trenta giorni. 5 Mentre già si trovava non molto lontano dal Peloponneso, gli Ateniesi ed i Beoti e gli altri alleati tentarono di sbarrargli la strada presso Coronea: ma egli li vinse tutti in un'aspra battaglia. 6 La gloria di questa vittoria raggiunse il culmine quando, rifugiatisi moltissimi fuggiaschi nel tempio di Minerva e chiedendoglisi che cosa voleva che si facesse di loro, egli nonostante che avesse ricevuto in quel combattimento alquante ferite e sembrasse adirato verso tutti coloro che avevano preso le armi contro di lui, tuttavia antepose all'ira il sentimento religioso e vietò che fossero violati. 7 E questo, di ritenere inviolabili i templi degli dèi, non lo fece solo in Grecia, ma anche presso i barbari conservò, con grandissimo rispetto, tutte le statue e le are. 8 Pertanto soleva dire di meravigliarsi che non fossero ritenuti dei sacrileghi coloro che avessero recato del male ai supplici degli dèi o che coloro che offendevano la religione non fossero puniti con pene più severe di coloro che spogliavano i templi.
1.Dopo questa battaglia tutta la guerra è portata intorno a Corinto e da ciò è chiamata guerra corinzia.2. Nonostante in questi luoghi avessero ucciso sotto il comando di Agesilao diecimila nemici in una sola battaglia e nonostante l'esercito nemico sembrasse indebolito dopo questa vittoria, si astenne dall'insolenza tipica della gloria a tal punto che deplorò la sorte della Grecia perchè tanti da lui vinti erano morti per colpa degli avversari: infatti con quella moltitudine, se fosse stata sana la mente della Grecia, (la Grecia) avrebbe potuto dar pena ai Persiani. 3. Egli, dopo aver spinto entro le mura gli avversari, nonostante molti lo esortassero a espugnare Corinto, disse che questo non si confaceva alla sua virtu': lui era uno che costringeva a tornare all'obbedienza chi aveva mancato ai propri doveri, non uno che espugnava le nobilissime città della Grecia. 4. "Infatti" disse "se vorremo uccidere quelli che hanno combattuto con noi contro i barbari di certo noi espugneremo noi stessi mentre quelli riposeranno. Fatto questo, senza fatica ci vinceranno quando vorranno".
Nel frattempo gli Spartani subirono la disfatta di Leuttra. Per non andare colà, quantunque fosse da molti sollecitato ad uscire, quasi ne presagisse l'esito, non volle lasciare la città. Ma poi, quando Epaminonda dette l'assalto a Sparta e la città era senza mura, si dimostrò comandante tale che in quella circostanza fu chiaro a tutti che, se non ci fosse stato lui, Sparta non ci sarebbe stata più. 2 Ed in tale frangente la rapidità della sua decisione fu di salvezza per tutti. Infatti alcuni ragazzotti, spaventati dell'arrivo dei nemici, volendo passare ai Tebani, avevano occupato un'altura fuori della città: Agesilao intuendo che sarebbe stato esiziale se si fosse notato il tentativo di diserzione al nemico, andò là con i suoi e come se quelli avessero agito con retta intenzione, 3 lodò la loro decisione di occupare quella posizione; anche lui del resto aveva capito che bisognava fare questo. Così fingendo di lodarli, recuperò quei ragazzi e aggregati loro alcuni suoi compagni, lasciò la postazione ben difesa. Infatti quelli, cui si erano aggiunti uomini ignari della loro decisione, non osarono muoversi, e tanto più volentieri, perché credevano che fossero rimasti nascosti i loro divisamenti
Senza dubbio dopo la battaglia di Leuttra gli Spartani non si riebbero più e non riacquistarono l'egemonia di prima; ma nel frattempo Agesilao giammai desisté di recare aiuto alla patria con tutti i mezzi che potesse. 2 Gli Spartani, per esempio, avevano assoluto bisogno di denaro; egli allora andò in soccorso di tutti quelli che si erano ribellati al re; ne ebbe in compenso molto denaro e recò sollievo alla patria. 3 Ed a questo proposito, fu soprattutto degno di ammirazione il fatto che quantunque fossero recati a lui ricchissimi doni dai re e dai dinasti e dalle città, egli mai nulla si portò a casa sua, nulla mutò del tenore di vita, nulla del modo di vestire degli Spartani. 4 Visse contento in quella stessa casa nella quale era vissuto Euristene, il capostipite dei suoi antenati; chi vi entrava non poteva scorgerci alcun segno di mollezza, né di lusso, invece moltissimi invece di austerità e di frugalità. Era infatti così messa che non differiva in nulla da quella di qualsiasi povero e privato cittadino
E quest'uomo tanto grande, come aveva avuto generosa la natura nella elargizione delle virtù morali, così la sperimentò maligna nelle complessione del corpo: fu di bassa statura ed esile di corpo e zoppo. Questo difetto gli dava anche una certa deformità e quelli che non lo conoscevano, quando guardavano le sue fattezze, lo disprezzavano; ma quelli che conoscevano le sue virtù, non sapevano ammirarlo abbastanza. 2 Fu quello che gli capitò quando all'età di ottant'anni si recò in Egitto in aiuto a Tacho: si era sdraiato con i suoi sulla spiaggia senza alcuna tenda e avendo per giaciglio della paglia stesa sulla nuda terra con sopra nient'altro che una pelle; sullo stesso giaciglio s'erano sdraiati anche tutti i suoi compagni con un vestito rozzo e vecchio, tanto che il loro abbigliamento non solo non indicava tra loro nessun re ma lasciava intendere che si trattasse di uomini tutt'altro che ricchi. 3 Giunta la notizia del suo arrivo ai messi del re, prontamente furono recati là doni di ogni genere. Questi cercavano Agesilao ma a stento riuscirono a convincerli che era uno di quelli che allora riposavano distesi. 4 Essi consegnarono a nome del re, quello che avevano portato, ma lui, a parte la carne di vitello e cibi di tal genere, di cui aveva bisogno nelle presenti circostanze, non accettò nulla; gli unguenti, le corone e le seconde portate le distribuì agli schiavi, tutto il resto lo fece riportare indietro. 5 Per questo comportamento, i barbari lo disprezzarono ancora di più, perché ritenevano che egli avesse preferito quei cibi, ignorando le vivande raffinate. 6 Aveva ricevuto in compenso dal re Nectanábide duecentoventi talenti per farne dono al suo popolo, ma nel suo viaggio di ritorno dall'Egitto, arrivato al porto che è detto di Menelao, situato tra Cirene e l'Egitto, cadde malato e mori. 7 Là gli amici, perché lo potessero trasportare più facilmente a Sparta, dato che non avevano il miele, lo spalmarono tutto di cera e così lo riportarono in patria
ALCIBIADE
1. Alcibiade, figlio di Clinia, Ateniese. In lui sembra che la natura abbia sperimentato quello che può compiere.
E' certamente risaputo tra tutti quelli che hanno tramandato il ricordo di quest'uomo che nessuno lo superò tanto nei vizi quanto nelle virtu'. 2. Nato in una grandissima città da nobile famiglia, di gran lunga il piu' bello tra tutti quelli della sua età, abile in tutte le attività e pieno di senno - infatti fu un eccellente comandante per mare e per terra -; loquace, tanto da valere tra i primi nell'arte della parola, perchè così grande era il pregio della dizione e del linguaggio che nessuno poteva resistergli; ricco; 3. quando le circostanze lo richiesero, operoso, tenace; generoso, signorile non meno nella vita pubblica che in quella privata; affabile, piacevole, ingegnosamente accondiscendente nelle varie situazioni: 4. ma lui medesimo, non appena si rilassava e non aveva impegni, si mostrava dissoluto,sregolato, sfrenato, smodato, così che tutti si meravigliavano che in un solo uomo ci fosse una così grande dissomiglianza di comportamenti e una natura così volta in direzioni opposte.
Fu allevato nella casa di Pericle (infatti si dice che fosse suo figliastro), istruito da Socrate. Ebbe per suocero Ipponico, di gran lunga il più ricco di tutti i Greci, sì che se anche avesse voluto inventarsele, non avrebbe potuto immaginare più ricchezze né ottenerne di maggiori, rispetto a quelle che o la natura o la fortuna gli aveva concesso. 2 Nella sua prima giovinezza fu amato da molti, come è costume dei Greci, fra cui Socrate e di questo fa cenno Platone nel Simposio. Infatti lo introduce che ricorda di aver dormito con Socrate e di essersi alzato dal suo letto non altrimenti che un figlio si sarebbe alzato dal letto del padre. 3 Dopo che divenne più maturo, ne amò a sua volta altrettanti e nel corso di questi amori commise, finché gli fu lecito, atti biasimevoli, ma anche molti raffinati e spiritosi. Li riferiremmo se non avessimo da parlare di cose più serie ed importanti.
Durante la guerra del Peloponneso gli Ateniesi, seguendo il suo autorevole parere, dichiararono guerra ai Siracusani; ed a condurla fu scelto come comandante lui stesso; gli furono inoltre assegnati due colleghi, Nicia e Lámaco. 2 Mentre si facevano i preparativi, prima che la flotta uscisse dal porto, accadde che in una stessa notte tutte le erme della città venissero abbattute tranne una, che si trovava davanti alla casa di Andocide: così quella fu in seguito chiamata il Mercurio di Andocide. 3 Siccome era evidente che l'azione era stata compiuta con la complicità di molti, che non avevano di mira faccende private, ma dello Stato, la gente fu presa da una grande paura che all'improvviso scaturisse nella città un colpo di Stato per sopprimere la libertà. 4 Sembrava che tutto questo si addicesse a pennello ad Alcibiade, dato che era abbastanza potente e più che un privato cittadino: infatti molti aveva legato a sé con la sua generosità, più ancora aveva fatto suoi sostenitori con la sua attività forense. 5 Per questo motivo, ogni volta che si presentava in pubblico, attirava su di sé gli occhi di tutti e nessuno nella città era considerato pari a lui. Così riponevano in lui non solo una grandissima speranza ma anche timore perché poteva fare del bene o del male in sommo grado. 6 Godeva inoltre di cattiva fama perché si vociferava che in casa sua praticasse i misteri, cosa empia per gli Ateniesi e si riteneva che ciò avesse a che fare non tanto con la religione quanto con una congiura.
Nell'assemblea popolare era accusato di questo crimine dai suoi nemici. Ma incalzava il tempo di partire per la guerra. Pensando egli a questo e ben conoscendo le abitudini dei suoi concittadini, chiedeva che se volessero intraprendere' un'azione penale contro di lui, si facesse subito l'indagine giudiziaria piuttosto che essere citato assente per un'accusa dei malevoli. 2 I suoi nemici però capivano che per il momento bisognava star calmi, perché non si poteva nuocergli e decisero di aspettare quando fosse partito, per attaccarlo durante la sua assenza. E così fecero. 3 Infatti, quando ritennero che fosse giunto in Sicilia, lo accusarono assente di aver profanato i misteri. Per questo gli fu spedito in Sicilia un messo dal magistrato, con l'ordine di ritornare per difendersi ed egli, che nutriva molte speranze di poter adempiere bene alla sua missione, non volle disubbidire e si imbarcò su una trireme mandata apposta per riportarlo. 4 Arrivato con questa a Turii in Italia, riflettendo molto tra sé e sé sulla licenza senza freno dei suoi concittadini e sulla loro crudeltà contro i nobili, ritenne la soluzione migliore di evitare l'imminente tempesta, e quindi si sottrasse di nascosto ai suoi guardiani e da lì andò prima nell'Elide, poi a Tebe. 5 Quando poi venne a sapere di essere stato condannato a morte, alla confisca dei beni e, cosa che accadeva spesso, che i sacerdoti Eumolpidi erano stati costretti dal popolo a scomunicarlo e una copia della scomunica, perché ne rimanesse più sicura memoria, incisa su una colonnetta di pietra, era stata esposta in pubblico, se ne andò a Sparta. 6 Lì, come soleva ripetere, condusse una guerra non contro la patria, ma contro i suoi avversari, perché erano anche i nemici della città; i quali benché capissero che lui poteva essere di grande aiuto allo Stato, lo avevano cacciato e avevano ubbidito più al proprio risentimento che all'interesse comune. 7 Così dietro suo suggerimento gli Spartani strinsero amicizia con il re di Persia; quindi fortificarono Decelèa nell'Attica e, posto ivi un presidio permanente, strinsero d'assedio Atene. Sempre per opera sua allontanarono la lonia dall'alleanza con gli Ateniesi. Da quel momento cominciò la netta supremazia degli Spartani nella guerra.
Ma pur con questi successi, gli Spartani non tanto divennero amici di Alcibiade, quanto gli si fecero nemici per paura. Infatti conoscendo di quell'uomo tanto energico la grande intelligenza in tutte le cose, temettero che spinto dall'amor di patria, una volta o l'altra si staccasse da loro e si riconciliasse con i propri concittadini. Così cominciarono a cercar l'occasione di ucciderlo. 2 La cosa non poté rimanere a lungo celata ad Alcibiade; aveva infatti un fiuto infallibile, soprattutto quando avesse predisposto la mente a star all'erta. Così si rifugiò da Tissaferne, satrapo del re Dario. 3 Ne divenne intimo amico e poiché vedeva che la potenza degli Ateniesi, per l'infelice impresa di Sicilia, declinava, mentre aumentava quella degli Spartani, in un primo momento per mezzo di intermediari entra in trattativa con lo stratego Pisandro che aveva l'esercito presso Samo e accenna al suo ritorno: questi infatti era delle stesse idee politiche di Alcibiade, ostile al potere del popolo e fautore degli ottimati. 4 Abbandonato da costui, prima grazie a Trasibulo, figlio di Lico, viene riammesso nell'esercito e ottiene un comando presso Samo, poi, coll'appoggio di Terámene, per decreto dei popolo viene riabilitato e benché assente ottiene il comando militare insieme con Trasibulo e Terámene. 5 Durante il loro comando, ci fu un così grande cambiamento della situazione, che gli Spartani, che poco prima erano vittoriosi e potenti, atterriti chiesero la pace. Erano stati vinti infatti in cinque battaglie terrestri, tre navali, in cui avevano perso duecento trirerni catturate e cadute in potere dei nemici. 6 Alcibiade insieme con i colleghi aveva riconquistato la Ionia, l'Ellesponto, inoltre parecchie città greche delle coste dell'Asia, parecchie delle quali avevano espugnate, tra queste Bisanzio, e altrettante se le erano fatte alleate, con una politica lungimirante perché avevano usato clemenza con i prigionieri. 7 Così carichi di preda, avendo arricchito l'esercito, e compiuto imprese grandiose, tornarono ad Atene.
Giacchè tutta la popolazione era scesa loro incontro al Pireo, divenne così grande l'attesa di tutti di vedere Alcibiade che la gente confluì alla sua trireme proprio come se lui fosse giunto da solo. 2. Infatti il popolo era convinto che le precedenti disfatte e le attuali vittorie si erano verificate per opera sua. Così imputavano a loro stessi la colpa della perdita della Sicilia e delle vittorie degli Spartani, dal momento che avevano allontanato dalla città un tale uomo. E sembrava che pensassero questo non senza ragione. Infatti, dopo che cominciò ad essere a comando dell'esercito, nè per terra nè per mare i nemici poterono essere pari. 3.Qui appena scese dalla nave, nonostante Teramene e Trasibulo fossero stati a capo delle medesime imprese e nonostante fossero giunti insieme al Pireo, tutti seguivano lui solo e, cosa che mai era stata in uso prima - se non per i vincitori a Olimpia -, gli venivano donati dal popolo corone di alloro e nastri. Lui riceveva commosso tale benevolenza dei suoi concittadini ricordando l'asprezza dei loro rapporti precedenti. 4. Dopo che giunse in città, convocata un'assemblea, parlò in un modo tale che nessuno fu tanto duro da non piangere delle sue disgrazie e da non mostrarsi nemico di coloro a causa dei quali era stato cacciato dalla patria, come se un altro popolo, e non quello stesso che allora piangeva, lo avesse condannato per sacrilegio. 5. Poi gli furono restituiti pubblicamente i suoi beni e i sacerdoti Eumolpidi, gli stessi che lo avevano scomunicato, furono costretti a benedirlo di nuovo e le colonne su cui era stata scritta la scomunica furono gettate in mare.
Questa letizia di Alcibiade non durò troppo a lungo. Infatti gli erano state decretate tutte le cariche e affidati tutti i poteri dello Stato in pace e in guerra, sì che esso veniva governato dall'arbitrio di lui solo; dopo aver chiesto ed ottenuto che gli fossero dati come colleghi Trasibulo e Adimanto, fece una spedizione navale in Asia; ma presso Cime le cose non andarono secondo le attese e quindi ricadde nell'odio: 2 ritenevano infatti che non ci fosse nulla che non potesse riuscirgli. Ne conseguiva che gli imputassero a colpa tutti gli insuccessi, dicendo che aveva agito o con negligenza o per tradimento. E così accadde anche allora: infatti lo accusavano di non aver voluto conquistare Cime, perché corrotto dal re. 3 Per cui riteniamo che gli nuocesse soprattutto l'eccessiva considerazione del suo ingegno e del suo valore. Era infatti temuto non meno che amato: c'era il rischio che imbaldanzito dalla buona sorte e dalla grande potenza potesse aspirare alla tirannide. Avvenne così che gli revocarono, mentre era assente, l'incarico e gli sostituirono un altro. 4 Come lo venne a sapere, non volle tornare in patria e si diresse a Pattia e li fece fortificare tre borghi, Orno, Bizante, Neontico e, radunata una schiera, primo di tutti i Greci penetrò nella Tracia, ritenendo più glorioso arricchirsi con le prede dei barbari che dei Greci. 5 Perciò si era arricchito sia di fama che di mezzi e si era legato di stretta amicizia con alcuni re della Tracia.
Ma non poté rinunciare all'amore di patria. Difatti quando Filocle, comandante degli Ateniesi, ancorò la flotta presso Egospotami e vicino c'era Lisandro, comandante degli Spartani, che si dava da fare per protrarre quanto più poteva la guerra, perché a loro forniva il denaro necessario il re di Persia, mentre agli Ateniesi esausti non rimanevano che le armi e le navi, 2 Alcibiade si recò presso l'esercito ateniese e lì alla presenza della truppa cominciò a parlare così: se volevano, egli avrebbe costretto Lisandro a combattere o a chiedere la pace; gli Spartani non volevano combattere in mare, perché erano più forti nell'esercito di terra che nella flotta; 3 ma per lui era comunque facile convincere Seute,il re dei Traci, a cacciare Lisandro dal continente: per cui sarebbe stato costretto o a combattere per mare o a far la pace. 4 Filocle si rendeva conto che le cose che quello diceva erano giuste, tuttavia non volle fare quanto richiesto, perché capiva che se avesse accolto Alcibiade, lui nell'esercito non avrebbe più contato nulla e nel caso di qualche successo, non gliene sarebbe stato riconosciuto alcun merito; nel caso di una sconfitta, sarebbe stato ritenuto l'unico responsabile dell'errore. 5 Andandosene da lui Alcibiade disse: "Poiché ti opponi alla vittoria della patria, ti avverto di una cosa: non tenere vicino al nemico gli schieramenti navali: 'è infatti il pericolo che per l'indisciplina dei vostri soldati si dia a Lisandro l'occasione di annientare il vostro esercito". 6 E non si ingannò a tale proposito. Infatti Lisandro, avendo appreso dai suoi osservatori che il grosso dell'esercito ateniese era sbarcato per depredare e che le navi erano rimaste quasi vuote, non si lasciò sfuggire l'occasione di attaccare e con quel solo assalto pose fine a tutta la guerra.
Ma Alcibiade, dopo la sconfitta degli Atenicsi, ritenendo che quei luoghi non fossero sufficientemente sicuri per lui, si nascose all'interno della Tracia, oltre la Propontide, sperando che lì molto facilmente avrebbe potuto tener nascosti i suoi averi. Si sbagliava. 2 Infatti quando i Traci si accorsero che era arrivato con una grande quantità di denaro, gli tesero un agguato: gli portarono via quello che aveva recato con sé, ma non riuscirono a prenderlo. 3 Alcibiade, rendendosi conto che nessun luogo nella Grecia era per lui sicuro per lo strapotere degli Spartani, passò in Asia da Farnabazo e lo legò talmente a sé con i suoi modi affabili, da divenire il suo più intimo amico. E così gli concesse Grinio, un castello in Frigia, da cui ricavava un tributo di cinquanta talenti. 4 Ma Alcibiade non si sentiva pago di questa fortuna e non riusciva a darsi pace che Atene vinta fosse sotto il giogo degli Spartani. E così tutti i suoi pensieri erano rivolti a liberare la patria. 5 Ma capiva che ciò non poteva realizzarsi senza il re di Persia e perciò desiderava farselo amico ed era certo che ci sarebbe riuscito se solo avesse avuto la possibilità di incontrarlo. Sapeva infatti che il fratello Ciro, gli preparava in segreto una guerra con l'aiuto degli Spartani; se glielo avesse rivelato, capiva che avrebbe conquistato pienamente il suo favore.
Si dava dunque da fare per questo piano e chiedeva a Farnabazo di essere inviato dal re; nel medesimo tempo però Crizia e gli altri tiranni degli Ateniesi avevano mandato uomini fidati in Asia da Lisandro per avvisarlo che se non avesse tolto di mezzo Alcibiade, nessuno dei provvedimenti da lui presi per Atene sarebbe stato duraturo; per cui se voleva che la sua opera rimanesse, doveva dargli la caccia. 2 Lo Spartano, impressionato da questa notizia, stabilì di trattare in modo più stretto con Farnabazo. Dunque gli fa sapere che l'alleanza tra gli Spartani ed il re sarebbe stata annullata se non gli avesse consegnato vivo o morto Alcibiade. 3 Il satrapo non seppe tener testa a costui e preferì violare lo spirito di umanità che vedere diminuita la potenza del re. Così mandò Susamitre e Bageo ad uccidere Alcibiade, mentre lui era in Frigia e si apprestava ad andare dal re. 4 Gli inviati incaricano segretamente alcuni che abitavano vicino ad Alcibiade, di ucciderlo. Siccome quelli non osavano attaccarlo con le armi, di notte accatastarono della legna intorno alla capanna in cui dormiva e le dettero fuoco in modo da uccidere con le fiamme quello che non erano sicuri di poter vincere con la spada. 5 Ma lui come fu svegliato dal crepitio delle fiamme, sebbene gli fosse stata portata via la spada, afferrò da un amico lo stiletto che portava sotto l'ascella: c'era infatti con lui un ospite dell'Arcadia che non aveva voluto mai separarsi da lui. Gli ordina di seguirlo e arraffa tutte le vesti che in quel momento poté trovare. Gettatele sul fuoco, poté sfuggire alla violenza delle fiamme. 6 Quando i barbari videro che era sfuggito all'incendio, scagliarono da lontano dei dardi e lo uccisero e portarono la sua testa a Farnabazo. Ma la donna che viveva abitualmente con lui, lo coperse con la sua veste muliebre e lo cremò, morto, nell'incendio dell'edificio, suscitato per anilientarlo da vivo. Così morì Alcibiade all'età di circa quaranta anni. Denigrato da molti, tre autorevolissimi storici lo esaltarono in sommo grado: Tucidide che fu suo contemporaneo; Teopompo, che visse qualche tempo dopo, e Timeo: questi due benché molto maldicenti, non so come mai, si trovano d'accordo nell'esaltare lui soltanto. 2 Infatti hanno celebrato le virtù di cui prima abbiamo parlato ed hanno aggiunto questo: benché nato nella splendidissima città di Atene, superò in splendore e prestigio tutti. 3 Quando, bandito dalla patria, andò a Tebe, si adattò tanto alle loro abitudini, che nessuno poteva uguagliarlo nella capacità di resistenza fisica (tutti i Beoti infatti tengono più alla robustezza dei corpo che all'acume dell'intelletto); 4 parimenti a Sparta dove la più alta virtù era riposta nella capacità di sopportazione, si dedicò ad una vita austera tanto da superare gli Spartani nella frugalità del mangiare e del vestire; visse in mezzo ai Traci, ubriaconi e lussuriosi: superò anche loro in queste abitudini; 5 si recò tra i Persiani, per i quali era somma gloria essere abili cacciatori e vivere sontuosamente: imitò così bene i loro costumi, da suscitare in questo la loro ammirazione. 6 Insomma con queste sue doti ottenne che, dovunque si trovasse, fosse considerato il primo e fosse molto amato. Ma basta di lui: passiamo ad altri.
ARISTIDE.
Aristide, figlio di Lisimaco, Ateniese, fu press'a poco coetaneo di Temistocle. Con lui si disputò il comando; infatti si avversarono reciprocamente. 2. In loro si constatò quanto l'eloquenza valesse piu' della rettitudine morale. Infatti, nonostante Aristide eccellesse per l'integrità al punto da essere soprannominato "il Giusto", unico a memoria d'uomo che con sicurezza noi sappiamo, tuttavia, diffamato da Temistocle, fu condannato a un esilio di dieci anni con il famoso ostracismo. 3. Egli capiva che non si poteva calmare la folla esaltata e andandosene notò un tale che scriveva che fosse cacciato dalla patria; si racconta che Aristide gli domandò perchè lo stesse facendo o che cosa Aristide avesse commesso per essere ritenuto degno di una pena così pesante. 4. Quello gli rispose che non conosceva Aristide, ma che a lui non piaceva perchè tanto ardentemente si era adoperato per essere chiamato "Giusto" piu' di tutti gli altri. 5. Aristide non portò a compimento la pena di dieci anni fissata dalla Legge. Infatti, dopo che Serse scese in Grecia, durante il sesto anno circa del suo esilio, fu riportato in patria per decreto del popolo.
Partecipò alla battaglia navale di Salamina che fu combattuta prima che la pena gli venisse condonata. Fu poi stratego degli Ateniesi nella battaglia di Platea, dove Mardonio fu ucciso e l'esercito dei barbari fu annientato. 2 Non c'è nessuna altra sua azione bellica di rilievo oltre che il ricordo di questo comando; ma molte sono le testimonianze della sua giustizia, equità ed innocenza: prima fra tutte si deve alla sua moderazione se il comando supremo della potenza navale passò dagli Spartani agli Ateniesi quando militava nella flotta comune della Grecia insieme a Pausania sotto il cui comando Mardonio era stato sconfitto. 3 Fino a quel momento infatti erano gli Spartani a tenere il comando per terra e per mare; ma allora per la prepotenza di Pausania e la giustizia di Aristide accadde che tutte si può dire le città della Grecia si alleassero con Atene e che scegliessero contro i barbari comandanti ateniesi.
Per tenere lontani i barbari piu' facilmente, se per caso avessero tentato di riprendere la guerra, fu scelto Aristide per decidere quanto denaro avrebbe dovuto dare ciascuna città per costruire le flotte e per preparare gli eserciti, e per sua decisione ogni anno venivano raccolti a Delo quattrocentosessanta talenti. Vollero che questa somma fosse l'erario comune. In un momento successivo tutto questo denaro fu trasferito ad Atene. 2. Non c'è prova piu' certa della sua rettitudine morale del fatto che, pur essendo l'amministratore di tanto denaro, morì in così grande povertà che a mala pena lasciò la somma necessaria per essere seppellito. 3. Perciò le sue figlie furono mantenute con denaro dello Stato e si sposarono con doti tratte dall'erario comune. Morì all'incirca quattro anni dopo che Temistocle era stato cacciato da Atene.
CABRIA.
Cabria, Ateniese. Anche costui fu ritenuto tra i sommi condottieri e compì molte imprese degne di memoria. Ma tra queste risplende soprattutto lo stratagemma che escogitò nella battaglia presso Tebe, quando si recò in soccorso dei Beoti. 2 Infatti, in essa bloccò il comandante supremo Agesilao che confidava nella vittoria, perché già aveva messo in fuga gli squadroni dei mercenari: al resto della falange egli impedì di abbandonare il posto di combattimento ed insegnò loro ad attendere l'assalto dei nemici con lo scudo puntato contro il ginocchio, l'asta tutta protesa in avanti. Agesilao, accortosi di questa novità, non oso avanzare e con la tromba richiamò indietro i suoi già lanciati all'attacco. 3 Questo stratagemma fu celebrato per tutta la Grecia, tanto che Cabria volle che gli si facesse una statua in quella posizione; e questa gli fu innalzata dagli Ateniesi nell'agora a spese dello Stato. Da ciò venne in seguito l'usanza che gli atleti e gli altri artisti nella realizzazione delle statue, facessero ricorso a quelle posizioni con le quali avevano ottenuto la vittoria.
Cabria diresse molte guerre in Europa, essendo comandante degli Ateniesi; in Egitto la condusse di sua iniziativa. Infatti partito in aiuto di Nectenebi gli procurò un regno. 2. La stessa cosa fece a Cipro, ma mandato ufficialmente dagli Ateniesi in aiuto di Evagora, e non se ne andò da lì prima di aver sottomesso tutta l'isola con la guerra; dalla qual cosa gli Ateniesi conseguirono grande gloria. 3. Intanto scoppiò la guerra tra l'Egitto e la Persia. Gli Ateniesi erano alleati con Artaserse, gli Spartani con gli Egiziani; dai quali Agesilao, loro re, traeva enormi guadagni. Cabria, considerando questo e non volendo essere in nulla inferiore ad Agesilao, di sua iniziativa partito in loro aiuto, si mise a capo della flotta Egiziana, mentre Agesilao era a capo delle truppe di terra.
Allora i satrapi del re persiano inviarono ambasciatori ad Atene a protestare del fatto che Cabria conducesse la guerra insieme agli Egiziani contro il re. Gli Ateniesi fissarono a Cabria un giorno, entro il quale se non fosse tornato in patria, gli notificarono che lo avrebbero condannato alla pena capitale. A questo messaggio egli ritornò ad Atene, ma non rimase là più a lungo di quanto fu necessario. I suoi concittadini infatti non lo vedevano di buon occhio: viveva sfarzosamente e si dava troppo alla bella vita perché potesse sfuggire al mal volere della gente. 3 E' questo vizio comune a tutti gli Stati grandi e liberi, che l'invidia sia compagna della gloria e che volentieri screditino coloro che vedono levarsi troppo in alto e che i poveri non guardino con animo sereno la fortuna degli altri che sono ricchi. E così Cabria, finché le circostanze glielo permettevano, se ne stava assente il più a lungo possibile. 4 E non era lui solo a stare volentieri lontano da Atene: fecero lo stesso pressoché tutti i capi, perché ritenevano che sarebbero stati lontani dalla invidia nella misura in cui fossero stati lontani dai loro concittadini. Così Conone visse per lo più a Cipro, Ificrate in Tracia, Timoteo a Lesbo, Carete al Sigeo; molto diverso Carete da questi e per vicende e per costumi, ma tuttavia in Atene onorato e potente
Cabria morì al tempo della guerra sociale in questo modo. Gli Ateniesi combattevano per espugnare Chio. Nella flotta Cabria c'era come privato cittadino, ma superava in autorità tutti quelli che ricoprivano una carica ufficiale e i soldati guardavano con fiducia piu' a lui che ai comandanti. 2.E questo stato di fatto gli anticipò la morte. Infatti, mentre si adoperava per entrare per primo nel porto e ordinava al timoniere di dirigere lì la nave, proprio lui fu la rovina di se stesso. Entrato là, le altre navi non lo seguirono. Verificatosi questo, circondato dai nemici accorsi in massa, pur combattendo valorosamente, la sua nave colpita da un rostro cominciò ad affondare. 3. Potendo fuggire da lì, se si fosse buttato in mare, giacchè la flotta ateniese era vicina e avrebbe raccolto i naufraghi, preferì morire piuttosto che, gettate le armi, lasciare la nave sulla quale era stato portato là. Gli altri non vollero fare lo stesso e nuotando arrivarono in salvo. Mentre lui, ritenendo che fosse preferibile una morte dignitosa a una vita da vile, combattendo corpo a corpo fu ucciso dalle armi dei nemici.
CIMONE.
Cimone, figlio di Milziade, Ateniese, ebbe il primo periodo della giovinezza molto duro. Infatti, giacchè suo padre non aveva potuto pagare allo Stato la multa stabilita ed era morto in prigione per questo motivo, Cimone medesimo era tenuto in arresto e non poteva essere lasciato libero secondo le leggi ateniesi se non avesse pagato il denaro per cui suo padre era stato multato. 2. Ma aveva sposato sua sorella consanguinea di nome Elpinice, guidato piu' dall'usanza che dall'amore. Infatti è lecito per gli Ateniesi sposare le sorelle nate dal medesimo padre. 3. Un certo Callia, desideroso di sposare Elpinice, uomo non tanto nobile quanto ricco che aveva fatto molti soldi con le miniere, trattò con Cimone perchè gliela desse in moglie: se avesse ottenuto questo avrebbe pagato per lui la multa. 4. E mentre Cimone rifiutava un tale accordo, Elpinice disse che non avrebbe lasciato che la stirpe di Milziade andasse perduta in un carcere pubblico, poichè aveva la possibilità di impedirlo, e disse che avrebbe sposato Callia se costui avesse mantenuto quanto prometteva.
Liberato in tal modo dalla prigione, Cimone arrivò al potere rapidamente. Era dotato, infatti, di buona eloquenza, di grandissima generosità, di notevole perizia sia del diritto civile che dell'arte militare, perché fin da piccolo era stato col padre in mezzo agli eserciti. Così tenne in suo potere il popolo della città e godette presso l'esercito di un grandissimo prestigio. 2 Dapprima come comandante mise in fuga presso il fiume Strírnone un grande esercito di Traci, fondò la piazzaforte di Anfipoli e inviò colà, per costituirvi una colonia, diecimila Ateniesi. Ancora presso Mícale vinse e catturò una flotta di duecento navi di Ciprioti e Fenici e nella stessa giornata conseguì un pari successo sulla terraferma. 3 Infatti, catturate le navi dei nemici, fece subito sbarcare dalla flotta le sue truppe e in un solo assalto annientò una grandissima moltitudine di barbari. 4 Con questa vittoria si impadronì di una grande preda e mentre tornava in patria, dato che alcune isole si erano ribellate per la durezza del dominio ateniese, riaffermò il potere su quelle ben disposte, costrinse all'obbedienza le ribelli. 5 Spopolò Sciro, che allora era abitata dai Dòlopi, perché si erano comportati in modo arrogante, cacciò dalla città e dall'isola i vecchi abitanti, divise i campi tra i cittadini ateniesi. Appena arrivato, vinse gli abitanti di Taso, fiduciosi nella loro ricchezza. Con questo bottino fu adornata la rocca di Atene, nella parte meridionale.
Giacchè era l'unico nella città a distinguersi in modo così eccellente grazie a queste imprese, cadde nella medesima ostilità in cui erano incappati suo padre e gli altri capi ateniesi. Così fu condannato ad un esilio di dieci anni con il voto dei cocci , che chiamano "ostracismo". 2.Di questo, però, si pentirono gli Ateniesi prima ancora di lui. Infatti, mentre lui si era piegato con animo forte all'ostilità dei suoi ingrati concittadini, giacchè gli Spartani avevano dichiarato guerra agli Ateniesi subito si rimpianse il suo ben noto valore. 3.Così, dopo il quinto anno dacchè era stato cacciato fu richiamato in patria. E dal momento che aveva rapporti di ospitalità con gli Spartani, ritenendo fosse meglio dirigersi velocemente a Sparta, di sua volontà partì e procurò la pace tra le due potentissime città. 4.Dopo non molto tempo, mandato a Cipro come comandante con duecento navi, dopo aver sottomesso la maggior parte dell'isola, ammalatosi, morì nella città di Cizio.
Gli Ateniesi lo rimpiansero a lungo non solo in guerra ma anche in pace. Fu infatti così generoso che, possedendo in parecchi luoghi orti e poderi, non vi pose mai un custode a protezione dei prodotti, perché tutti potessero goderne a volontà. 2 Sempre lo seguivano dei servi con monete, perché, se qualcuno avesse bisogno del suo aiuto, avesse di che dargli subito, per non dare l'impressione, rimandando ad altro tempo, di un rifiuto. Spesso, vedendo qualcuno colpito dalla fortuna, male in arnese, gli dette il suo mantello. 3 Ogni giorno si faceva preparare un pranzo tale da poter invitare a casa sua tutti quelli che avesse incontrato nell'agora privi di invito e non c'era giorno che tralasciasse di farlo. A nessuno venne meno la sua lealtà, il suo aiuto, il suo patrimonio; molti arricchì; a parecchi morti poveri che non avevano lasciato di che esser seppelliti, fece il funerale a sue spese. 4 Comportandosi così, non c'è da stupirsi affatto se la sua vita fu tranquilla e la sua morte dolorosa.
CONONE.
Conone Ateniese si avvicinò alla politica durante la guerra del Peloponneso e in essa la sua opera fu di grande importanza. Infatti come comandante fu a capo degli eserciti di terra e, come comandante anche della flotta, riportò grandi vittorie negli scontri su mare. Per questa ragione fu onorato in modo particolare. Infatti da solo governò su tutte le isole; e mentre esercitava questa autorità conquistò Fere, colonia degli Spartani. 2.Fu anche comandante nell'ultima fase della guerra del Peloponneso, quando presso Egospotami le truppe degli Ateniesi furono sconfitte da Lisandro. Ma allora non fu presente e per questo la battaglia fu diretta piuttosto male: lui infatti era un comandante pratico dell'arte militare e coscienzioso. 3.Così nessuno in quel tempo dubitò che se lui fosse stato presente gli Ateniesi non avrebbero subito quella gravosa sconfitta.
In questa situazione disperata come venne a sapere che la patria era assediata, non cercò dove egli stesso potesse vivere in sicurezza, ma con quali mezzi potesse essere di aiuto ai suoi concittadini. Così si recò presso Farnabazo, satrapo della lonia e della Lidia e nello stesso tempo genero e parente del re; e per acquistarsi buon credito presso di lui affrontò molta fatica e molti pericoli. 2 Gli Spartani, una volta debellati gli Ateniesi, non rimanevano più nell'alleanza che avevano stipulato con Artaserse e avevano spedito Agesila a combattere in Asia, sollecitati soprattutto da Tissaferne, il quale, uno degli intimi del re, aveva abbandonato la sua amicizia e aveva stretto una alleanza con gli Spartani: contro di lui comandante ufficiale fu nominato Farnabazo, ma di fatto capo dell'esercito fu Conone e tutte le operazioni si svolsero secondo le sue direttive. 3 Egli creò molte difficoltà al generale Agesilao e spesso vanificò le sue strategie e fu chiaro che, se non ci fosse stato lui, Agesilao avrebbe strappato al re l'Asia fino al Tauro. 4 E quando quello fu richiamato in patria dai suoi concittadini, poiché i Beoti e gli Ateniesi avevano dichiarato guerra agli Spartani, Conone non diversamente continuava la sua attività presso i satrapi del re ed a tutti loro prestava i suoi preziosi servigi.
Tissaferne si era staccato dal re e questo era chiaro non tanto ad Artaserse quanto agli altri. Infatti aveva grande valore presso il re per i suoi numerosi notevoli servigi, pur non adempiendo piu' i suoi doveri. E non c'era da stupirsi se difficilmente era indotto a crederci, ricordando che grazie a lui aveva avuto la meglio sul fratello Ciro. 2.Conone, mandato presso il re da Farnabazo per accusarlo, appena fu giunto per prima cosa si recò dal chiliarca Titrauste, che reggeva il secondo grado del potere, e dichiarò di voler parlare con il re. Infatti nessuno è ammesso senza di lui. 3.Questi gli disse: "Non c'è nessun impedimento; ma scegli tu se preferisci avere un colloquio con lui o dire tramite lettera quello che pensi. Infatti è necessario, se ti presenterai al suo cospetto, che tu adori il re (essi chiamano questo "proschinesi"). Se ti è penoso, nondimeno comunicata attraverso me la tua ambasciata otterrai quello che desideri". 4.Allora Conone rispose: "In verità non mi è penoso onorare il re in qualunque modo; ma temo che sia disonorevole per la mia patria se partendo da essa, che è solita comandare sugli altri popoli, seguissi il costume dei barbari e non piuttosto il suo". Così consegnò scritte le richieste che aveva per il re.
Quando venne a conoscenza di queste cose, il re rimase tanto convinto dalla autorevolezza di costui che giudicò Tissaferne un nemico e comandò di far guerra agli Spartani e lo autorizzò a scegliere chi volesse per l'amministrazione del denaro. Conone disse che tale facoltà non era di sua competenza, bensì del re stesso che doveva conoscere molto bene i suoi; lui comunque lo consigliava di dare tale incarico a Farnabazo. 2 Ricevuti grandi doni, fu mandato al mare per ordinare ai Ciprioti ed ai Fenici ed alle altre popolazioni marittime navi da guerra e per allestire una flotta con la quale potesse l'estate successiva difendere il mare; per collaboratore gli fu dato Farnabazo, come lui stesso aveva chiesto. 3 Quando fu riferito ciò agli Spartani, conducono l'impresa con grande sollecitudine, poiché ritenevano che fosse imminente una guerra più grande che se dovessero combattere solamente col barbaro. Infatti vedevano che sarebbe stato a capo dell'esercito regio e che avrebbe combattuto contro di loro, un capitano forte ed esperto, che non avrebbero potuto superare né con l'accortezza né con la forza. 4 Con questo pensiero radunano una flotta e partono sotto il comando di Pisandro. Conone li assale presso Cnido e li mette in fuga in una grande battaglia, cattura molte navi, molte ne affonda. Con questa vittoria fu liberata non solo Atene, ma anche tutta la Grecia, che era stata sotto la egemonia degli Spartani. 5 Conone arriva in patria con una parte delle navi, fa ricostruire ambedue le mura abbattute da Lisandro, quelle del Pirèo e di Atene e dona ai suoi concittadini i cinquecento talenti che aveva ricevuto da Farnabazo
Capitò anche a costui, come agli altri mortali: che fu meno prudente nella prospera che nella avversa fortuna. Infatti, sbaragliata la flotta dei Peloponnesiaci, ritenendo di aver vendicato le ingiurie della patria, desiderò più di quanto potesse realizzare. 2 Non si trattava comunque di azioni empie o biasimevoli, perché anzi preferì aumentare la potenza della patria che non quella del re. Infatti, avendo conseguito un grande prestigio personale con quella battaglia navale che aveva combattuto presso Cnido, non solo tra i barbari ma anche presso tutte le città della Grecia, cominciò ad adoperarsi segretamente per recuperare agli Ateniesi la lonia e la Eolia. 3 Poiché il piano non rimase nascosto abbastanza, Tiribazo che era a capo di Sardi., fece venire Conone con la scusa di volerlo mandare dal re per una cosa di grande momento. Egli andò, obbedendo al suo messaggio, ma fu messo in prigione; dove rimase per qualche tempo. 4 Alcuni hanno lasciato scritto che da lì fu condotto dal re e là mori. Lo storico Dinone invece, a cui noi diamo molto credito per quanto riguarda le cose persiane, scrisse che riuscì a fuggire; è incerto, però, se con la complicità di Tiribazo o a sua insaputa.
DATAME.
Datame, figlio di Camisare, di stirpe caria, e di Scitissa, in un primo tempo fu tra i soldati che difendevano la reggia di Artaserse. Suo padre Camisare, giacchè si era mostrato forte e coraggioso in battaglia e in molte circostanze fedele al re, ebbe il governo di quella parte della Cilicia, che abitano i Leucosiri, vicina alla Cappadocia, 2.Datame, adempiendo il servizio militare, mostrò le sue qualità per la prima volta nella guerra che il re mosse contro i Cadusii. Infatti qui, uccise molte migliaia dei soldati del re, la sua opera fu di grande importanza. Perciò, giacchè Camisare in quella battaglia morì, gli venne affidata la provincia del padre.
Si dimostrò in seguito di pari valore, quando Autofrodate per ordine del re attaccò quelli che avevano tradito: grazie al suo intervento i nemici che già erano entrati nell'accampamento, furono sconfitti e il resto dell'esercito del re fu salvato; così cominciò ad avere comandi di maggiore importanza. 2 Era in quel tempo principe della Pafiagonia Tuine, di antico lignaggio, discendente da quel Pilemene che Omero dice ucciso da Patroclo durante la guerra di Troia. 3 Costui rifiutava obbedienza al re. Perciò il re decise di muovergli guerra e mise a capo dell'impresa Datáme, parente del Paflagone: erano nati infatti da un fratello e da una sorella. Per questo motivo Datáme dapprima volle tentare di riportare all'obbedienza il parente senza ricorrere alle armi, ma andato da lui senza scorta, perché non temeva alcun inganno da un amico, poco mancò che morisse: infatti Tuine progettò di ucciderlo di nascosto. 4 Con Datáme c'era la madre, zia paterna del Pafiagone; essa venne a sapere quello che si macchinava e informò il figlio. 5 Questi evitò il pericolo dandosi alla fuga e dichiarò guerra a Tuine. E quantunque nel corso di essa fosse stato abbandonato da Ariobarzane, satrapo della Lidia e della Ionia e di tutta la Frigia, nondimeno continuò a combattere e prese vivo Tuine con la moglie ed i figli.
Fece in modo che la notizia di quest'impresa non arrivasse al re prima di lui. Così all'insaputa di tutti andò dove era il re e il giorno successivo rivestì Tuine, uomo di enorme corporatura e di aspetto terribile, perché era moro e aveva i capelli lunghi e la barba fluente, di una veste bellissima che di solito indossavano i satrapi del re, lo adornò inoltre di una collana e di braccialetti d'oro e di tutti gli altri ornamenti regali: 2 egli stesso avvolto in un rozzo e spesso mantello con una tunica ruvida ed in capo un elmo da cacciatore, nella destra una clava e nella sinistra un guinzaglio, spingeva legato davanti a sé Tuine come se recasse una fiera catturata. 3 Mentre tutti lo guardavano per la stranezza dell'abbigliamento e l'aspetto mai visto prima e per questo c'era un grande accorrere di gente, ci fu qualcuno che riconobbe Tuine e lo riferì al re. 4 Dapprima non prestò fede alla notizia: così mandò a vedere Farnabazo. Quando venne a sapere l'accaduto, subito li fece venire al suo cospetto, molto divertito sia del fatto che dell'abbigliamento, soprattutto che un nobile re era venuto in suo potere quando meno se lo aspettasse. 5 Così fece ricchi doni a Datáme e lo inviò all'esercito, che si stava allora raccogliendo agli ordini di Farnabazo e Titrauste, per la guerra contro l'Egitto e comandò che egli avesse la loro stessa autorità. Quando poi il re richiamò a sé Farnabazo, fu affidato a lui il comando supremo.
Mentre Datame preparava con gran cura l'esercito, accingendosi a partire per l'Egitto, improvvisamente gli fu inviata una lettera dal re in cui era scritto di attaccare Aspi, che dominava la Cataonia; questa regione si trova sopra la Cilicia, ai confini della Cappadocia. 2.Infatti Aspi, abitando una regione boscosa e munita di fortificazioni, non solo non obbediva all'autorità del re, ma tormentava anche le regioni vicine e s'impossessava con la violenza dei tributi che venivano portati al re. 3.Datame, sebbene fosse lontano da quelle regioni e distolto da una questione piu' importante, tuttavia ritenne di dover compiacere il re. Così con pochi, ma forti uomini salì su una nave, pensando che, cosa che poi accadde, avrebbe sconfitto piu' facilmente un nemico colto di sorpresa con un piccolo esercito che non con un esercito grande quanto si voglia un nemico pronto a combattere. 4.Portato dalla nave in Cilicia, quindi sbarcato, spostandosi di giorno e di notte, attraversò il Tauro e giunse dove aspirava arrivare. Cerca di sapere in quali luoghi sia Aspi; apprende che non è lontano e che è andato a caccia. Mentre esamina queste informazioni diventa noto il motivo del suo arrivo. Aspi prepara alla resistenza i Pisidi con quelli che aveva con sè. 5.Quando Datame sente questo raccoglie le armi e ordina ai suoi di seguirlo; lui stesso, lanciato il cavallo a tutta briglia, cavalca verso il nemico. Aspi, scorgendolo da lontano venir contro di lui, è atterrito e, trattenendosi dal tentare la resistenza, si consegna. Datame lo affidò vinto a Mitridate perchè lo conducesse dal re.
Mentre si svolgevano questi fatti, Artaserse riflettendo di aver distolto il migliore dei comandanti da una guerra tanto impegnativa per un fatto di così poco conto, si rimproverò e spedì ad Ace all'esercito un messaggero, perché pensava che Datáme non fosse ancora partito, a dirgli di non allontanarsi dall'esercito. Prima che questo arrivasse alla meta, durante il viaggio si imbatté in quelli che conducevano prigioniero Aspi. 2 Per questa rapidità Datáme ottenne il grande favore del re. ma altrettanta malevolenza dei cortigiani, perché vedevano che lui da solo era considerato più di tutti loro. 3 Perciò tutti quanti si trovarono d'accordo per farlo fuori. Pandante, tesoriere del re, amico di Datáme, lo ragguaglia accuratamente per iscritto di questa trama e lo informa che avrebbe corso un grave pericolo se durante il suo comando in Egitto, gli fosse capitato qualche rovescio. 4 Era infatti consuetudine di quella monarchia di attribuire i rovesci agli uomini, i successi alla propria fortuna; ne derivava che facilmente si lasciava indurre alla rovina di quelli sotto il cui comando si riferiva esserci state sconfitte, Lui poi si sarebbe trovato in maggior pericolo, perché aveva assai ostili i consiglieri più ascoltati del re. 5 Conobbe questa lettera quando già era tornato ad Ace presso l'esercito e poiché sapeva bene che c'erano scritte cose vere, decise di staccarsi dal re. Tuttavia non compi nessuna azione sleale. 6 Infatti mise a capo dell'esercito Mandrocle di Magnesia: lui stesso con i suoi andò in Cappadocia e occupò la Pafiagonia ad essa confinante, nascondendo le sue intenzioni nei riguardi del re. Di nascosto stringe alleanza con Ariobarzane, prepara una schiera di uomini, affida ai suoi la difesa delle città fortificate.
Ma queste operazioni non procedevano bene per la stagione invernale. Viene a sapere che i Písidi preparano truppe contro di lui. Manda là suo figlio Arsideo con l'esercito; il giovane cade in combattimento. Parte per quel luogo il padre con una schiera non molto numerosa, nascondendo la grave ferita ricevuta, perché desiderava arrivare dal nemico prima che giungesse ai suoi la fama dell'insuccesso, perché una volta saputa la morte del figlio, non si abbattessero gli animi dei soldati. 2 Arrivò al luogo prefisso e pose l'accampamento in una posizione dove non potesse essere circondato dai nemici che erano in gran numero e non fosse impedito alle sue truppe di avere libertà di manovra per il combattimento. 3 Si trovava con lui Mitrobarzane, suo suocero, che comandava la cavalleria. Questi, disperando della sorte del genero, passò al nemico. Quando Dátame lo venne a sapere, capì che, se fosse trapelato nella truppa che era stato abbandonato da un così stretto parente, gli altri avrebbero seguito quel partito. 4 Fa sapere in giro che per suo ordine Mitrobarzane se ne era andato come disertore, perché, una volta accolto dai nemici, potesse più facilmente ucciderli. Perciò non era giusto che fosse lasciato solo e tutti dovevano subito seguirlo: e se avessero agito con valore, i nemici non avrebbero potuto resistere, venendo uccisi fuori e dentro le loro difese. 5 Approvato il piano, porta l'esercito fuori dell'accampamento, si limita a seguire Mitrobarzane; non appena quello fu arrivato dai nemici, Datáme dette l'ordine di attaccare. 6 I Písidi turbati dalla stranezza della cosa, si convincono che i disertori hanno agito in malafede e con l'intento, una volta accolti, di infliggere maggiori danni. Prima di tutto rivolgono l'assalto contro di loro. Quelli ignorando cosa avvenisse o perché, furono costretti a combattere contro quelli dalla cui parte erano passati e a stare dalla parte di quelli che avevano lasciato: siccome né gli uni né gli altri li risparmiavano, furono ben presto sterminati. 7 Datáme assale gli altri Písidi che oppongono resistenza: li respinge al primo assalto, li insegue nella fuga, molti ne uccide, si impadronisce dell'accampamento nemico. 8 Con tale stratagemma, nello stesso tempo annientò i traditori e sbaragliò i nemici e il piano che era stato escogitato per la sua rovina lo ritorse a sua salvezza. In nessun luogo e di nessun generale abbiamo letto di uno stratagemma escogitato con più astuzia e più rapidamente messo in opera.
Tuttavia Sisina, il figlio maggiore, si staccò da quest'uomo e passò dalla parte del re e denunciò il padre per defezione. Artaserse sconvolto da questa notizia, perchè sapeva di avere a che fare con uomo forte e coraggioso nelle imprese, che osare fare quanto aveva pensato di fare e che prima di tentare era solito pensare, mandò in Cappadocia Autofrodate. 2.Datame, affinchè costui non potesse entrare, si adoperò per occupare anticipatamente il passo da cui si entra in Cilicia. 3.Ma non potè riunire tanto presto le truppe. Distolto da questo piano, con il manipolo raccolto scelse un luogo tale da non essere circondato dai nemici e che il nemico non avrebbe potuto oltrepassare senza essere stretto da due parti e, se avesse voluto combattere là, tale che la moltitudine dei nemici non avrebbe potuto danneggiare molto la sua ridotta truppa.
Sebbene Autofrodate si rendesse conto di questo, tuttavia decise di scontrarsi piuttosto che ritirarsi con un esercito così poderoso o rimanere tanto a lungo inoperoso in uno stesso luogo. 2 Aveva ventimila cavalieri barbari, centomila fanti di quelli che loro chiamano Cardaci, tremila frombolieri della stessa nazionalità, inoltre ottomila Cappadoci, diecimila Armeni, cinquemila Pafiagoni, diecimila Frigi, cinquemila Lidi, circa tremila tra Aspendi e Písidi, duemila Cilici, altrettanti Capziani, tremila mercenari greci, un grandissimo numero di armati alla leggera. 3 Contro un esercito siffatto tutte le speranze di Datáme erano riposte in se stesso e nella natura del luogo: infatti non aveva la ventesima parte delle truppe di Autofrodate. Confidando in queste risorse, combatté e uccise molte migliaia di nemici, mentre del suo esercito non caddero più di mille uomini. Perciò il giorno dopo innalzò un trofeo sul luogo in cui il giorno innanzi si era combattuto. 4 Spostò di lì l'accampamento e pur inferiore quanto a numero di soldati, riuscì sempre vincitore in tutte le battaglie, perché mai si scontrava se non dopo aver chiuso i nemici in luoghi angusti, il che gli riusciva spesso, perché conosceva bene quelle regioni ed era assai astuto stratega. 5 Autofrodate allora, rendendosi conto che la guerra si conduceva con perdite più gravose per il re che per gli avversari, gli consigliò la pace e l'amicizia, e di riconciliarsi quindi col re. 6 Anche se non considerava sicura tale proposta, tuttavia egli l'accettò e disse che avrebbe mandato messi ad Artaserqe. Così si pose fine alla guerra che il re aveva intrapreso contro Datáme. Autofrodate si ritirò nella Frigia.
Ma il re, che aveva concepito un odio implacabile contro Datáme, quando si accorse che questi non poteva essere eliminato con la guerra, cercò di ucciderlo con le insidie, ma lui il più delle volte riuscì ad sventarle. 2 Per esempio, una volta che fu avvertito che tramavano contro di lui certuni che erano nel giro dei suoi amici, poiché a denunciarli erano stati dei nemici, egli non ritenne né di credere la cosa, né dì trascurarla, volle verificare se gli era stato riferito il vero o il falso. 3 Così parti per dove gli avevano detto che gli avrebbero teso l'agguato. Ma scelse uno di corporatura e di altezza assai simile a sé e gli dette i suoi abiti e gli ordinò di tenere la posizione che era solito tenere lui; egli stesso in divisa ed equipaggiamento da soldato si incamminò tra le guardie del corpo. 4 Ma gli insidiatori, quando la colonna in marcia fu giunta al luogo convenuto, ingannati dal posto e dalle vestì, fanno irruzione contro quello che aveva preso il suo posto. Datáme aveva avvertito quelli con i quali era in marcia di essere pronti a fare quello che avessero visto fare a lui. 5 Ed appena egli vide gli insidiatori all'attacco, scagliò dardi contro di loro. Siccome tutti fecero la medesima cosa, gli aggressori, prima che arrivassero a quello che volevano assalire, caddero trafitti.
Eppure quest'uomo tanto astuto alla fine cadde vittima dell'inganno di Mitridate, figlio di Ariobarzane. Infatti questi promise al re che avrebbe ucciso Datáme se il re gli concedesse di poter fare impunemente tutto ciò che volesse e gliene avesse data la garanzia, secondo il costume dei Persiani, con la stretta di mano. 2 Come ebbe tale promessa inviatagli dal re, prepara le truppe e da lontano stringe amicizia con Datáme: devasta le province del re, espugna fortezze, fa grandi prede, di cui una parte distribuisce ai suoi uomini, una parte invia a Datáme: allo stesso modo gli consegna parecchie fortezze. 3 Agendo per molto tempo così, convinse l'uomo di aver intrapreso una guerra ad oltranza contro il re; senza però, per non destare in lui sospetti, che per questo gli chiedesse un colloquio o cercasse di venire al suo cospetto. Gestiva questa amicizia da lontano in modo tale che sembrassero legati non da scambievoli favori, ma dall'odio comune che avevano concepito contro il re.
Quando ritenne di aver sufficientemente dimostrato quest'odio, informò Datáme che era tempo di preparare eserciti più grossi e di intraprendere una guerra contro lo stesso re; su questa faccenda, se gli sembrava opportuno, egli sarebbe venuto a parlare con lui, dovunque volesse. Accettata la proposta, si stabili il tempo del colloquio e il luogo dell'incontro. 2 Qua Mitridate viene alcuni giorni prima con uno in cui aveva fiducia assoluta, e in diversi punti qua e là nasconde delle spade e segna accuratamente quel punti. Il giorno del colloquio, entrambi inviarono alcuni a perlustrare il luogo ed a perquisire le loro stesse persone: quindi si incontrarono loro stessi. 3 Dopo che si furono qui intrattenuti a colloquio per un certo tempo e si furono separati in opposte direzioni, e Datáme era già lontano, Mitridate, prima di raggiungere i suoi, per non destare alcun sospetto, ritornò nel luogo di prima e si pose a sedere, dove era stata sotterrata l'arma, come se desiderasse riposarsi e richiamò Datáme, fingendo di aver dimenticato qualcosa durante il colloquio. 4 Frattanto tirò fuori l'arma che era nascosta e sguainata la coprì con la sua veste, ed a Datáme che si avvicinava disse che mentre se ne andava, aveva notato un luogo, che era di fronte a loro, adatto per un accampamento. 5 Mentre glielo indicava col dito e lui si voltava a guardarlo, lo trafisse con l'arma alle spalle e lo uccise prima che qualcuno potesse venirgli in aiuto. Così quell'uomo che aveva vinto molti con l'astuzia, nessuno con l'inganno, fu vinto da una falsa amicizia.
DIONE.
Dione, figlio di Apparino, siracusano, di nobile stirpe, fu coinvolto dalla tirannide di entrambi i Dionigi. Infatti il primo dei due sposò Aristomache, sorella di Dione; da lei ebbe due figli, Ipparino e Niseo, e altrettante figlie, Sofrosine e Arete; la prima delle quali diede in sposa al figlio Dionigi, lo stesso a cui lasciò il regno; mentre l'altra, Arete, la diede in sposa a Dione. 2.Dione però, oltre alla celebre parentela e alla fama di nobili antenati, ebbe dalla natura molti altri preziosi doni; tra questi, un carattere docile, affabile, adatto alle migliori arti; grande bellezza fisica (che non certo poco dà prestigio); inoltre ingenti ricchezze lasciategli dal padre, che lui stesso aveva accresciuto con i doni del tiranno. 3.Era molto amico del primo Dionigi, non meno per i suoi modi di fare che per la parentela. Infatti, sebbene non gli piacesse la crudeltà di Dionigi, tuttavia gli stava a cuore la sua incolumità per la loro parentela e piu' ancora per il bene dei suoi familiari. Gli era vicino in molte questioni e il tiranno era molto influenzato dai suoi consigli, tranne i casi in cui si frapponeva la sua troppo grande cupidigia. 4. In verità tutte le ambascerie di una certa importanza erano amministrate mediante Dione; ed egli, incaricandosene scrupolosamente e gestendole con lealtà, cercava di mitigare con la sua umanità la fama di questo crudelissimo tiranno. 5.Mandato da Dionigi presso i Cartaginesi, questi lo ammirarono tanto che mai nessun greco apprezzarono di piu'.
E queste cose invero non sfuggivano a Dionigi: infatti si rendeva conto di quanto quello contribuisse al suo prestigio. Ne conseguiva che con lui solo usasse la massima condiscendenza e che lo amasse non diversamente da un figlio. 2 Quando si sparse la voce in Sicilia che Platone era venuto a Taranto, egli non poté negare al giovane che lo facesse venire, dal momento che Dione ardeva dal desiderio di ascoltarlo. Gli dette dunque il permesso e lo fece venire a Siracusa con grande pompa. 3 E Dione ne rimase così affascinato e prese ad amarlo tanto che gli si affidò completamente. E non meno Platone si compiacque di Dione, tanto che pur essendo stato crudelmente oltraggiato dal tiranno (questi aveva ordinato che venisse venduto), tuttavia ritornò coIà vinto dalle preghiere dello stesso Dione. 4 Nel frattempo Dionigi cadde ammalato e mentre era gravemente travagliato dal male, Dione chiese ai medici come egli stesse e nello stesso tempo li pregò, nel caso si trovasse in più grave pericolo, che glielo dicessero: voleva infatti parlare con lui sulla ripartizione del regno, perché riteneva che i figliuoli della sua sorella, nati da lui, dovessero avere una parte del regno. 5 I medici non tacquero su questa faccenda e riferirono il discorso al figlio Dionigi. Quello, allarmatosi, per togliere a Dione qualsiasi possibilità di agire, costrinse i medici a dare una pozione soporifera al padre. Dopo averla presa, l'ammalato si assopì e andò all'altro mondo.
Questo fu l'inizio del disaccordo tra Dione e Dionigi, che fu accresciuto da molti elementi. Tuttavia, però, nei primi tempi tra loro rimase per un po' un'apparente amicizia. Poichè Dione non smetteva di pregare Dionigi di far venire da Atene Platone e di servirsi dei suoi consigli, Dionigi, che in qualcosa voleva imitare il padre, lo compiacque. 2.Nello stesso tempo fece tornare a Siracusa lo storico Filisto, uomo amico non tanto del tiranno quanto della tirannide. Ma di lui sono già state esposte molte notizie in quel libro che ho scritto sugli storici greci. 3.Platone potè tanto in autorevolezza su Dionigi e valse tanto la sua eloquenza che lo persuase a porre fine alla tirannide e a restituire la libertà ai Siracusani; ma da questo proposito fu dissuaso dal consiglio di Filisto e cominciò ad essere ancora piu' crudele.
Questi, in verità si rendeva conto che Dione lo superava in ingegno, prestigio e simpatia popolare e temendo che, se lo tenesse con sé, gli avrebbe offerto una qualche occasione per toglierlo di mezzo, gli dette una trireme, con la quale se ne andasse a Corinto, dicendogli chiaramente che faceva ciò per il bene di tutti e due, perché l'uno dei due, dato il reciproco timore, non sopraffacesse l'altro. 2 Poiché molti erano indignati per questo fatto e c'era un grande risentimento contro il tiranno, Dionigi fece imbarcare su delle navi tutti i beni mobili di Dione e glieli spedì. Voleva infatti che si ritenesse che lui aveva agito così non tanto per odio della persona, ma per la sua propria incolumità. 3 Ma quando venne a sapere che quello apparecchiava nel Peloponneso un esercito e si apprestava a muovergli guerra, dette Areta la moglie di Dione in sposa ad un altro e ordinò che il figlio venisse educato in modo tale che, con l'assecondarlo in tutto, venisse fatto crescere tra i più turpi piaceri. 4 Infatti al ragazzo, prima che diventasse pubere, si portavano prostitute, si rimpinzava di vino e di cibi e non gli si lasciava alcun tempo per la sua sobrietà. 5 Costui, quando il padre fu tornato in patria e gli assegnò due custodi col compito di distoglierlo dal precedente modo di vita, a tal punto non poté sopportare la sua nuova condizione, che si gettò dalla parte più alta della casa e così perì. Ma ripigliamo il filo del racconto.
Dopo che Dione fu giunto a Corinto e si fu rifugiato colà, parimenti cacciato da Dionigi, anche Eraclide che era stato prefetto della cavalleria, cominciarono a preparare la guerra con tutti i mezzi. 2 Ma non facevano molti progressi, perché una tirannide di molti anni veniva ritenuta molto potente; per la qual cosa pochi si lasciavano convincere ad una alleanza pericolosa. 3 Ma Dione, fidando non tanto nelle sue truppe quanto nell'odio contro il tiranno, con grande ardimento, partì con due navi da guerra all'attacco di un potere che durava da cinquant'anni, forte di cinquecento navi da guerra, diecimila cavalieri e centomila fanti e, impresa che a tutti i popoli parve strabiliante, lo abbatté con tanta facilità, che entrò in Siracusa appena tre giorni dopo che aveva toccato la Sicilia. Dal che si può capire che non vi può essere potere sicuro se non protetto dalla benevolenza. 4 In quel tempo Dionigi era assente ed attendeva in Italia la flotta degli avversari, ritenendo che nessuno sarebbe andato contro di lui senza un grande esercito: 5 nel che si sbagliò. Dione infatti, per mezzo di quegli stessi che erano stati sotto il potere dell'avversario, represse la baldanza del re e sì impadronì di tutta quella parte della Sicilia, che era stata sotto il potere di Dionigi e allo stesso modo della città di Siracusa, eccetto la rocca e l'isola congiunta alla città 6 e condusse tanto avanti l'impresa che il tiranno accettò la pace a queste condizioni: che Dione si tenesse la Sicilia, Dionigi FItafia, Apollòcrate, il solo in cui Dionigi riponeva la massima fiducia, Siracusa.
A questi avvenimenti tanto prosperi e tanto inaspettati segui un improvviso mutamento, perché la fortuna con la sua mutevolezza si accinse ad abbattere chi aveva poco prima innalzato. 2 Prima esercitò il suo potere dispotico sul figlio, di cui ho parlato sopra. Infatti, avendo ripreso la moglie che era stata assegnata ad un altro e volendo richiamare il figlio alla virtù dalla sfrenata lussuria, ebbe come padre una ferita gravissima dalla morte del figlio. 3 Poi scoppiò il dissenso tra lui ed Eraclide, il quale, perché non voleva riconoscere il primato a Dione, costituì un suo partito. Questi del resto godeva di un discreto prestigio presso gli ottimati, con l'appoggio dei quali aveva il comando della flotta, mentre Dione aveva ai suoi ordini l'esercito di terra. 4 Non accolse di buon animo Dione questo atteggiamento e citò quel verso di Omero del secondo canto in cui si afferma che non può essere ben governato uno Stato quando è sotto il potere di molti. La citazione provocò un grande risentimento; aveva infatti indicato chiaramente che voleva che tutto il potere fosse nelle sue mani. 5 Egli non cercò di attenuare tale sentimento con le buone maniere ma di reprimerlo con l'asprezza e una volta che Eraclide si recò a Siracusa lo fece uccidere.
Questo fatto suscitò in tutti un grandissimo timore: infatti nessuno si considerava al sicuro dopo che fu ucciso. Invece quello, eliminato l'avversario, distribuì arrogantemente tra i soldati i beni di coloro che sapeva essere a lui ostili. 2.Distribuiti questi beni, giacchè le spese quotidiane divenivano ingentissime, cominciò rapidamente a scarseggiare di denaro; e non c'erano abbastanza ricchezze su cui mettere mano se non nelle proprietà degli amici. Questo modo di agire era tale da riconciliarlo con i soldati e fargli perdere il favore degli ottimati. 3.Era abbattuto da queste preoccupazioni e, non avvezzo a sentir parlar male di sè, non sopportava di essere mal giudicato da quelli che con le loro lodi poco prima lo avevano portato al cielo. La plebe, irritata dall'atteggiamento ostile dei soldati nei suoi confronti, parlava piu' liberamente e ripeteva spesso che non si doveva sopportare il tiranno.
Egli vedeva questo malcontento, ma non sapeva come porvi rimedio e aveva timore della piega che potevano prendere le cose. Si presenta allora a Dione, un certo Callícrate, cittadino di Atene, che era venuto in Sicilia insieme con lui dal Peloponneso, uomo astuto e pronto alla frode, senza scrupoli e senza fede e gli dice 2 che lui era in grande pericolo e per il malcontento del popolo e per il risentimento contro i soldati e non poteva in alcun modo evitarlo se non dando a qualcuno dei suoi l'incarico di fingersi suo nemico personale; se avesse trovato la persona adatta, avrebbe facilmente conosciuto gli animi di tutti ed avrebbe tolto di mezzo gli avversari, dato che i suoi nemici si sarebbero confidati con un oppositore. 3 Accolto un tale consiglio, assunse questo incarico lo stesso Callícrate e si fa forte della stoltezza di Dione; raccoglie alleati per ucciderlo, si abbocca con i suoi avversari e li vincola a sé con un giuramento. 4 La trama scoperta, dato che si tesseva con molti complici, scoperta viene riferita ad Aristomache, sorella di Dione, ed alla moglie Arete. Quelle terrorizzate, si recano da lui, timorose del pericolo che correva. Ma quello nega che si preparino insidie contro di sé da Callícrate: quanto si stava tramando era fatto per suo ordine. 5 Le donne, ciononostante, trascinano Cafficrate nel tempio di Prosèrpina e gli fanno giurare che Dione non avrebbe corso alcun pericolo da parte sua. Quello non solo non si lasciò spaventare dal giuramento ma si senti spinto ad accelerare la cosa, temendo che il suo disegno venisse scoperto prima che avesse portato a termine l'operazione.
Con questo piano, nel successivo giorno di festa, mentre Dione si teneva in casa lontano dalla folla ed era andato a dormire nella camera alta, egli affida ai congiurati i punti meglio difesi della città, circonda la casa di guardie, vi mette a capo persone fidate che non si allontanino dalle porte, 2 arma una trireme di soldati e la affida al fratello Filostrato e ordina che faccia manovre nel porto, come se volesse esercitare i rematori, pensando, nel caso che la fortuna avesse ostacolato i suoi disegni, di che avere con cui cercare scampo. 3 Dal numero dei suoi sceglie poi alcuni ragazzi di Zacinto, audacissimi e fortissimi e dà loro l'incarico di andare disarmati da Dione, in modo da sembrare che si recassero da lui per un abboccamento. 4 Questi erano conosciuti e furono fatti entrare. Ma non appena ebbero varcato la soglia, sbarrate le porte, lo assalgono mentre dorme sul letto; lo legano; si fa uno schiamazzo così forte che si poteva sentire da fuori. 5 Qui, come si è detto spesso prima, ognuno poté facilmente capire quanto sia malvisto il potere dì uno solo e quanto degna di compassione la vita di quelli che preferiscono essere temuti piuttosto che amati. 6 Quelle stesse guardie, se la loro volontà fosse stata ben disposta, forzando le porte avrebbero potuto salvarlo, poiché quelli che lo reggevano vivo erano disarmati e chiedevano insistentemente un'arma da fuori. Ma poiché nessuno gli veniva in soccorso, un certo Licone Siracusano fece passare attraverso le finestre una spada con la quale Dione fu ucciso.
Compiuta l'uccisione, la folla entrò per vedere ed alcuni vennero uccisi, da chi era all'oscuro della congiura, come colpevoli. Infatti, sparsasi rapidamente la notizia che era stato fatto un attentato a Dione, erano accorsi molti ai quali tale delitto dispiaceva, e questi, spinti da falsi sospetti, uccidono degli innocenti come autori del misfatto. 2 Quando fu resa pubblica la sua morte, mirabilmente cambiò all'improvviso l'atteggiamento del volgo: quegli stessi che vivo l'avevano chiamato tiranno, ora lo celebravano come colui che aveva liberato la patria e cacciato il tiranno. Così repentinamente all'odio subentrò la compassione che, se avessero potuto, lo avrebbero riscattato col loro sangue dall'Acheronte. 3 E così, gli fu celebrato un funerale a spese dello Stato ed ebbe un monumento nel punto più frequentato della Città. Morì a circa cinquantacinque anni di età, tre anni dopo che dal Peloponneso.
EPAMINONDA.
Epaminonda, figlio di Polirmuide, Tebano. Prima che scriviamo di lui, sembra opportuno consigliare i lettori di non ricondurre gli altrui costumi ai propri e di non credere che quello che per loro è di poco valore allo stesso modo sia giudicato presso gli altri. 2.Sappiamo infatti che la musica non si addice alla figura del principe secondo i nostri costumi e che la danza poi sia annoverata tra i vizi; tutte queste cose, invece, presso i Greci sono considerate gradevoli e degne di lode. 3.E giacchè vogliamo descrivere le abitudini e la vita di Epaminonda, ci sembra di non dover omettere nulla che miri a descriverla. 4.Perciò parleremo in primo luogo della sua stirpe, poi in quali discipline e da chi sia stato istruito; quindi dei costumi e delle abilità dell'ingegno e delle altre qualità, se ce ne saranno altre degne di essere ricordate; infine delle imprese, che da molti sono anteposte al valore dell' animo.
Nato dunque dal padre che abbiamo detto, di nobile stirpe, già dai suoi antenati fu lasciato povero, ma tanto istruito che nessun Tebano lo fu di più. Infatti gli insegnò a suonare la cetra e cantare al suono della lira Dionisio, che nella musica non fu meno illustre di Damone o di Lampro i cui nomi sono assai noti; a suonare il flauto, Olimpiodoro e a danzare, Callifrone. 2 Come maestro di filosofia ebbe il tarentino Líside un pitagorico; ed a questo fu così affezionato, che quantunque ragazzo antepose nella confidenza questo vecchio malinconico ed austero a tutti i suoi coetanei; e non si licenziò da lui prima di aver di tanto superato nelle dottrine filosofiche i suoi condiscepoli, che si poteva facilmente capire che avrebbe ugualmente superato tutti nelle altre arti. 3 Queste attitudini secondo le nostre consuetudini sono di poco conto e piuttosto da biasimare; ma in Grecia, almeno un tempo, davano un grande lustro. 4 Quando giunse alla pubertà e cominciò a frequentare la palestra, non ebbe di mira tanto la robustezza quanto l'agilità: quella infatti riteneva che servisse alla pratica dell'atletica, questa alle esigenze della guerra. 5 Pertanto si esercitava moltissimo nella corsa e nella lotta fino a tanto che gli riuscisse di avvinghiare e combattere con l'avversario rimanendo in piedi. Nelle armi invero profondeva il massimo impegno.
A questa robustezza fisica andavano congiunte anche molte doti spirituali. Era infatti moderato, prudente, autorevole, tempestivo nel cogliere le occasioni, era esperto di guerra, forte di braccio, magnanimo e tanto rispettoso della verità da non mentire neppure per scherzo. 2 Inoltre padrone di sé, straordinariamente clemente e paziente, capace di sopportare i torti non solo della gente, ma anche degli amici; bravissimo nel mantenere i segreti affidatigli, il che talvolta non è meno utile che parlare con facondia: desideroso di ascoltare; riteneva infatti che questo fosse il modo più semplice per imparare. 3 Così quando capitava in una riunione nella quale o si disputava di politica o si parlava di filosofia, non se ne partiva mai prima che il discorso fosse portato a termine. 4 Sopportò tanto agevolmente la povertà che dalla sua attività politica non prese nulla se non la gloria. Non fece ricorso ai beni degli amici per la sua difesa personale; si valse spesso del proprio credito per venire in aiuto degli altri in modo tale che si può ritenere che egli tutto avesse in comune con gli amici. 5 Infatti quando o qualcuno dei suoi concittadini fosse stato preso dal nemico o la figlia di un amico fosse da marito ma non potesse accasarsi per la povertà, radunava i suoi amici e stabiliva, secondo le loro facoltà, quanto ciascuno dovesse dare. 6 E quando aveva messo insieme la somma stabilita, piuttosto che ricevere lui il denaro, faceva incontrare il postulante con i donatori e voleva che fossero loro stessi a versargliela in modo che quello a cui la somma era destinata, sapesse quanto dovesse a ciascuno.
La sua incorruttibilità fu messa alla prova da Diomedonte di Cizio: egli infatti su richiesta del re Artaserse si era assunto il compito di corrompere Epaminonda col denaro. Venne a Tebe con grande quantità di oro e con cinque talenti conquistò alla sua volontà il giovinetto Micito che allora era grandemente amato da Epaminonda. Micito andò a trovare Epaminonda e gli manifestò il motivo della venuta di Diomedonte. 2 Ma egli a Diomedonte quando gli fu davanti: "Non c'è affatto bisogno di denaro", disse; "infatti se il re vuole cose utili per i Tebani, sono pronto a farle senza ricompensa; se invece cose dannose, non gli basta tutto l'oro e l'argento che ha. Non voglio ricevere le ricchezze di tutto il mondo in cambio dell'amore di patria. 3 Che tu, non conoscendomi, mi abbia tentato e mi abbia ritenuto simile a te, non mi meraviglio e te ne scuso; ma esci immediatamente, perché non corrompa altri, non avendo potuto corrompere me. E tu, o Micito, rendi a costui l'argento, altrimenti, se non lo fai immediatamente, io ti consegnerò al magistrato". 4 E pregandolo Diomedonte di potersene andare con sicurezza e che gli fosse permesso di portare via quello che aveva recato con sé: "Codesto certo che lo farò", disse, "e non per te ma per me, perché, nel caso ti venga rubato il denaro, non si dica che sia pervenuto a me strappato con violenza quello che non avevo voluto accettare offertomi". Gli chiese dove volesse essere accompagnato e avendo quello detto Atene, gli dette una scorta, perché vi giungesse senza rischi. E non si accontentò di questo, ma prese provvedimenti perché salisse incolume sulla nave, grazie ai buoni uffici dell'Ateniese Cabria, di cui abbiamo sopra parlato. 6 Basterà questo come esempio di incorruttibilità. Potremmo citare tantissime testimonianze, ma bisogna adottare una misura, perché abbiamo stabilito di racchiudere in questo unico libro le vite di molti uomini eccellenti, che molti scrittori prima di noi illustrarono singolarmente in molte migliaia di righe.
Inoltre fu facondo tanto che nessun Tebano gli fu pari per eloquenza, felice nelle brevi risposte quanto elegante nel discorso continuo. 2.Ebbe come calunniatore un certo Meneclide, anche lui di Tebe, suo avversario nell'amministrazione dello Stato, abbastanza abile oratore, come Tebano, evidentemente: infatti in quel popolo è posta piu' forza fisica che ingegno. 3.Costui, poichè vedeva che Epaminonda eccelleva nell'arte militare, soleva esortare i Tebani ad anteporre la pace alla guerra, affinchè non fosse richiesta la sua opera di comandante. Epaminonda gli disse: "Inganni i tuoi concittadini con quello che dici, dal momento che li allontani dalla guerra: infatti in nome della pace procuri loro la schiavitu'. 4.La pace nasce dalla guerra. Perciò quelli che vogliono godere di una lunga pace devono essere esercitati alla guerra. Quindi, se volete essere i primi della Grecia, dovete usare l'accampamento, non la palestra". 5. Quando quello stesso Meneclide gli rinfacciava che non aveva figli e che non aveva preso moglie e soprattutto la superbia di pensare di aver conseguito la stessa gloria militare di Agamennone, lui gli disse: "Smettila, Meneclide, di rinfacciarmi che non ho moglie: su questa questione non voglio il consiglio di nessuno meno che il tuo ". - Infatti Meneclide era sospettato di adulterio-. 6."Tu ritieni che io mi sforzi di eguagliare Agamennone: sbagli. Infatti quello con tutta la Grecia in dieci anni a stento prese una sola città; io, al contrario, con la nostra città soltanto e in un solo giorno ho liberato, cacciati gli Spartani, tutta la Grecia.".
Lo stesso si era recato ad un'assemblea degli Arcadi per chieder loro che facessero alleanza con i Tebani e gli Argivi. Callistrato invece, il delegato degli Ateniesi, che in quel tempo era superiore a tutti nella eloquenza, sosteneva che ricercassero piuttosto l'ami cizia degli Attici, e nel suo discorso si scagliò con molte ingiurie contro i Tebani e gli Argivi, 2 e fra le altre cose tirò fuori l'argomento che gli Arcadi dovevano por mente a che razza di cittadini avesse generato l'una e l'altra città, e così potessero giudicare del resto: Argivi infatti erano stati Oreste ed Alcmeone, matricidi, a Tebe era nato Edipo, il quale dopo aver ucciso il padre aveva generato figli dalla madre. 3 Allora Epaminonda, nella sua risposta dopo aver trattato degli altri argomenti, quando fu giunto alle due accuse infamanti, disse che si meravigliava della scempiaggine del retore attico, che non aveva fatto caso che quelli nati innocenti in patria, una volta commesso il delitto, furono cacciati dalla città ed accolti dagli Ateniesi. 4 Ma la sua eloquenza rifulse in modo straordinario quando fu ambasciatore a Sparta, prima della battaglia di Lèuttra". Là erano convenuti gli inviati di tutti gli alleati e dinanzi alla affollatissima assemblea delle legazioni seppe stigmatizzare così bene la tirannide degli Spartani, che scosse la loro potenza non meno con quel discorso che con la battaglia di Leuttra. In quella occasione infatti, riuscì ad ottenere, come si vide poi, che gli Spartani rimanessero senza l'aiuto degli alleati.
Fu paziente e tollerò i torti dei suoi concittadini, perché riteneva un sacrilegio l'adirarsi con la patria: si hanno di ciò queste testimonianze. I suoi concittadini per malevolenza non avevano voluto metterlo a capo dell'esercito e fu scelto come comandante uno inesperto di guerra, per la cui incapacità il grosso dell'esercito era stato portato ad un punto tale da dover temere tutti della propria salvezza, perché il nemico li aveva cacciati in un luogo angusto, e li teneva assediati; allora si cominciò a rimpiangere la perizia di Epaminonda: si trovava egli infatti là tra i soldati come privato cittadino. 2 Gli chiesero aiuto, ed egli dimentico affatto dell'affronto subito, liberò l'esercito dall'assedio e lo ricondusse incolume in patria. E questo fece non solo allora, ma spesso. 3 Ma il caso più illustre fu quando portò l'esercito nel Peloponneso contro gli Spartani, ed aveva due colleghi di cui uno era Pelòpida, uomo forte e valoroso. Poiché questi erano incorsi nella invidia per le accuse degli avversari e per questo era stato tolto loro il comando ed erano subentrati al loro posto altri comandanti, Epaminonda non ubbidì al decreto del popolo, 4 e persuase i colleghi a fare altrettanto e portò a termine la guerra che aveva intrapreso. Capiva infatti che se non avesse agito così, tutto l'esercito sarebbe perito per l'avventatezza e l'imperizia bellica dei comandanti. 5 Vigeva a Tebe una legge che comminava la morte a chi avesse mantenuto il comando militare più a lungo di quanto fosse stabilito per legge. Epaminonda, sapendo che questa era stata emanata per la difesa dello Stato, non volle usarla per la rovina dello Stato e tenne il comando quattro mesi più a lungo di quanto il popolo lo aveva autorizzato.
Dopo che si fu tornati in patria, i suoi colleghi vennero accusati con questo capo di incriminazione. Egli li autorizzò a trasferire su di sé tutta la colpa ed a sostenere che fu per il suo intervento se essi non ubbidirono alle leggi. Assolti quelli grazie a questa difesa, nessuno riteneva che Epaminonda si sarebbe giustificato, perché non avrebbe avuto che cosa dire. 2 Ma quello si presentò al processo, non suoi avversari e confermò tutte quelle cose che avevano detto i suoi colleghi e non rifiutò di affrontare la punizione prevista dalla legge; ma una cosa chiese loro, che nella sua sentenza di condanna scrivessero: 3 "Epamínonda fu condannato a morte dai Tebani, perché li costrinse presso Lèuttra a vincere gli Spartani, che prima del suo comando nessuno dei Beoti aveva osato affrontare in campo 4 e perché con una sola battaglia, non solo salvò Tebe dalla rovina, ma restituì anche la libertà a tutta la Grecia, e condusse a tal punto le cose che i Tebani assalirono Sparta e gli Spartani si ritennero fortunati se poterono salvarsi 5 e non cessò di combattere prima che, ricostruita Messene, ebbe stretto d'assedio la loro città". Avendo dette queste cose, ci fu uno scoppio di risa tra l'ilarità generale né alcun giudice osò votare contro di lui. Così la un processo capitale uscì fuori con grandissima gloria.
Negli ultimi tempi , mentre Epaminonda era comandante presso Mantinea e incalzava con l'esercito schierato i nemici con troppa audacia, riconosciuto dagli Spartani, questi si lanciarono tutti all'assalto di lui soltanto, giacchè ritenevano che la salvezza della patria fosse riposta nella rovina di lui solo, e non si ritirarono prima di vedere, dopo una grande strage e molti uccisi, lo stesso Epaminonda, che combatteva con grandissimo valore, cadere, colpito da lontano da un giavellotto. 2. L'attacco dei Beoti fu alquanto rallentato dalla sua caduta, tuttavia non abbandonarono la battaglia prima di aver sbaragliato la resistenza dei nemici. 3.Epaminonda, avendo capito che aveva ricevuto una ferita mortale e che sarebbe subito morto se avesse estratto il ferro dell'asta che era rimasto nel corpo, lo tenne finchè non gli fu annunciato che i Beoti avevano vinto. 4. Dopo aver udito questo, disse: "Ho vissuto abbastanza; muoio senza essere mai stato vinto". Allora, estratto il ferro dal corpo, subito morì.
Egli non prese mai moglie. E venendo per questo biasimato, perché non lasciava figli, da Pelòpida, il quale aveva un figliolo di cattiva fama e diceva che lui in questo così male provvedeva alla patria: "Guarda", gli rispose, "che non provveda peggio tu, che ti appresti a lasciare un figlio di tal fatta. 2 D'altra parte a me non può mancare la discendenza: io lascio la battaglia di Leuttra, che è nata da me, che fatalmente non solo sopravviverà a me. ma sarà addirittura immortale". 3 Al tempo in cui, sotto la guida di Pelòpida, gli esuli occuparono Tebe e cacciarono dall'acropoli il presidio spartano, Epaminonda finché durò la strage dei cittadini, si tenne in casa, perché non voleva difendere i malvagi né assalirli per non insozzare le mani del sangue dei suoi: riteneva funesta ogni vittoria riportata sopra i propri cittadini. Ma non appena che, presso la Cadmea si cominciò a combattere con gli Spartani, fu tra i primi. 4 Delle sue virtù e della sua vita, si sarà detto abbastanza, quando avrò aggiunto questa cosa soltanto, che nessuno contesterà: Tebe e prima della nascita di Epaminonda e dopo la sua morte fu sempre sotto il giogo straniero; invece per tutto il tempo che resse lui lo Stato, fu la capitale di tutta la Grecia. Da questo si può capire come un uomo solo valse più di una città.
EUMENE.
Eumene, di Cardia. Se la sua fortuna fosse stata pari al suo valore, di sicuro non sarebbe stato piu' grande, ma molto piu' illustre e anche piu' onorato, dal momento che stimiamo grandi gli uomini per il loro valore, non per la loro fortuna. 2. Infatti la sua vita capitò in quel tempo in cui i Macedoni erano potenti e molto gli fu tolto vivendo tra loro perchè era di una città straniera e non gli mancò altro che una nobile stirpe. 3. Nonostante fosse nato in una famiglia nobilissima, tuttavia i Macedoni mal sopportavano che talvolta fosse anteposto a loro; ciò nonostante lo tolleravano. Infatti superava tutti per zelo, attenzione, perseveranza, sagacia e prontezza d'ingegno. 4.Costui quando era giovanissimo fu amico di Filippo, figlio di Aminta, e in poco tempo gli divenne intimo. 5. Infatti in lui già in così tenera età risplendeva l'indole virtuosa. Così lo tenne come segretario, che presso i Greci è piu' onorevole che non presso i Romani. In verità, da noi i segretari sono considerati, come poi sono, impiegati; invece presso i Greci nessuno è ammesso a quell'incarico se non è di famiglia onesta e di nota lealtà e operosità, giacchè è necessario che sia al corrente di tutte le decisioni. 6. Mantenne questo incarico di amicizia presso Filippo per sette anni. Ucciso lui, rimase nello stesso grado presso Alessandro per tredici anni. Poi fu anche a capo di un'ala della cavalleria, quella che si chiama "eterica". Assistette sempre nelle decisioni sia l'uno che l'altro re e fu tenuto al corrente di tutte le questioni.
Dopo la morte di Alessandro a Babilonia, le province del re furono spartite tra i suoi intimi e il supremo potere fu affidato a Perdicca, cui Alessandro morendo aveva dato il suo anello; 2 dal che tutti avevano dedotto che avesse affidato a lui il regno, finché i suoi figli fossero usciti di tutela; Crátero e Antípatro infatti, che sembravano venir prima di quello, erano assenti; Efestione, che Alessandro (come si poteva facilmente capire) aveva stimato più di tutti, era morto; in quella circostanza fu consegnata ad Eumene la Cappadocia, o meglio assegnata: infatti era allora in potere dei nemici. 3 Perdicca aveva messo tutto il suo impegno per trarlo dalla sua parte, perché vedeva la grande lealtà ed energia di quell'uomo e non dubitava che se avesse conquistato la sua amicizia, gli sarebbe stato di grande aiuto nei progetti che stava elaborando. Pensava infatti, quello, che all'incirca tutti desiderano nei grandi imperi, impadronirsi e riunire sotto di sé le parti di tutti. 4 Ed invero non tentò di far così solo lui, bensì anche tutti gli altri che erano stati amici di Alessandro. Per primo Leonnato progettò di occupare la Macedonia. Egli con molte e grandi promesse cercò di persuadere Eumene a lasciare Perdicca ed a fare alleanza con lui. 5 Non potendolo portare dalla sua parte, tentò di ucciderlo e l'avrebbe fatto se quello di nascosto, nottetempo, non fosse fuggito dai suoi presidi.
Frattanto scoppiarono quelle ben note guerre che furono combattute fino all'ultimo sangue dopo la morte di Alessandro e tutti si coalizzarono per uccidere Perdicca. Sebbene lo vedesse debole, perché da solo era costretto a far fronte a tutti, tuttavia non abbandonò l'amico, preoccupato più della parola data che della propria salvezza. 2 Perdicca lo aveva messo a capo di quella parte dell'Asia che si trova tra il monte Tauro e l'Ellesponto e lui solo aveva opposto ai nemici europei; egli per conto suo s'era mosso alla volta dell'Egitto per combattere contro Tolomeo. 3 Eumene aveva truppe scarse e non molto valide, perché non allenate ed arruolate di recente, e si diceva che si avvicinavano e avevano già passato l'Ellesponto con un grande esercito di Macèdoni, Antípatro e Crátero, uomini insigni e per gloria e per esperienza militare 4 (i soldati Macedoni avevano allora la fama che hanno adesso i Romani: quelli che conquistano il supremo potere sono sempre stati ritenuti i più forti). Eumene si rendeva conto che se i propri soldati avessero saputo contro chi erano condotti, non solo non non si sarebbero mossi, ma si sarebbero subito sbandati alla prima notizia. 5 Così gli sembrò il partito più saggio di condurre i soldati per vie traverse, in cui non potessero venire a sapere la verità e di far loro credere che erano in marcia contro certi barbari. 6 E mantenne tale proposito e schierò l'esercito in campo e attaccò battaglia prima che i suoi soldati sapessero con chi dovevano scontrarsi. Occupando in anticipo le posizioni, ottenne anche il vantaggio di combattere piuttosto con la cavalleria, in cui era più forte, che con la fanteria, in cui era inferiore.
Accanitamente e per gran parte della giornata si combattè dalle due parti: cadde il comandante Cratero e cadde Neottolemo, che fungeva da secondo. Contro di lui si scagliò lo stesso Eumene. 2. Avvinghiatisi strettamente, da cavallo caddero in terra: era chiaro che un odio personale li spingeva e che il duello era piu' di spirito che di corpo; non si lasciarono che quando uno dei due rimase morto. Anche Eumene era uscito ferito in piu' parti da quella lotta, ma non per questo si ritirò dal combattimento, anzì incalzò i nemici con maggior foga. 3. Allora, fuggita la cavalleria, morto il comandante Cratero, essendo molti caduti prigionieri, specialmente nobili, il corpo della fanteria, che si era lasciato attirare in una località da cui non avrebbe potuto ritirarsi senza che Eumene lo permettesse, chiese la pace. Ottenutala, non stette ai patti e, non appena lo potè, ritornò presso Antipatro. 4. Cratero era stato portato fuori dalla battaglia ancora in vita: Eumene fece di tutto per rianimarlo; ma non gli fu possibile. Memore dell'antica amicizia (erano stati molto intimi al tempo di Alessandro) e per riguardo alla sua dignità, lo onorò con un solenne funerale e ne mandò poi le ossa alla moglie e ai figli in Macedonia.
Mentre sull'Ellesponto si svolgono tali fatti, Perdicca viene ucciso presso il fiume Nilo da Selèuco ed Antigene ed il potere supremo viene trasferito ad Antípatro. A questo punto si fece una votazione tra Vesercito e quelli che si erano staccati da Antipatro furono condannati a morte in contumacia, tra essi Eumene. Egli sebbene scosso da questo colpo, non si arrese né tantomeno rinunziò a condurre la guerra. Ma la scarsità dei mezzi anche se non spezzava il suo forte animo, tuttavia lo indeboliva. 2 Antigono gli dava la caccia, ma pur disponendo in abbondanza di ogni sorta di milizie spesso era da lui molestato nelle sue marce e non gli era mai possibile di venire alle mani, se non in quei luoghi in cui pochi potessero tener testa a molti. 3 Ma alla fine, non potendo essere preso con l'arte, fu accerchiato dalla moltitudine dei soldati. Pur con molte perdite riuscì tuttavia a liberarsi, e si rifugiò in una fortezza della Frigia, chiamata Nora. 4 In questa era assediato e temeva, rimanendo in un medesimo luogo, di rovinare i cavalli da guerra perché non c'era spazio per esercitarli. Escogitò allora un sistema ingegnoso per cui pur in piedi ed al suo posto il cavallo potesse scaldarsi ed esercitarsi, nonché mangiare più volentieri senza che fosse impedito nei suoi movimenti. 5 Ne legava la testa con una cinghia più in alto di quanto occorresse per poter poggiare pienamente a terra con le zampe anteriori, poi con frustate sul groppone lo costringeva a saltare e tirar calci; questo movimento provocava non meno sudore che se corresse all'aperto. 6 E così avvenne che, e la cosa meravigliò tutti, pur rimasto assediato per parecchi mesi, portò fuori dalla fortezza dei cavalli splendidi, come se li avesse tenuti in aperta campagna. 7 Durante l'assedio, ogni volta che lo volle, ora incendiò le macchine belliche e le fortificazioni di Antigono, ora le distrusse. Si mantenne tuttavia per tutta la durata dell'inverno nello stesso luogo, perché non poteva tenere l'accampamento a cielo aperto. Si avvicinava la primavera: fingendo di arrendersi, mentre ne trattava le condizioni, ingannò gli ufficiali di Antigono e trasse fuori incolumi sé e tutti i suoi.
Olimpia, la madre di Alessandro, gli aveva mandato in Asia lettere e messi per chiedergli consiglio se dovesse andare in Macedonia a riprendere il regno (infatti allora dimorava in Epiro) e ad occupare quei territori. 2 Dapprima lui le consigliò di non muoversi e di aspettare finché il figlio di Alessandro fosse in grado di prendersi il regno; se poi si sentiva trascinare in Macedonia da un qualche forte desiderio, doveva dimenticare tutte le offese e non esercitare contro alcuno un potere troppo duro. 3 Lei non fece nulla di tutto questo; infatti e partì per la Macedonia e là si comportò in modo assai crudele. Chiese poi a Eumene assente di non tollerare che nemici mortali della casa e della famiglia di Filippo ne sopprimessero anche la stirpe e di venire in aiuto dei figli di Alessandro. 4 Se le concedeva questo favore, preparasse quanto prima delle truppe, e le venisse con esse in aiuto. Per facilitargli il compito, aveva mandato delle lettere a tutti i governatori che le rimanevano fedeli, perché obbedissero a lui e seguissero le sue direttive. 5 Eumene vinto da queste preghiere, ritenne miglior partito, se così c avesse voluto la fortuna, di morire mostrando la sua gratitudine per i benefici ricevuti, che vivere da ingrato.
Perciò, arruolato un esercito, preparò la guerra contro Antigono. Ma con lui c'erano parecchi nobili Macedoni, tra i quali Peuceste, che era stato guardia del corpo di Alessandro e ora governava la Persia, e Antigene, da cui dipendeva la falange macedone: temendo di suscitarne la gelosia (ma non potè sfuggirla) se egli, straniero, fosse stato investito del comando supremo a preferenza di altri Macedoni, tanto numerosi, 2. fece erigere nel quartier generale una tenda col nome di Alessandro e vi fece mettere la sedia dorata con lo scettro e la corona: là tutti dovevano riunirsi ogni giorno per deliberare intorno alle questioni piu' importanti; pensava così di essere meno esposto alla gelosia, dando l'impressione che egli dirigeva la guerra nella veste e nel nome di Alessandro. 3. E vi riuscì. Siccome le adunanze si tenevano non nella tenda di Eumene ma in quella del re e là si prendevano le decisioni, in certo qual modo egli passava meno osservato, quantunque la direzione generale fosse tutta nelle sue mani.
Eumene si scontrò con Antígono nel territorio dei Parètaci non in campo aperto, ma durante la marcia e lo costrinse mal ridotto a tornare a svernare in Media. Quanto a lui, per svernare divise le truppe nella regione confinante della Persia, non come avrebbe voluto, ma come imponeva la volontà dei soldati. 2 Infatti la famosa falange di Alessandro Magno, che aveva attraversato l'Asia e aveva sbaragliato i Persiani, abituata alla gloria ma anche alla licenza, pretendeva non di ubbidire ai capi, ma di comandare, come fanno adesso i nostri veterani. Così c'è il pericolo che facciano quello che fecero loro: con la propria indisciplina e sfrenata licenza, di mandare tutto in malora, non meno i propri compagni di ribellione che quelli contro cui sono insorti. 3 Se qualcuno volesse leggere la storia di quei veterani, la troverebbe identica a quella dei nostri e non troverebbe altra differenza che quella del tempo. Ma torniamo a quelli. Si erano collocati nei quartieri invernali non secondo le esigenze della guerra, ma secondo le proprie comodità e si erano disposti lontani gli uni dagli altri. 4 Quando Antigono lo venne a sapere, perché capiva di non poter competere con nemici ben preparati, stabilì che doveva ricorrere a qualche nuovo stratagemma. Erano due le strade, per poter arrivare dalla Media, dove lui svernava, agli accampamenti invernali dei nemici: 5 la più breve era per luoghi deserti, disabitati per la mancanza di acqua, si poteva però percorrere in circa dieci giorni; quella per cui passavano tutti, comportava un giro più lungo del doppio, ma era largamente provvista di tutto. 6 Se passava per questa capiva che i nemici avrebbero saputo del suo arrivo, prima che avesse compiuto un terzo del percorso; se invece prendeva la via del deserto, sperava di poter cogliere il nemico di sorpresa. 7 Per realizzare tale progetto, fece approntare quanti più otri e sacchi di cuoio poté, inoltre foraggio e cibi cotti per dieci giorni, per far fuoco il meno possibile negli accampamenti. Non rivela a nessuno la destinazione della sua marcia. Così provvisto, parte per la via stabilita.
Aveva fatto circa la metà del percorso, quando dal fumo del suo accampamento, fu recato ad Eumene il sospetto che il nemico si stesse avvicinando. Si riuniscono i comandanti; si chiede che cosa sia opportuno fare. Era chiaro a tutti che non era possibile radunare le loro truppe con la stessa rapidità con cui sembrava che sarebbe arrivato Antigono. 2 A questo punto, mentre tutti esitavano e disperavano della salvezza, Eumene dice che se erano disposti a procedere con rapidità ed obbedire agli ordini, cosa che prima non avevano fatto, lui avrebbe risolto la situazione: il nemico sarebbe sì potuto arrivare in cinque giorni, ma lui avrebbe fatto in modo da ritardarlo di altrettanto tempo: si dessero perciò da fare ed ognuno radunasse le proprie truppe. 3 E per ritardare la marcia forzata di Antigono, usò il seguente espediente. Invia uomini fidati alle pendici dei monti, che si trovavano di fronte alla strada dei nemici, con l'ordine di accendere, sul far della notte, grandissimi fuochi per il più ampio spazio possibile, di smorzarli al secondo turno di guardia, di ridurli al minimo al terzo e, 4 simulando l'usanza degli accampamenti, di infondere così nei nemici il sospetto che in quei luoghi ci siano accampamenti, e che la notizia del loro arrivo li abbia preceduti; lo stesso facciano la notte successiva. 5 Quelli eseguono scrupolosamente gli ordini ricevuti. Antigono, sopraggiunta la notte, osserva i fuochi, crede che si sia venuti a conoscenza del suo arrivo e che i nemici abbiano radunato là le loro truppe. 6 Cambia il suo piano e poiché non poteva assalirli di sorpresa, piega la sua marcia e prende quella via tortuosa più lunga ma ricca di provviste e attende là un giorno, per far riposare i soldati stanchi e ristorare i cavalli, onde affrontare la battaglia con truppe più fresche.
Così Eumene vinse in accortezza quel comandante astuto e frenò la sua rapida marcia, ma tuttavia non ne trasse un grande vantaggio. 2 Infatti per l'ostilità dei comandanti che erano con lui e per il tradimento dei veterani macedoni, pur essendo uscito vincitore dalla battaglia, fu consegnato ad Antigono, sebbene l'esercito in precedenza per ben tre volte in circostanze diverse gli avesse giurato che lo avrebbe difeso e non lo avrebbe mai abbandonato. Ma tanto grande fu l'invidia di alcuni per i suoi meriti, che preferirono venir meno al giuramento pur di mandarlo in rovina. 3 Ed Antigono, che pur gli era stato acerrimo nemico, gli avrebbe salvato la vita, se gli fosse stato permesso dai suoi, perché capiva che nessuno poteva essergli di maggior aiuto in quelle vicende che già, come era chiaro a tutti, sovrastavano: incombevano infatti minacciosi Selèuco, Lisímaco, Tolomèo, già potenti, coi quali doveva scontrarsi per la supremazia. 4 Ma non lo permisero quelli che stavano intorno a lui, perché vedevano che, una volta accolto Eumene, di fronte a lui tutti avrebbero contato ben poco. D'altronde lo stesso Antigono era così adirato, che non poteva placarsi, se non con una grande speranza di grandissimi vantaggi
Così Antigono lo imprigionò e al capo delle guardie che gli aveva chiesto come voleva che fosse trattato, rispose: "Come un ferocissimo leone o un elefante dei più selvaggi"; non aveva infatti ancora stabilito se salvargli la vita o no. 2 Venivano da Eumene tutte e due le categorie di persone: quelli che per l'odio volevano godere della vista della sua disgrazia e quelli che per l'antica amicizia desideravano parlargli e consolarlo; molti ancora che desideravano conoscere il suo aspetto, come cioè fosse colui che tanto a lungo e tanto fortemente avevano temuto e sulla cui rovina avevano riposto la speranza della vittoria. 3 Ma Eumene, protraendosi la sua prigionia, disse ad Onomarco che aveva la soprintendenza della sua custodia, di meravigliarsi di essere tenuto da tre giorni in quelle condizioni: non si addiceva alla saggezza di Antigono, di maltrattare così un vinto; ordinasse piuttosto che fosse ucciso o liberato. 4 Ad Onomarco sembrò che costui parlasse con troppa franchezza, per cui gli rispose: "Che dici mai? se avevi questo coraggio, perché non sei caduto in battaglia piuttosto che cadere in mano al nemico?". 5 Eumene a lui: "Magari fosse stato così! Ma così non è stato per il fatto che mai mi sono scontrato con uno più forte: non ho mai affrontato alcuno con le armi, senza che fosse vinto da me. lo non sono caduto per il valore dei nemici, ma per il tradimento degli amici". E questo era vero. ***Infatti e fu di nobile portamento e abbastanza forte per resistere alla fatica e di corporatura non grande, ma attraente
Poiché Antigono non osava decidere da solo sulla sua sorte, ne riferì al consiglio di guerra. Qui dapprima tutti, sconvolti, si meravigliarono che non fosse stato già giustiziato uno che li aveva vessati per tanti anni a tal punto da indurli spesso alla disperazione e che 2 aveva ucciso valentissimi comandanti, uno insomma che da solo era tale che finché era in vita lui, non potevano essere sicuri loro, mentre se ucciso, non avrebbero avuto più motivo di temere; da ultimo, gli chiedevano, se, lo avesse lasciato in vita, su quali amici avrebbe potuto contare: essi infatti non sarebbero rimasti al suo fianco insieme con Eumene. 3 Antigono, conosciuta la volontà del consiglio, tuttavia si prese sette giorni di tempo per decidere. Ma poi quando già temeva che l'esercito si ribellasse, vietò che alcuno gli facesse visita e comandò che gli fosse sospeso il cibo quotidiano: infatti diceva che non avrebbe usato violenza contro chi un tempo gli era stato amico. 4 Tuttavia Eumene soffrì la fame per non più di tre giorni: mentre si muoveva l'accampamento, all'insaputa di Antigono, fu sgozzato dai suoi custodi.
Così a quarantacinque anni terminò in questo modo la sua vita Eumene, dopo che dall'età di venti, come abbiamo detto sopra, per sette anni era stato al servizio di Filippo, per tredici aveva rivestito la stessa funzione sotto Alessandro e durante uno di questi era stato a capo di un'ala della cavalleria e dopo la morte di Alessandro aveva comandato in qualità di generale eserciti, e valentissimi comandanti, parte aveva respinti, parte aveva uccisi; preso non per il valore di Antigono, ma per lo spergiuro dei Macedoni. 2 Di quanta considerazione godesse da parte di tutti coloro che dopo Alessandro Magno furono chiamati re, si può valutare assai facilmente da questo fatto, che nessuno, mentre Eumene era vivo, si fece chiamare re, ma governatore; 3 dopo la sua morte invece, quei medesimi, assunsero subito il nome e gli attributi regali e non vollero mantenere la promessa che avevano sbandierato all'inizio di serbare il regno per i figli di Alessandro e, una volta tolto di mezzo l'unico sostenitore, mostrarono apertamente i propri sentimenti. Responsabili principali di questo delitto furono Antígono, Tolomeo, Selèuco, Lisímaco, Cassandro. 4 Antigono restituì agli intimi il cadavere di Eumene perché lo seppellissero. Questi gli fecero un solenne funerale con gli onori militari e la partecipazione di tutto l'esercito e provvidero che le sue ossa fossero riportate in Cappadocia alla madre, alla moglie ed ai figli.
AMILCARE.
Amilcare, figlio di Annibale, soprannominato Barca, Cartaginese, ancora giovanissimo ebbe il comando dell'esercito in Sicilia quando la prima guerra punica volgeva al termine. 2. Mentre prima della sua venuta tutto andava a rovescio per i Cartaginesi, sia in terra che in mare, egli, non appena comparve, non arretrò mai davanti al nemico, non gli lasciò occasioni di nuocere, spesso, anzi, presentandosene l'occasione, lo provocò e lo battè sempre. Così, quando già i Cartaginesi avevano perduto quasi tutta la Sicilia, egli sostenne la difesa di Erice in modo tale che non si sarebbe mai detto che quella località fosse stata teatro di guerra. 3. Quando poi i Cartaginesi, sconfitti in una battaglia navale dal console romano Caio Lutazio presso le isole Egadi, pensarono di porre fine alla guerra: lasciarono arbitro della decisione Amilcare. Ed egli, pur desiderosissimo di continuare a combattere, credette bene di adoperarsi per la pace, convinto che la sua patria, esausta per le spese, non poteva sopportare oltre le conseguenze disastrose della guerra; 4.non rinunciò, tuttavia, nello stesso tempo all'idea, non appena fossero migliorate le condizioni, di riprendere la guerra e di incalzare i Romani finchè o questi lo avessero superato in valore o, vinti, si fossero arresi. 5. Animato da un tale proposito, concluse la pace; e nelle trattative si mostrò così risoluto con Catulo (che si rifiutava di porre fine alla guerra se egli con la guarnigione di Erica non deponeva le armi e lasciava la Sicilia) che rispose di essere prontissimo a morire, quando anche la patria fosse andata in rovina, piuttosto che tornare a casa con tanta infamia: non rientrava nei suoi principi consegnare all'avversario le armi che la patria gli aveva affidato contro i nemici. E Catulo si piegò alla sua inflessibilità.
Ma quando giunse a Cartagine, Amilcare trovò lo Stato in condizioni molto diverse da quanto aveva sperato. Infatti a causa della durata della guerra esterna, scoppiò una guerra civile tanto grande che Cartagine mai si trovò ad essere in pericolo simile, se non quando fu distrutta. 2 Prima di tutto, si ribellarono i soldati mercenari, di cui si erano serviti contro i Romani ed il loro numero ammontava a ventimila. Questi chiamarono alla ribellione tutta l'Africa e dettero l'assalto alla stessa Cartagine. 3 I Cartaginesi furono talmente atterriti da questi rovesci, che chiesero addirittura rinforzi ai Romani e li ottennero. Ma da ultimo, quando erano quasi ormai giunti alla disperazione, fecero Amilcare comandante supremo. 4 Questi non solo respinse i nemici dalle mura di Cartagine, sebbene i soldati fossero saliti a più di centomila, ma addirittura li ridusse al punto che, chiusi in luoghi molto angusti, morirono più per fame che per spada. Riconquistò alla patria tutte le città ribelli, tra queste Utica ed Ippona, le più potenti di tutta l'Africa. 5 E non si fermò qui, ma ampliò addirittura i confini dell'impero; in tutta l'Africa ristabilì tanta pace che sembrava che in essa non ci fosse stata alcuna guerra da tanti anni.
Portate a termine queste azioni secondo il suo piano, con animo fiducioso e ostile ai Romani, per trovare più facilmente una causa di guerra, si fece mandare come comandante in Spagna con l'esercito e là condusse seco il figlioletto Annibale di nove anni. 2 Era inoltre con lui un giovane nobile, bello, Asdrubale, che alcuni dicevano essere amato da Amilcare più turpemente di quanto fosse lecito. Ad un uomo tanto potente non potevano mancare i maldicenti. Ne venne di conseguenza che ad Asdrubale fu vietato dal censore di stare insieme con lui. Quello gli dette in sposa la propria figlia, dato che per le loro consuetudini non si poteva vietare al genero di stare col suocero. 3 Di lui abbiamo fatto menzione per il fatto che, ucciso Amilcare fu poi lui a capo dell'esercito e Compì grandi imprese, e per primo con le donazioni stravolse gli antichi costumi dei Cartaginesi e dopo la sua morte ricevette il comando dalle mani dell'esercito, Annibale.
Amilcare, dunque, dopo aver passato il mare ed essere giunto in Spagna, intraprese vaste azioni con ottimo successo: sottomise grandi e bellicosissime popolazioni e arricchì tutta l'Africa di cavalli, armi, uomini e denaro. 2. E otto anni dopo la sua venuta in Spagna già progettava di portare la guerra in Italia, quando cadde combattendo contro i Vettoni. 3. Il suo inestinguibile odio contro i Romani probabilmente diede origine alla seconda guerra punica, perchè proprio dagli incessanti incitamenti del padre il figlio Annibale fu portato al punto da preferire la morte a rinunciare a cimentarsi contro i Romani.
ANNIBALE.
ANNIBALE, figlio di Amilcare, Cartaginese. Se è vero, cosa di cui nessuno dubita, che il popolo romano ha superato in valore tutte le nazioni, non si deve negare che Annibale di tanto superò gli altri generali in avvedutezza, quanto il popolo romano precede in forza tutte le genti. 2.Infatti, ogni volta che Annibale si scontrò con il popolo romano in Italia ne uscì sempre vincitore. E se in patria non fosse stato indebolito dall'invidia dei suoi concittadini, è evidente che avrebbe potuto vincere i Romani. Ma la denigrazione di molti debellò il valore di uno solo. 3.Questi poi mantenne l'odio paterno verso i Romani lasciatogli come in eredità a tal punto che abbandonò prima la vita che quest'odio; lui che, benchè cacciato dalla patria e bisognoso dell'aiuto altrui, non cessò mai di combattere con l'animo contro i Romani.
Infatti, per non parlare di Filippo, che egli, seppur lontano, seppe far diventare nemico dei Romani, a quei tempi il re più potente di tutti era Antioco: lo accese di tanto ardore di combattere, che costui fin dal Mar Rosso tentò di portare le armi contro l'Italia. 2 Ora erano andati da lui ambasciatori romani per spiare le sue intenzioni e per cercare con segreti intrighi di far cadere sul re il sospetto che Annibale, come se da loro stessi corrotto, avesse ormai altri sentimenti che un tempo ed erano riusciti nel loro intento. Annibale, quando venne a conoscenza di ciò e si accorse che veniva tenuto lontano dalle più segrete decisioni, offertasi l'occasione, 3 si presentò al re e dopo avergli ricordato molte prove e della sua lealtà e dell'odio contro i Romani, aggiunse questo: "Mio padre Amilcare, quando io ero fanciullo, non avevo più di nove anni, partendo da Cartagine come comandante per la Spagna, sacrificò vittime a Giove Ottimo Massinto; 4 e mentre si svolgeva il sacro rito, chiese a me se volevo partire con lui per la guerra. lo accettai volentieri la sua proposta e cominciai a chiedergli che non esitasse a portarmi con sé; allora lui: "sì", disse, "se mi farai la promessa che ti chiedo". Così dicendo mi condusse all'ara sulla quale aveva cominciato il sacrificio e, allontanati tutti gli altri, mi fece giurare con la mano su di essa, che mai sarei stato amico del popolo romano. 5 lo, questo giuramento fatto al padre, l'ho mantenuto fino ad oggi in modo tale che non può esservi dubbio per nessuno, che io non rimanga dello stesso avviso per tutto il resto della vita. 6 Perciò se avrai sentimenti di amicizia nei confronti dei Romani, sarai stato prudente a tenermene all'oscuro; ma se preparerai la guerra, ingannerai te stesso, se non darai a me il supremo comando".
A questa età che abbiamo detto parti dunque col padre per la Spagna; dopo la morte di questo, mentre Asdrubale prese il suo posto di comandante supremo, egli fu a capo di tutta la cavalleria. Ucciso anche costui, l'esercito affidò a lui il comando supremo. Questa nomina riferita a Cartagine ebbe la ratifica ufficiale. 2 Così Annibale diventato generale non ancora venticinquenne, nei tre anni che seguirono sottomise con le armi tutte le genti della Spagna; espugnò con la forza Sagunto città alleata; allestì tre poderosi eserciti. 3 Di questi uno ne mandò in Africa; un altro lo lasciò in Spagna col fratello Asdrubale; il terzo lo condusse con sé in Italia. Attraversò il valico dei Pirenei. Dovunque passò, venne a conflitto con tutti gli abitanti; nessuno lasciò alle spalle se non sconfitto. 4 Dopo che giunse alle Alpi, che dividono l'Italia dalla Gallia, che nessuno mai prima di lui, eccetto il Graio Ercole, aveva attraversato con un esercito (e in seguito a quell'impresa quel valico è oggi chiamato Graio), sterminò gli alpigiani che cercavano di impedirgli il passaggio, aprì i luoghi, fortificò i percorsi, fece sì che potesse passare un elefante equipaggiato, per dove prima a mala pena poteva arrampicarsi un uomo senza armi. Per questa via fece passare le truppe e giunse in Italia.
Si era scontrato presso il Rodano col console P. Cornelio Scipione e lo aveva respinto. Con questo stesso combatte a Casteggio presso il Po e da lì lo respinge ferito e fuggitivo. 2 Per la terza volta lo stesso Scipione gli andò incontro col collega Tiberio Longo presso la Trebbia. Venne a battaglia con loro; li sbaragliò entrambi. Da lì attraverso la Liguria superò l'Appennino, diretto in Etruria. 3 Durante questa marcia viene colpito da una malattia degli occhi tanto grave che poi dall'occhio destro non vide più bene. Mentre ancora era affetto da questo malanno e veniva trasportato in lettiga, trasse in un agguato presso il Trasimeno il console C. Flaminio con l'esercito e lo uccise e poco dopo il pretore C. Centenio che con truppe scelte presidiava i passi. Da qui arrivò in Puglia. 4 Là gli andarono incontro due consoli, C. Terenzio e L. Emilio. In una sola battaglia sbaragliò gli eserciti dell'uno e dell'altro, uccise il console Paolo ed inoltre alquanti ex consoli, tra i quali Cn. Servilio Gèmino, che era stato console l'anno precedente.
Combattuta questa battaglia, mosse alla volta di Roma, senza incontrare resistenza. Si trattenne sui monti in prossimità della città. Dopo aver tenuto là l'accampamento per alcuni giorni, mentre ritornava verso Capua, gli si fece incontro nell'agro Falerno il dittatore romano Q. Fabio Massimo. 2 Qui, chiuso nell'angustia dei luoghi, nottetempo riuscì a liberarsi senza alcuna perdita del suo esercito, e dette la baia a Fabio, pur abilissimo comandante. Infatti, calata la notte, legò dei rami secchi sulle corna dei vitelli, dette loro fuoco e sparpagliò una grande moltitudine di questi animali. La vista improvvisa di questi fuochi incusse nell'esercito dei Romani tanto spavento, che nessuno osò uscir fuori dal vallo. 3 Non molti giorni dopo questa azione, trasse a battaglia con un inganno M. Minucio Rufo capitano della cavalleria, di potere pari a quello del dittatore, e lo mise in fuga. Pur assente attirò in un agguato in Lucania e uccise Tiberio Sempronio Gracco, console per la seconda volta; allo stesso modo uccise presso Venosa M. Claudio Marcello, console per la quarta volta. 4 Sarebbe lungo enumerare tutti i combattimenti; perciò basterà dire questo soltanto, da cui si potrà capire quanto grande egli sia stato: per tutto il tempo che fu in Italia, nessuno gli resisté sul campo di battaglia; dopo Canne nessuno pose l'accampamento in campo aperto di fronte al suo.
Da qui senza essere mai stato vinto richiamato per difendere la patria combattè contro Publio Scipione, figlio di quel Scipione che egli stesso aveva messo in fuga la prima volta sul Rodano, la seconda volta sul Po, la terza volta sulla Trebbia. 2.Esaurite ormai le risorse della patria, Annibale sul momento desiderò porre fine alla guerra con lui, per combattere in seguito con maggiore successo. Si incontrò con lui per un colloquio, ma non si misero d'accordo. 3.Pochi giorni dopo questo fatto si scontrò con lui presso Zama; sconfitto - incredibile a dirsi - giunse in due giorni e due notti ad Adrumeto, che dista da Zama circa trecento miglia. 4.In questa fuga i Numidi, che insieme a lui si erano ritirati dal campo di battaglia, gli tesero un'imboscata e non solo riuscì a sfuggire loro, ma addirittura li sterminò. Ad Adrumeto radunò i fuggiaschi; mise insieme molti soldati in pochi giorni con nuove leve.
Mentre egli attendeva febbrilmente ai preparativi, i Cartaginesi fecero pace con i Romani. Nondimeno egli rimase anche dopo a capo dell'esercito e guerreggiò in Africa [così il fratello Magone] fino al consolato di P. Sulpicio e C. Aurelio. 2 Ora durante la loro magistratura, vennero a Roma ambasciatori cartaginesi per ringraziare il senato ed il popolo romano per aver fatto la pace con loro e per donare quindi loro una corona d'oro e per chiedere nello stesso tempo che i loro ostaggi stessero a Fregelle e fossero restituiti i prigionieri. 3 A questi dopo delibera del senato fu risposto: il loro dono era gradito ed accetto; gli ostaggi sarebbero stati nel luogo che chiedevano; i prigionieri non li avrebbero restituiti, perché tenevano ancora nell'esercito con i pieni poteri Annibale, il promotore della guerra, nemico mortale del popolo romano e insieme con lui il fratello Magone. 4 Conosciuta questa risposta, i Cartaginesi richiamarono in patria Annibale e Magone. Come vi fu tornato, fu fatto re, ventidue anni dopo che era stato fatto generale dell'esercito; infatti come a Roma i consoli, così a Cartagine ogni anno venivano eletti due re con durata annuale. 5 In questa magistratura Annibale mostrò lo stesso zelo che aveva mostrato nella guerra. Infatti con nuove imposte riuscì ad ottenere non solo che ci fosse il denaro da pagare ai Romani secondo i patti, ma anche che ne avanzasse da versare nell'erario. 6 Poi un anno dopo, sotto il consolato di M. Claudio e di Lucio Furio, vennero da Roma ambasciatori a Cartagine. Annibale, pensando che questi erano stati mandati per reclamare la sua persona, prima che essi fossero ascoltati in senato, si imbarcò di nascosto e fuggì in Siria presso Antioco. 7 Risaputo il fatto, i Cartaginesi spedirono due navi per acciuffarlo, se potessero raggiungerlo; confiscarono i suoi beni, abbatterono la casa dalle fondamenta, lo misero al bando.
Ma Annibale tre anni dopo che era fuggito dalla patria, essendo consoli L. Cornelio e Q. Minucio, approdò con cinque navi in Africa nel territorio dei Cirenei, per tentare di indurre alla guerra i Cartaginesi facendo saldo affidamento su Antioco, che aveva già convinto a muovere con un esercito alla volta dell'Italia. Là fece venire il fratello Magone. 2 Quando i Cartaginesi vennero a sapere ciò, inflissero a Magone assente, la stessa pena del fratello. Fallita l'operazione levarono le ancore e ripresero la navigazione: Annibale raggiunse Antioco. Sulla morte di Magone, è stata tramandata una duplice versione: alcuni lasciarono scritto che mori in un naufragio, altri che fu ucciso dai suoi stessi schiavi. 3 Ma Antioco, se nel condurre la guerra avesse voluto seguire i suoi consigli, così come s'era proposto nell'intraprenderla, avrebbe dovuto combattere per la supremazia più vicino al Tevere che alle Termopili. Egli vedeva che il re seguiva una strategia stolta, tuttavia rimase sempre al suo fianco. 4 Fu a capo di poche navi, che gli era stato ordinato di condurre dalla Siria in Asia e con esse venne a battaglia contro la flotta dei Rodiesi nel mare di Panfilia. In essa i suoi furono superati dalla moltitudine degli avversari, ma nell'ala dove lui combatté, riuscì vincitore.
Messo in fuga Antioco, temendo di venir consegnato, cosa che sarebbe senz'altro avvenuta, se si fosse lasciato prendere, si recò a Creta presso Gortina, per riflettere là, dove si potesse rifugiare. 2 Ma quest'uomo astutissimo si accorse che, per l'avidità dei Cretesi, avrebbe corso un grave pericolo, se non avesse in qualche modo provveduto: portava infatti con sé una grande quantità di denaro, di cui sapeva che si era sparsa la fama. 3 Escogita perciò questo stratagemma. Riempie di piombo molte anfore e copre le sommità con oro ed argento: alla presenza dei più autorevoli cittadini le depone nel tempio di Diana, fingendo di affidare le proprie fortune alla loro lealtà. Dopo averli tratti in inganno, riempie di tutto il suo denaro delle statue di bronzo che portava sempre con sé e le lascia abbandonate nel cortile della casa. 4 I Gortini fanno la guardia al tempio con molto zelo, non tanto contro gli estranei, quanto contro Annibale, perché egli non pigliasse le anfore a loro insaputa e le portasse con sé.
Salvate così le sue sostanze e beffati i Cretesi, il Cartaginese giunse da Prusia nel Ponto. Presso costui ebbe nei confronti dell'Italia gli stessi sentimenti e non fece altro che armare il re ed addestrarlo contro i Romani. 2 E poiché vedeva che quello con le sole sue forze era abbastanza debole, gli procurava l'amicizia degli altri re, e l'alleanza di popoli bellicosi. Era in contrasto con lui il re di Pergamo Eumene, fedele amico dei Romani e tra loro si guerreggiava per terra e per mare; 3 ma nell'un campo e nell'altro era più forte Eumene, grazie all'alleanza con i Romani; a maggior ragione desiderava Annibale toglierlo di mezzo: senza di quello riteneva che tutto il resto sarebbe stato per lui più facile. Per ucciderlo, escogitò tale stratagemma. 4 Di lì a pochi giorni si doveva venire a battaglia navale. Era inferiore per numero di navi; bisognava quindi combattere con l'astuzia, non essendo pari nelle armi. Dette ordine di raccogliere vivi il maggior numero possibile di serpenti velenosi e li fece chiudere in vasi di coccio. 5 Dopo che ne ebbe procurata una grande moltitudine, il giorno stesso in cui doveva avvenire la battaglia navale, convoca i marinai e ordina loro di dirigersi tutti contro la sola nave di Eumene, dalle altre dovevano limitarsi solo a difendersi. Avrebbero facilmente raggiunto l'obiettivo grazie alla moltitudine dei serpenti. 6 Egli avrebbe provveduto a far sapere in quale nave si trovasse il re: e, se lo avessero catturato o ucciso, promette che ci sarebbe stato per loro un grosso premio.
Fatta una simile esortazione ai soldati, da ambedue le parti si fa avanzare la flotta a battaglia. Già disposti in ordine di combattimento, prima che venisse dato il segnale della battaglia, Annibale per far conoscere ai suoi dove fosse Eumene, manda su una scialuppa un corriere con il caduceo. 2 Quando questi giunse alle navi dei nemici e, mostrando una lettera, dichiarò che cercava il re, subito fu accompagnato da Eumene, perché nessuno dubitava che ci fosse scritta qualche proposta di pace. Il corriere, una volta indicata la nave del capitano, ritornò allo stesso luogo da cui era partito. 3 Ma Eumene, aperta la lettera, non trovò null'altro che parole di scherno. E quantunque si chiedesse meravigliato il motivo di ciò e non lo trovasse, tuttavia non esitò ad attaccare subito battaglia. 4 Nella zuffa i Bitini, secondo le istruzioni di Annibale, assaltano tutti quanti la nave di Eumene. Non potendo il re sostenere un tale urto, cercò scampo nella fuga e non lo avrebbe trovato se non si fosse rifugiato alla sua base che si trovava sul lido poco lontano. 5 Mentre le altre navi dei Pergameni incalzavano con maggior impeto le nemiche, d'un tratto si cominciò a scagliare loro contro quei vasi di terracotta dei quali abbiamo fatto sopra menzione. All'inizio il lancio suscitò il riso dei combattenti e non si riusciva a capire il perché di questa operazione. 6 Ma dopo che videro le proprie navi piene di serpenti, spaventati dalla novità del fatto, non sapendo che cosa dovessero evitare di più, voltarono le navi e si rifugiarono verso le proprie stazioni marittime. 7 Così Annibale con uno stratagemma ebbe la meglio sulle navi dei Pergameni e non solo allora, ma spesso in altre occasioni con truppe di terra respinse con ugual accortezza gli avversari.
Mentre in Asia si svolgevano questi avvenimenti, il caso volle che gli ambasciatori di Prusia a Roma pranzassero presso l'ex console T. Quinzio Flaminino e che lì, caduto il discorso su Annibale, uno di loro dicesse che si trovava nel regno di Prusia. 2 Il giorno dopo Flaminino riferì la cosa al senato. I senatori i quali credevano che finché fosse stato vivo Annibale, non sarebbero mai stati senza insidie, mandarono ambasciatori in Bitinia, fra questi Flaminino, per chieder al re che non tenesse presso di sé il loro mortale nemico e che lo consegnasse loro. 3 A questi Prusia non seppe dire di no; ma un rifiuto lo oppose: non chiedessero che fosse fatta da lui un'azione che era contro il diritto d'ospitalità: loro stessi lo pigliassero se potessero: facilmente avrebbero trovato il luogo dove egli era. Annibale infatti in un sol luogo aveva dimora, in un castello che gli era stato dato in dono dal re e che aveva edificato in modo tale che in tutte le parti avesse delle uscite, temendo naturalmente che accadesse quello che in realtà avvenne. 4 Qua giunsero gli inviati dei Romani e circondarono con gran moltitudine d'uomini la sua casa; un servo che osservava da una porta disse ad Annibale che si vedeva più gente del solito ed armata. Egli allora gli ordinò di fare il giro di tutte le porte dell'edificio e di riferirgli prontamente se fosse assediato alla stessa maniera da tutte le parti. 5 Avendogli il servo prontamente riferito che cosa avveniva e mostrato che tutte le uscite erano bloccate, capì che questo non era avvenuto per caso ma che si cercava proprio lui e che per lui era giunta ormai l'ora di morire. E per non lasciare la sua vita all'arbitrio di altri, memore delle antiche virtù, prese il veleno che era solito portare sempre con sé.
Così quell'uomo arditissimo, dopo aver portato a compimento molte e varie imprese faticose, morì a settant'anni. Non sono d'accordo gli storici per stabilire durante quale consolato sia morto. E infatti Attico lasciò scritto nel suo Annale che morì sotto il consolato di Marco Claudio Marcello e Quinto Fabio Labeone, mentre Polibio lasciò scritto che morì sotto il consolato di Lucio Emilio paolo e di Gneo Bebio Tanfilo; Sulpicio Blitone sotto il consolato di Publio Cornelio Cetego e Marco Bebio Tanfilo. 2.Inoltre questo uomo così grande e impegnato in guerre così importanti dedicò del tempo agli studi letterari. Infatti ci sono alcuni suoi libri scritti in lingua greca, tra questi un libro dedicato ai Rodiesi sulle imprese di Gneo Manlio Vulsone in Asia. 3.Molti consegnarono alla memoria le sue imprese di guerra: tra questi, due che furono con lui nelle campagne militari e insieme a lui vissero, finchè la sorte lo permise, Sileno e Sosilo Spartano. Annibale ebbe come insegnate di letteratura greca proprio questo Sosilo. 4. Ma è tempo che io ponga termine a questo libro ed esponga la vita dei generali romani affinchè, confrontando le imprese di entrambi, si possa giudicare piu' facilmente quali uomini si debbano preferire.
IFICRATE.
IFICRATE, Ateniese, si rese famoso non tanto per la grandezza delle imprese quanto per la perizia militare. Fu infatti un così valente condottiero da essere paragonato non solo ai migliori comandanti del suo tempo, ma neppure uno dei suoi predecessori poteva essere anteposto a lui. 2.Invero a lungo fu occupato in guerre; spesso fu a capo di eserciti; in nessun luogo condusse male un'impresa per un errore tattico; vinse sempre con accortezza e grazie ad essa fu tanto abile che non solo introdusse nell'arte militare molte innovazioni, ma anche rese migliori le consuetudini già esistenti. Infatti cambiò le armi della fanteria. 3. Mentre i fanti, prima che fosse lui comandante, usavano scudi grandissimi, aste piccole, spade corte, 4 lui, al contrario, fece usare la pelta al posto della parma - per la qual cosa in seguito i fanti vennero chiamati "peltasti" - perchè fossero piu' leggeri nei movimenti e negli assalti; raddoppiò la misura dell'asta, rese piu' lunghe le spade. Parimenti cambiò il tipo di corazze e al posto di corazze con lamine intrecciate di bronzo le diede di lino. In tal modo rese i soldati piu' agili; infatti, tolto il peso, procurò qualcosa che potesse proteggere il corpo e nello stesso tempo fosse leggero.
Guerreggio con i Traci; rimise sul trono Seute, alleato degli Ateniesi. Presso Corinto resse l'esercito con tanto rigore che mai in Grecia si ebbero truppe né meglio esercitate né più docili agli ordini; 2 e le portò a tal punto di addestramento che, una volta dato dal comandante il segnale della battaglia, potevano senza l'intervento del capitano mantenere le file tanto bene da sembrare che ognuno fosse stato messo al suo posto da un comandante espertissimo. 3 Con un esercito siffatto annientò una mora degli Spartani e l'impresa ebbe enorme risonanza in tutta la Grecia. Una seconda volta, durante la stessa guerra, mise in fuga tutte le loro milizie: con che si conquistò una grande gloria. 4 Quando Artaserse volle recare guerra al re dell'Egitto chiese agli Ateniesi come condottiero Ificrate, da mettere a capo dell'esercito dei mercenari, che era di dodicimila soldati; ed egli lo istruì in tutti gli aspetti dell'arte militare tanto che, a quel modo che un tempo i soldati romani furono chiamati Fabiani, cosi presso i Greci godettero di grandissima fama gli Ificratesi. 5 Lo stesso, mossosi in aiuto degli Spartani, impedì gli attacchi di Epaminonda. Infatti se non fosse stato imminente il suo arrivo, i Tebani non si sarebbero ritirati da Sparta prima di averla presa e data alle fiamme.
Fu inoltre di animo grande, di statura e di prestanza maestose, tanto che col solo suo aspetto destava ammirazione in ognuno; 2 ma era troppo restio alla fatica e poco tollerante, come ha tramandato Teopompo; tuttavia, buon cittadino e di grande lealtà. Lo dimostrò sia in altre circostanze sia, soprattutto, nel proteggere i figli del macedone Aminta. Infatti, morto Aminta, Euridice, madre di Perdicca e di Filippo, si rifugiò con questi due figli presso Ificrate e fu assistita dai mezzi di lui. 3. Visse fino alla vecchiaia nella benevolenza dei suoi concittadini. Si difese in un processo capitale una sola volta, durante la guerra sociale, insieme a Timoteo e fu assolto.4 .Lasciò un figlio, Menesteo, nato da una donna della Tracia, figlia del re Coti. Il figlio, interrogato se stimasse di piu' il padre o la madre, disse: "La madre". Poichè parve a tutti strano, soggiunse: "A ragione lo dico. Infatti il padre, per quanto dipese da lui, mi generò Trace; la madre, invece, Ateniese".
I RE.
Questi furono quasi tutti i capi militari di nazionalità greca che possono apparire degni di essere ricordati, se ne eccettuiamo i re, dei quali non ho voluto fare specifica menzione perchè le loro gesta sono già state narrate a parte. E non sono poi molto numerosi. 2. Agesilao, Spartano, fu re di nome e non di fatto, come tutti gli altri a Sparta. Di quelli che esercitarono il potere realmente, a mio parere, i piu' illustri tra i Persiani furono Ciro e Dario, figlio di Istaspe, i quali da privati cittadini conseguirono la dignità regale per proprio merito. Il primo cadde combattendo contro i Massageti, Dario visse fino a tarda età. 3. Della stessa nazione altri tre sono da ricordare: Serse e i due Artaserse, soprannominati l'uno il Longìmano, l'altro Mnèmone. Di Serse è particolarmente famosa la spedizione contro la Grecia, condotta per terra e per mare con i piu' grandi eserciti che la storia ricordi. 4.Il Longìmano, invece, è soprattutto lodato per l'imponenza e la bellezza fisica, che adornò con uno straordinario valore militare; nessun Persiano infatti lo superò in ardimento. Mnèmone, invece, è famoso per la sua giustizia: persa la moglie per l'opera delittuosa della madre, concesse al dolore solo quel tanto che non prendesse il sopravvento sulla pietà filiale. 5. I due Artaserse morirono di morte per malattia; Serse di morte violenta, per mano del governatore Artabano.
Del popolo macedone due re superarono di molto gli altri nella gloria delle imprese: Filippo figlio di Aminta e Alessandro Magno. Il secondo di questi fu divorato dalla malattia a Babilonia; Filippo fu ucciso da Pausania ad Egia, nei pressi del teatro, mentre si recava a vedere gli spettacoli. 2 Degli Epiroti uno solo, Pirro, che guerreggiò col popolo Romano. Costui mentre dava l'assalto alla città di Argo nel Peloponneso, fu colpito da una pietra e mori. Parimenti uno solo fra i Siculi, Dionigi il Vecchio. Infatti fu valoroso ed esperto di arte militare e, dote che è difficile trovare in un tiranno, per nulla affatto libidinoso, non amante del lusso, non avido, di nessuna cosa smanioso se non di un potere personale e perpetuo e perciò crudele: infatti mentre cercò di consolidare questo potere, non risparmiò la vita di nessuno che a suo parere glielo insidiasse. 3 Si era procacciato la tirannide col valore e seppe conservarla con grande fortuna: mori infatti oltre i sessant'anni di età lasciando il regno in uno stato florido, ed in tanti anni non vide il funerale di alcuno della sua stirpe, pur avendo generato figli da tre mogli e gli fossero nati molti nipoti.
E grandi re si incontrano tra gli amici di Alessandro che, dopo la sua morte, si impadronirono del potere: Antigono e suo figlio Demetrio, Lisimaco, Seleuco, Tolomeo. 2. Di essi, Antigono fu ucciso in combattimento, mentre guerreggiava contro Seleuco e Lisimaco. Simile morte ebbe Lisimaco da Seleuco: rotta l'alleanza, si fecero guerra tra loro. 3. Demetrio, che pur avendo dato sua figlia in moglie a Seleuco non aveva potuto restare suo amico, morì di malattia, il suocero nel carcere del genero. 4. E poco dopo Seleuco fu ucciso a tradimento da Tolomeo detto il Cerauno, che era stato accolto da lui quando era stato cacciato da Alessandria dal padre ed era bisognoso dell'aiuto altrui. E infine lo stesso Tolomeo che, vivo, aveva ceduto il regno al figlio, pare sia stato fatto uccidere da lui. 5. E poichè mi pare che quanto si è detto possa bastare per costoro credo sia opportuno parlare di Amilcare e di Annibale, che tutti concordano nel ritenere superiori a tutti gli Africani per forza di carattere e astuzia.
LISANDRO.
Lisandro, Spartano, lasciò di sè una grande fama acquistata piu' con la fortuna che con il valore; infatti è noto che sconfisse gli Ateniesi dopo venticinque anni che combattevano contro i Peloponnesiaci. E' noto come abbia conseguito questa vittoria. 2. La conseguì non per il valore del suo esercito, ma per l'indisciplina degli avversari che, poichè non obbedivano ai loro comandanti, sparpagliati per i campi dopo aver abbandonato le navi, caddero in balìa dei nemici. Per questo gli Ateniesi si arresero agli Spartani. 3. Lisandro insuperbito da questa vittoria, essendo stato sempre, anche prima, intrigante e spregiudicato, si abbandonò alla sua natura al punto che per colpa sua gli Spartani vennero in grandissimo odio alla Grecia. 4. Infatti gli Spartani, sebbene fossero andati dicendo che per loro la causa della guerra era abbattere la sfrenata dominazione ateniese, dopo che Lisandro si impadronì della flotta nemica presso Egospotami, nient'altro macchinò che di tenere in suo potere tutte le città fingendo di farlo per il bene degli Spartani. 5. Infatti, dopo aver cacciato da ogni città coloro che erano stati favorevoli agli Ateniesi, aveva scelto in ciascuna città dieci persone alle quali affidare il supremo potere militare e civile. Nel numero di costoro non veniva ammesso nessuno che non fosse legato a lui per vincolo di ospitalità o che non avesse assicurato con un giuramento la propria fedeltà.
Così, stabilita una magistratura decemvirale in tutte le Città tutto si svolgeva secondo il suo cenno. Della sua crudeltà e slealtà, basta citare a titolo di esempio, un solo fatto, per non tediare i lettori con la enumerazione di più fatti relativi alla stessa persona. 2 Tornando vincitore dall'Asia dirottò a Taso e perché quella popolazione era stata di singolare lealtà nei confronti degli Ateniesi, - come se quelli che fossero stati risoluti nemici non potessero essere poi saldissimi amici, - fu preso dal desiderio di rovinarla. 3 Ma capì che, se in questo non avesse nascosto le sue intenzioni al riguardo, i Tasi si sarebbero dileguati e avrebbero provveduto alle loro cose
Così gli Spartani abrogarono quel potere decemvirale che era stato da lui imposto. Per la qual cosa grandemente adirato progettò di togliere di mezzo i re spartani. Ma si rendeva conto di non poter fare questo senza l'aiuto degli dèi, poiché gli Spartani erano soliti rimettere tutto agli oracoli. Dapprima tentò di corrompere quello di Delfi. Non essendo in ciò riuscito, tentò di espugnare Dodona. Respinto anche da qui, disse di aver fatto dei voti che doveva sciogliere a Giove Ammone, ritenendo di poter corrompere con più facilità gli Africani. 3 Partito con questa speranza alla volta dell'Africa, ebbe un bruciante disinganno dai sacerdoti di Giove. Infatti non solo non si lasciarono corrompere, ma addirittura inviarono messi a Sparta, ad accusare Lisandro, di aver tentato di corrompere i sacerdoti del tempio. 4 Accusato di questo crimine ed assolto dal verdetto dei giudici, fu mandato in aiuto degli abitanti di Orcomeno e fu ucciso dai Tebani presso Aliarto. 5 Quanto giusto fosse stato quel verdetto lo mostrò un discorso che dopo la morte fu trovato nella sua casa: in esso cercava di convincere gli Spartani, una volta eliminato il potere regio, a sceglierlo come unico capitano per condurre la guerra, ma scritto in modo tale da sembrare conforme alla volontà degli dèi, che lui non dubitava di poter acquistare grazie al denaro. Si dice che questo discorso glielo avesse scritto Cleone di Alicamasso
E a questo punto non bisogna tralasciare l'episodio di Farnabazo, satrapo del re. Infatti, poichè Lisandro, a capo della flotta, si era comportato in guerra con molta crudeltà e cupidigia, e sospettava che fosse giunta notizia di questo ai suoi concittadini, chiese a Farnabazo che testimoniasse per lui presso gli efori con quanta correttezza avesse condotto la guerra e avesse trattato gli alleati, e che scrivesse accuratamente su questa questione; sosteneva che grande sarebbe stata la sua autorità in tale faccenda. 2.Farnabazo promise che lo avrebbe fatto volentieri: riempì con molte parole un grosso libro in cui lo esaltò con grandissimi elogi. Dopo che Lisandro ebbe letto e approvato questo libro, mentre veniva sigillato, Farnabazo lo sostituì con altro già sigillato, di uguale grandezza e di tale somiglianza che non si poteva distinguere, in cui molto minuziosamente aveva denunciato la sua avidità e la sua perfidia. 3. Lisandro, ritornato da qui in patria, dopo aver riferito davanti al magistrato quello che aveva voluto ottenere dalle sue imprese, consegnò come prova il libro dato da Farnabazo. Gli efori, dopo che Lisandro si fu allontanato e loro lo ebbero letto, lo fecero leggere anche a lui. Così, senza saperlo, egli fu l'accusatore di se stesso.
MILZIADE.
Quando Milziade, figlio di Cimone, Ateniese, si segnalava moltissimo, unico fra tutti per antichità della stirpe, per gloria degli antenati e per la sua moderazione, ed era ormai in quella età in cui non solo ormai i suoi concittadini potevano sperare bene di lui, ma anche confidare che egli sarebbe stato tale e quale poterono giudicare dopo averlo conosciuto, avvenne che gli Ateniesi vollero inviare coloni nel Chersoneso. 2. Poichè era grande il numero di questo gruppo di coloni e poichè molti domandavano di fare parte di quella spedizione, furono mandati a Delfi uomini scelti fra questi per consultare Apollo su quale capo dovessero preferire. Infatti allora occupavano quelle regioni i Traci contro i quali si doveva combattere con le armi. 3. A coloro che la interrogavano la Pizia ordinò che prendessero come comandante Milziade: se l'avessero fatto l'impresa sarebbe stata fortunata. 4. In virtu' di questo responso dell'oracolo, Milziade partì con una flotta con una schiera scelta per il Chersoneso; essendosi avvicinato a Lemno e volendo ridurre in potere degli ateniesi gli abitanti di quell'isola, giacchè aveva chiesto ai Lemni di arrendersi spontaneamente, i Lemni schernendolo risposero che l'avrebbero fatto quando lui, partendo dalla patria con le navi, fosse giunto a Lemno con il vento Aquilone. Questo vento infatti, sorgendo da Settentrione, soffia in direzione contraria a quelli che partono da Atene. 6. Milziade, non avendo tempo di indugiare, indirizzò la rotta verso il luogo cui era diretto e giunse nel Chersoneso.
Là sbaragliò in breve tempo le truppe dei barbari, si impadronì di tutta la regione meta della sua spedizione, munì di fortezze le posizioni, strategiche, distribuì nei campi le genti che aveva portato con sé e le arricchì con frequenti scorrerie. 2 E in questo non fu aiutato meno dalla accortezza che dalla fortuna. Infatti dopo aver sbaragliato, grazie al valore dei suoi soldati, le truppe nemiche, ordinò la colonia con somma equità ed egli stesso decise di rimanere sul posto. 3 Aveva presso di loro l'autorità di un re, sebbene non ne avesse il nome e ottenne questo più con il suo senso della giustizia che in forza del suo potere. Non per questo trascurava gli interessi degli Ateniesi, per conto dei quali era partito. In questo modo riusciva a mantenere ininterrottamente il potere non meno per volontà di quelli che lo avevano inviato che di quelli con i quali era partito. 4 Ordinato così il Chersoneso, torna a Lemno ed in base ai patti reclama la consegna della città: quelli infatti avevano detto che gli si sarebbero arresi, quando partito da casa fosse giunto là con il vento di tramontana: ebbene egli aveva la sua casa nel Chersoneso. 5 I Cari, che allora abitavano Lemno, sebbene la cosa si fosse svolta contro la loro aspettativa, tuttavia vinti non dalla promessa fatta ma dalla buona fortuna dei nemici, non osarono resistere e abbandonarono l'isola. Con pari successo ridusse sotto il dominio degli Ateniesi le altre isole che hanno il nome di Cicladi.
In quello stesso tomo di tempo, il re dei Persiani, Dario, trasferito l'esercito dall'Asia in Europa, decise di portar guerra agli Sciti. Per fare passare le truppe fece costruire un ponte sul Danubio. A custodia di quel ponte, per il tempo della sua assenza, lasciò dei capi che aveva portato con sé dalla Ionia e dall'Eolide ad ognuno dei quali aveva affidato la signoria perpetua di quelle città. 2 In questo modo infatti riteneva di poter conservare facilmente in suo potere le popolazioni di lingua greca che abitavano l'Asia se avesse affidato la difesa delle città ai suoi amici che non avrebbero avuto via di scampo una volta che lui fosse stato soppresso. Nel numero di questi a cui doveva essere affidata tale custodia c'era anche Milziade. 3 Ora siccome frequenti messaggeri riferivano che Dario era in difficoltà con la sua impresa ed era incalzato dagli Sciti, Milziade esortò i custodi del ponte a non lasciarsi sfuggire l'occasione offerta dalla fortuna di liberare la Grecia. 4 Se Dario infatti fosse perito con le truppe che aveva trasportato con sé, non solo l'Europa sarebbe stata al sicuro, ma anche i popoli di stirpe greca che abitavano l'Asia, sarebbero stati liberi dalla dominazione e dalle minacce persiane. Era anche facile ottenere questo: se infatti si fosse tagliato il ponte, il re sarebbe perito in pochi giorni o per gli attacchi nemici o per mancanza di vettovaglie. 5 Molti condivisero il piano, ma Istico di Mileto si oppose alla esecuzione dell'impresa, dicendo che gli interessi di quelli che avevano in mano il potere non coincidevano con quelli del popolo, perché il loro potere si fondava sul regno di Dario: ucciso lui, loro sarebbero stati cacciati dal potere ed avrebbero subito la vendetta dei propri concittadini: egli era perciò tanto contrario al piano degli altri, da ritenere che nulla fosse più conforme ai loro interessi che il rafforzamento del regno dei Persiani. 6 Poiché moltissimi avevano abbracciato il parere di costui, Milziade sicuro che, con tanti che ne erano a conoscenza, i suoi disegni sarebbero arrivati anche alle orecchie del re, lasciò il Chersoneso e se ne tornò ad Atene. Il suo piano anche se non andò ad effetto merita però la massima lode: con esso infatti egli dimostrò di amare più la libertà di tutti che il proprio personale potere.
Dario poi, ritornato dall'Europa in Asia, poichè gli amici consigliavano di ridurre in suo potere la Grecia, allestì una flotta di cinquecento navi e vi pose a capo Dati e Artaferne; a costoro diede duecentomila fanti e diecimila cavalieri, adducendo come pretesto di essere nemico degli Ateniesi perchè con il loro aiuto gli Ioni avevano espugnato Sardi e avevano annientato i suoi presidi. 2. Quei comandanti regi, approdata la flotta in Eubea, presero rapidamente Eretria e catturarono tutti gli abitanti di quella regione e li mandarono dal re in Asia. Poi si avvicinarono all'Attica e sbarcarono le loro truppe sulla pianura di Maratona. Questa dista circa diecimila passi dalla città di Atene. 3.Gli Ateniesi, turbati da questo attacco così vicino e grande, a nessun altro chiesero aiuto se non agli Spartani e inviarono a Sparta Filippide, uno di quei corrieri che si chiamano emerodromi, per riferire quanto fosse urgente l'aiuto di cui avevano bisogno. 4. Intanto in patria si nominano dieci condottieri per comandare l'esercito, tra questi Milziade. Ma tra loro ci fu un'aspra contesa: se difendersi entro le mura o andare contro i nemici e combattere in campo aperto. 5.Solo Milziade insisteva con grande energia perchè si allestisse l'accampamento al piu' presto: diceva che se questo fosse stato fatto sia il coraggio sarebbe cresciuto nei concittadini, vedendo che non si diffidava del loro valore, sia i nemici sarebbero stati piu' cauti se avessero capito che si osava combattere contro di loro con truppe così esigue.
In questo frangente nessuna città venne in aiuto agli Ateniesi tranne Platea che inviò mille soldati. Così con il loro arrivo si raggiunse il numero di diecimila unità: e questi erano presi da un mirabile ardore di combattere. 2 Ne conseguì che il piano di Milziade ebbe la meglio su quello dei suoi colleghi. 3 Spinti dunque dalla sua autorità, gli Ateniesi fecero uscire le loro truppe dalla Città e le accamparono in una posizione strategica. Il giorno dopo, schierato l'esercito alle falde del monte, in un luogo non molto aperto (c'erano difatti degli alberi in più punti), attaccarono battaglia pensando di essere protetti dai monti piuttosto alti e che la fila degli alberi avrebbe impedito alla cavalleria nemica l'accerchiamento in massa. 4 Dati, sebbene capisse che il luogo non era favorevole ai suoi, tuttavia desiderava combattere confidando nel numero delle sue truppe, tanto più che riteneva opportuno scontrarsi prima dell'arrivo dei rinforzi spartani. Così schierò a battaglia centomila fanti e diecimila cavalieri e sferrò l'attacco. 5 E in questa battaglia gli Ateniesi si dimostrarono tanto più valorosi da sconfiggere un numero di nemici dieci volte più grande: e li terrorizzarono a tal punto che i Persiani non si diressero agli accampamenti, ma alle navi. Fino ad oggi non si è vista battaglia più gloriosa: mai una schiera tanto piccola infatti sbaragliò un esercito tanto poderoso.
Per questa vittoria non sembra estraneo all'argomento dire quale premio sia stato assegnato a Milziade, perchè si possa piu' facilmente capire che la natura di tutti i popoli sia la medesima. 2. Infatti come le onoreficenze del popolo romano una volta furono rare e di scarso valore, e per questo prestigiose, ora invece frequenti e senza pregio, così troviamo fosse per gli Ateniesi. 3. Infatti a questo Milziade, che aveva liberato Atene e tutta la Grecia, fu assegnata questa ricompensa: poichè si dipingeva nel porticato che si chiama Pecile la battaglia di Maratona, il suo ritratto fu posto come primo nel numero dei dieci strateghi: lui nell'atto di incitare i soldati e di attaccare battaglia. 4. Quello stesso popolo, dopo aver ottenuto maggior potenza ed essere stato corrotto dalle elargizioni dei magistrati, fece innalzare trecento statue a Demetrio Falereo.
Dopo questa battaglia gli Ateniesi misero a disposizione dello stesso Milziade una flotta di settanta navi perché portasse la guerra a quelle isole che avevano aiutato i barbari. Durante questa missione ne costrinse molte a tornare all'obbedienza, alcune le prese con la forza. 2 Fra queste non riusciva convincere con i negoziati l'isola di Paro orgogliosa della sua potenza; allora fece sbarcare truppe dalle navi, cinse con opere d'assedio la città e la tagliò fuori da ogni approvvigionamento: poi piazzate vigne e testuggini si accostò alle mura. 3 Quando stava per impadronirsi della città, lontano sul continente, un bosco che si vedeva dall'isola, non so per quale accidente, di notte prese fuoco. Quando le fiamme furono viste dagli assediati e dagli assalitori, ad entrambi venne il sospetto che si trattasse di un segnale mandato dai marinai del re. 4 Ne conseguì che i Parii non vollero più saperne di arrendersi e Milziade temendo che si avvicinasse la flotta del re, incendiate le opere d'assedio che aveva predisposto, con le stesse navi con cui era partito tornò ad Atene, con grande disappunto dei suoi concittadini. 5 Fu quindi accusato di tradimento perché. pur potendo espugnare Paro, se ne era andato senza portare a termine l'impresa, in quanto corrotto dal re. In quel tempo era sofferente per le ferite che aveva riportato nell'assalto alla città; così, non essendo egli in grado di difendersi personalmente, parlò per lui il fratello Steságora. 6 Fatto il processo, assolto dalla pena capitale, fu condannato a una multa che fu stabilita di cinquanta talenti, esattamente la somma impiegata per allestire la flotta. Siccome non era in grado di pagare sul momento questo denaro, fu gettato nelle carceri dello Stato e lì morì.
Sebbene egli fosse stato accusato della colpa di Paro, tuttavia la causa della condanna fu un'altra. Gli Ateniesi per la tirannide di Pisistrato, che c'era stata pochissimo prima, temevano il potere di tutti i loro concittadini. 2 Milziade era sempre vissuto tra comandi militari e magistrature, e non pareva che potesse fare il semplice cittadino, tanto più che sembrava essere spinto a desiderare il potere dalla lunga consuetudine con esso. 3 Infatti per tutti quegli anni che aveva abitato nel Chersoneso aveva tenuto ininterrottamente il dominio ed era stato chiamato tiranno, anche se legittimo: non l'aveva infatti ottenuto con la forza ma per libero volere dei suoi e tale potere aveva mantenuto con la sua onestà. Ma sono detti e ritenuti tiranni tutti quelli che hanno un potere continuato, in una città avvezza a vivere libera. 4 Ma Milziade era uomo di una straordinaria gentilezza e di mirabile affabilità, sì che non c'era nessuno di tanto bassa condizione che non avesse accesso alla sua persona; presso tutte le città godeva di grande autorità, di un nome famoso e di una grandissima gloria militare. Il popolo, considerando tutto questo preferii che fosse punito lui innocente, piuttosto che continuare esso a vivere nel timore.
PAUSANIA.
Pausania, Spartano, fu un uomo grande, ma volubile in ogni circostanza della vita: infatti,come brillò per virtu', così fu travolto dai vizi. La sua impresa piu' famosa è la battaglia di Platea. 2. Sotto la sua guida, Mardonio, satrapo del re, di nazionalità Meda, genero del re, valoroso in guerra e molto prudente, piu' di tutti i Persiani, da un piccolo esercito della Grecia fu messo in fuga con duecentomila fanti, che Pausania aveva scelto uno ad uno, e ventimila cavalieri; in tale battaglia cadde lo stesso comandante. Insuperbito da questa vittoria cominciò a sconvolgere ogni cosa e a desiderare ardentemente successi piu' grandi. 3. Ma anzitutto fu rimproverato per il fatto che aveva posto a Delfi un tripode d'oro del bottino di guerra con un'iscrizione nella quale c'erano queste parole: "Sotto la sua guida i barbari erano stati sconfitti a Platea e per tale vittoria aveva fatto il dono ad Apollo". 4. Gli Spartani cancellarono con lo scalpello queste parole e non scrissero altro che i nomi di quelle città con l'aiuto delle quali i Persiani erano stati sconfitti.
Dopo questa battaglia inviano lo stesso Pausania con la flotta degli alleati a Cipro e nell'Ellesponto, con l'incarico di cacciare da quelle regioni le guarnigioni dei barbari. 2 Avuto un esito ugualmente felice dell'impresa cominciò a comportarsi con molto orgoglio ed a prefiggersi mete più ambiziose. Ed infatti quando, espugnata Bisanzio, catturò molti nobili Persiani e tra loro alcuni parenti del re, rispedì questi ultimi di nascosto a Serse, fingendo che fossero fuggiti dalle pubbliche prigioni e insieme con questi Gangilo di Eretria con l'incarico di consegnare al re una lettera, in cui Tucidide testimonia che erano scritte queste cose: 3 "Pausania, duce di Sparta, quelli che ha catturato a Bisanzio, dopoché ha appreso che sono tuoi parenti, te li ha mandati in dono e desidera imparentarsi con te; perciò, se ti sta bene, dàgli in sposa la tua figliuola. 4 Se farai così, egli ti promette di ridurre in tuo potere, col tuo aiuto, e Sparta e tutto il resto della Grecia. Se vorrai avviare trattative su questa proposta, mandagli un uomo fidato col quale possa avere un abboccamento". 5 Il re si rallegrò moltissimo della salvezza di tanti uomini a lui tanto vicini per parentela e mandò immediatamente da Pausania Artabazo con una lettera, nella quale lo colmava di lodi; chiede che nulla tralasci per realizzare quelle cose che prometteva; se le avesse portate a termine, nulla gli verrà da lui rifiutato. 6 Pausania conosciute le intenzioni del re, fattosi più zelante nella esecuzione del piano, cadde in sospetto degli Spartani. Per la qual cosa richiamato in Patria viene accusato di delitto capitale ed assolto, ma è condannato ad una pena pecuniaria; e per questo non fu rimandato alla flotta.
Ma lui, non molto dopo, di sua iniziativa, ritornò all'esercito e quivi, senza nessuna avvedutezza ma in modo addirittura folle, rivelò le sue intenzioni: cambiò infatti non solo le abitudini patrie, ma anche il modo di vivere e di vestire. 2 Sfoggiava una magnificenza regale, aveva vesti mediche; lo accompagnavano satelliti medi ed egiziani; banchettava alla maniera dei Persiani, con più lusso di quanto potessero tollerare quelli che erano con lui; 3 rifiutava l'udienza a chi gliela chiedeva; rispondeva in modo altezzoso; dava ordini crudeli. Non voleva tornare a Sparta; si era recato a Colone, una località della Troade; là prendeva decisioni ostili sia alla patria che a se stesso. 4 Quando gli Spartani vennero a conoscenza di ciò, gli inviarono dei messi con la scítala, in cui secondo il loro costume era scritto che se non fosse tornato in patria, lo avrebbero condannato a morte. 5 Sconvolto da questo messaggio, sperando ancora di essere in grado, con il denaro ed il potere, di scongiurare il pericolo incombente, tornò in patria. Appena arrivato, fu dagli èfori messo nelle pubbliche prigioni: secondo le loro leggi infatti qualsivoglia èforo può fare questo ad un re. Da qui tuttavia uscì, ma non per questo venne meno il sospetto: rimaneva infatti la convinzione che se la intendesse col re. 6 Vi è una categoria di gente chiamata Iloti, una grande moltitudine dei quali coltiva i campi degli Spartani e adempie la funzione degli schiavi. Si riteneva che egli sobillasse anche questi con la speranza della libertà. 7 Ma poiché di queste trame non esisteva alcuna prova manifesta per la quale potesse essere accusato, non ritenevano che si dovesse giudicare di un uomo tale e tanto illustre sulla base di sospetti, ma che si dovesse aspettare finché la cosa si svelasse da sé.
Frattanto un giovane di Argilo, che Pausania aveva amato di un amore sensuale fin da fanciullo, avendo avuto da lui una lettera per Artabazo, ed avendo sospettato che in essa fosse stato scritto qualcosa su di lui, poichè nessuno di quelli che in precedenza erano stati inviati per tale motivo nello stesso luogo era tornato, sciolse i lacci della lettera e, tolto il sigillo, venne a sapere che lui sarebbe dovuto morire se l'avesse portata a destinazione. 2. Nella medesima lettera c'erano cose che si riferivano a ciò che si era pattuito tra il re e Pausania. Il giovane consegnò questa lettera agli efori. 3. Non bisogna passare sotto silenzio la prudenza degli Spartani in tale occasione. Infatti, nemmeno dalla denuncia di questo giovane furono spinti ad accusare Pausania e non ritennero di dover usare la forza prima che egli stesso si fosse scoperto. 4. Pertanto ordinarono a questa spia che cosa volevano che si facesse. A Tenaro si trova un tempio di Nettuno che i Greci ritengono sacrilegio violare. Quella spia si rifugiò là e sedette sull'altare. Vicino all'altare costruirono sotto terra una cavità da cui si poteva sentire se qualcuno diceva qualcosa all'Argilese. Qui scesero alcuni degli efori. 5. Pausania, quando seppe che l'Arigilese si era rifugiato sull'altare, tutto turbato si recò là. Vedendolo seduto supplice sull'altare del dio, chiede qual è il motivo di una decisione così repentina. 6. Quello gli svela quanto aveva saputo dalla lettera. Allora Pausania, ancora piu' turbato, cominciò a pregarlo che non denunciasse nè tradisse lui che tanto generosamente lo aveva beneficiato: se gli avesse concesso tale favore e avesse aiutato lui, implicato in questioni tanto gravi, l'avrebbe largamente ricompensato.
Conosciute queste cose, gli èfori credettero più opportuno che quello venisse arrestato nella città. Partirono alla volta di quella e anche Pausania se ne tornava a Sparta, dopo aver rassicurato, come credeva, l'Argilese: durante il viaggio mentre stava sul punto di essere preso dall'espressione del viso di uno degli èfori che desiderava avvertirlo, capì che gli si tendeva un agguato. 2 Allora, precedendo di alcuni passi quelli che lo accompagnavano, si rifugiò nel tempio di Minerva detta Calcieca. Perché da qui non potesse uscire, immediatamente gli èfori chiusero con un muro le porte del tempio ed abbatterono il tetto, perché più presto morisse sotto il cielo aperto. 3 Si dice che in quel tempo fosse ancora in vita la madre di Pausania e che essa già avanzata in età, quando venne a sapere del misfatto del figlio, fu tra i primi a recare la pietra all'ingresso del tempio per chiudervi il figlio. Così Pausania macchiò la grande gloria militare con una morte ignominiosa; 5 portato fuori del tempio più morto che vivo, esalò quasi subito l'ultimo respiro. Il suo cadavere alcuni dicevano che bisognava portarlo nello stesso luogo riservato a quelli che venivano giustiziati, la maggioranza però fu di parere contrario e lo seppellirono lontano dal luogo dove era morto; successivamente, in seguito al responso del dio di Delfi, fu da li dissotterrato e sepolto nello stesso luogo dove aveva lasciato la vita.
PELOPIDA.
Pelopida, Tebano, è noto più agli storici che alla gente comune. Non saprei veramente con quale criterio debba parlare dei suoi meriti, perchè temo che una narrazione particolareggiata sembri non un racconto della sua vita, ma una trattazione storica, e che invece una troppo concisa, riuscendo poco comprensibile a coloro che non hanno familiarità con la storia greca, sia insufficiente a far conoscere un uomo di tanto valore. Pertanto cercherò di evitare questi due pericoli per quanto mi è possibile cercando un rimedio sia all'erudizione sia all'ignoranza dei lettori. 2. Lo Spartano Febia conduceva un esercito contro Olinto. Passando per Tebe occupò militarmente la rocca della città - detta Cadmea - dietro suggerimento di alcuni Tebani, i quali, per opporsi piu' efficacemente alla fazione avversa, attuavano una politica favorevole a Sparta: ma lo fece di sua iniziativa, non per una deliberazione del suo governo. Perciò gli Spartani lo esonerarono dal comando e gli imposero una multa; non per questo tuttavia restituirono ai Tebani la loro cittadella: rotta ormai la buona armonia, pensavano che fosse piu' conforme al proprio interesse avere i Tebani soggetti anzichè liberi. Dopo la guerra del Peloponneso, vinta Atene, essi prevedevano che la partita si sarebbe giocata con i Tebani, gli unici che osassero tenere loro testa. In vista di questo avevano posto i loro fautori nelle cariche piu' importanti, togliendo di mezzo o con la morte o con l'esilio i capi del partito contrario. Il Pelopida di cui abbiamo cominciato a parlare era tra questi ultimi e viveva esule lontano dalla patria.
Questi si erano rifugiati, quasi tutti, in Atene, non per farvi vita oziosa, ma per tentare di riconquistare la patria dal posto più vicino non appena la sorte gliene avesse offerta l'occasione. Pertanto quando parve loro che fosse tempo di agire, in combutta con quelli che in Tebe avevano gli stessi sentimenti, stabilirono come giorno, per sopprimere i nemici e liberare la città, quello in cui i massimi magistrati erano soliti banchettare insieme. 3 Spesso le grandi imprese sono compiute con milizie non altrettanto grandi, ma certo mai potenza tanto formidabile fu messa in rotta da una iniziativa così modesta. Infatti fra quelli che erano stati condannati all'esilio, si misero insieme dodici ragazzi, mentre in tutto non erano più di cento quelli che si esponevano ad azione così rischiosa. 4 Un numero tanto esiguo bastò a rovesciare la potenza degli Spartani. Essi infatti in quel frangente più che al partito avverso fecero guerra agli Spartani, che erano i signori di tutta la Grecia: la maestà della loro supremazia, non molto dopo, crollò nella battaglia di Lèuttra, ma colpita da questa azione iniziale. 5 Quei dodici dunque, il cui duce era Pelòpida, usciti di giorno da Atene, per poter giungere a Tebe sul far della sera, uscirono con cani da caccia, con reti e con vestiti campagnoli, per destare meno sospetti durante il tragitto. E questi arrivati proprio nel momento che avevano prefissato, si recarono alla casa di Carone dal quale era stato fissato e il giorno e l'ora.
A questo punto mi piace introdurre una riflessione, anche se estranea all'argomento trattato e cioè quanta calamità possa arrecare l'eccessiva fiducia. Infatti agli orecchi dei magistrati tebani arrivò subito la notizia, che gli esuli erano entrati in città; ma quelli, in preda al vino ed alla gozzoviglia, la ebbero in non cale a tal segno che non si dettero neppure il pensiero di fare indagini su una cosa tanto importante. 2 Si aggiunse un fatto a mettere maggiormente in luce la loro scempiaggine. Giunse da Atene, da parte di Archino, una lettera indirizzata ad uno di questi, Archia, che ricopriva allora a Tebe la più alta magistratura, nella quale venivano esposti i particolari della partenza dei congiurati. Siccome questa gli fu recapitata quando era già sdraiato per il banchetto, ficcandola, sigillata com'era, sotto il cuscino, disse: "Rimando a domani le cose serie". 3 Ma quelli, a notte già inoltrata, in preda al vino, vennero tutti uccisi dagli esuli, comandati da Pelòpida. Portata a termine l'operazione, chiamato il popolo alle armi ed alla libertà, accorsero non solo quelli che erano in città, ma anche da tutte le parti della campagna, cacciarono dalla rocca la guarnigione spartana, liberarono la patria dall'assedio, e i fautori dell'occupazione della Cadmea, parte uccisero, parte cacciarono in esilio.
Durante quei moti turbolenti, Epaminonda, come si è detto sopra, se ne stette in casa: non vi prese parte finchè la lotta fu tra cittadini e cittadini. Perciò la liberazione di Tebe è del tutto merito di Pelopida: gli altri titoli di gloria furono in comune con Epaminonda. 2. Così, nella battaglia di Leuttra, se il comandante in capo era Epaminonda, fu Pelopida a comandare le truppe scelte che per prime respinsero le falangi spartane. 3. Gli fu vicino inoltre in tutte le imprese (quando per esempio fu dato l'assalto a Sparta egli comandava una delle due ali),andò in Persia come ambasciatore per ottenere una immediata ricostruzione di Messene. Insomma a Tebe egli occupava il secondo posto, secondo però nel senso che era vicinissimo a Epaminonda.
Dovette lottare contro l'avversa fortuna. Infatti e dapprima, come abbiamo detto, fu un esule senza patria e quando voleva ridurre la Tessaglia sotto il dominio dei Tebani e si riteneva abbastanza protetto dal diritto di legazione, che suol essere considerato sacro presso tutte le genti, fu catturato insieme a Ismenia, dal tiranno Alessandro di Fere e gettato in carcere. 2 Lo trasse fuori Epaminonda, muovendo guerra ad Alessandro. Dopo questo fatto il suo animo non poté mai più placarsi contro quello, da cui aveva subito la violenza. Così convinse i Tebani a marciare in aiuto della Tessaglia ed a cacciarne i tiranni. 3 Ed essendo stato affidato a lui il supremo comando di questa guerra ed avendo marciato con l'esercito fin là, non appena ebbe scorto il nemico non esitò a dare battaglia. 4 Ed ivi, come scorse Alessandro, infiammato d'ira, spronò il cavallo contro di lui ed allontanatosi molto dai suoi, cadde trafitto da una gragnuola di dardi. E questo accadde quando già gli arrideva la vittoria: infatti le truppe dei tiranni erano già in ritirata. 5 Per questa impresa tutte le città della Tessaglia onorarono l'ucciso Pelòpida con corone d'oro e statue di bronzo ed i suoi figliuoli con molti terreni.
FOCIONE.
Focione Ateniese, quantunque abbia avuto spesso il comando di eserciti e abbia coperto le piu' alte magistrature, è molto piu' conosciuto per l'integrità della vita che non per l'attività militare. Di questa infatti non si ha alcun ricordo, di quella invece grande fama, e per quella fu soprannominato "il Probo". 2. Visse sempre povero, pur avendo avuto la possibilità di essere ricchissimo per le cariche ripetutamente affidategli e per gli amplissimi poteri che il popolo gli conferiva. 3. Una volta, poichè egli rifiutava una forte somma di denaro mandatagli in dono dal re Filippo, gli ambasciatori lo esortavano ad accettarla facendogli notare che, se egli poteva benissimo farne a meno, doveva però pensare ai suoi figlioli, i quali difficilmente avrebbero potuto tener alta la grande gloria paterna in uno stato d'indigenza, 4. ed egli rispose: "Se essi mi rassomiglieranno, questo stesso campicello che ha permesso a me di arrivare a tali cariche basterà al loro sostentamento; se mi saranno dissimili, non voglio fomentare e crescere a mie spese il fasto della loro vita".
Costui giunto con prospera fortuna quasi agli ottant'anni, nell'estremo della vita incappo nell'odio implacabile dei suoi concittadini; 2 dapprima, perché d'accordo con Dèrnade aveva consegnato la città ad Antípatro e su istigazione di quello erano stati cacciati in esilio con decreto popolare Demostene e quegli altri che si riteneva avessero ben meritato della patria. E aveva mancato non solo perché aveva male provveduto alla patria, ma anche perché non aveva tenuto fede all'amicizia. 3 Infatti aveva raggiunto quel grado che occupava, grazie al deciso appoggio di Demostene, quando lo sosteneva segretamente contro Carète; dallo stesso era stato difeso più di una volta in processi che comportavano la pena capitale, ed era uscito libero. Egli non solo non difese costui nelle sue vicende giudiziarie, ma addirittura lo tradì. 4 Rovinò però soprattutto per una sola accusa: mentre aveva nelle sue mani il supremo potere dello stato, fu avvertito da Dèrci che Nicánore, il prefetto di Cassandro, preparava un attacco al Pireo degli Ateniesi e lo stesso gli chiedeva che pigliasse provvedimenti, perché la città non rimanesse priva di vettovaglie; a costui Focione, in presenza del popolo, rispose che non c'era questo pericolo e di questo offrì se stesso come garante. 5 Non molto tempo dopo, Nicánore si impadronì del Pireo, senza del quale Atene non può sopravvivere. Il popolo accorse allora in armi per riconquistarlo, ma lui non solo non chiamò alle armi nessuno, ma non volle neppure mettersi a capo degli armati.
Due partiti erano in quel tempo ad Atene: uno propugnava gli interessi del popolo, l'altro quelli dei nobili. Focione e Demetrio Falereo appartenevano a questo secondo. Entrambi, però, si appoggiavano ai Macedoni; i democratici tenevano per Poliperconte, gli oligarchici per Cassandro. 2. Questi, però, nel frattempo venne cacciato dalla Macedonia da Poliperconte. Il partito popolare, reso piu' forte da questo fatto, espulse subito dalla città i capi del partito avversario, tra cui Focione e Demetrio Falereo, e mandò in proposito messi a Poliperconte, per chiedergli la convalida del proprio decreto. 3. Vi andò anche Focione che, non appena arrivato, ricevette l'ordine di difendersi: formalmente davanti al re Filippo, in realtà davanti a Poliperconte, che allora sovrintendeva agli affari della monarchia. 4. Accusato da Agnone di tradimento per aver consegnato il Pireo a Nicanore, per sentenza del consiglio reale fu messo in stato di arresto e mandato ad Atene perchè gli fosse fatto il processo legale.
Quando si giunse in città, e Focione era portato su un carro perché a causa dell'età non poteva più reggersi sulle gambe, vi fu un grande accorrere di popolo: alcuni, memori dell'antica fama, avevano pietà dell'età, ma la stragrande maggioranza erano accesi d'ira per il sospetto del tradimento del Pireo e soprattutto perché nella vecchiaia si era schierato contro gli interessi del popolo. 2 Perciò non gli fu neppure concessa la facoltà di portare a termine il suo discorso di difesa. Quindi condannato, fatte salve certe formalità giuridiche, dal tribunale, fu consegnato agli Undici, a cui secondo il costume degli Ateniesi si consegnano di solito, per essere giustiziati, i condannati pubblici. 3 E mentre costui veniva condotto a morte, gli si fece incontro il suo vecchio amico Eufileto. Avendogli quello detto piangendo: "Quale sorte indegna subisci, o Focione!", questi: "Ma non inaspettata", gli rispose. "Una fine come questa infatti l'hanno avuta la maggior parte degli uomini illustri di Atene". 4 Tale fu l'odio della moltitudine nei suoi confronti, che nessun uomo libero osò portarlo alla sepoltura. Perciò fu seppellito da schiavi.
TEMISTOCLE.
Temistocle, figlio di Neocle, Ateniese. I difetti della sua prima giovinezza furono compensati da grandi virtu' al punto che nessuno gli è anteposto e pochi sono considerati a lui pari. 2. Ma bisogna cominciare dall'inizio. Suo padre Neocle era di nobile stirpe. Egli prese in moglie una donna acarnana dalla quale nacque Temistocle. Ma, apprezzato poco dai genitori, sia perchè viveva in maniera piuttosto libera sia perchè trascurava il patrimonio familiare, fu diseredato dal padre. 3. Questo affronto però non lo piegò, anzi lo incoraggiò. Infatti, giacchè riteneva che questo non potesse essere cancellato senza grandissimo impegno, si diede interamente all'attività politica, dedicandosi con una certa diligenza agli amici e alla gloria. Si occupava molto di cause private, spesso si presentava all'assemblea del popolo; nessun affare di una certa importanza si trattava senza di lui; trovava facilmente quanto era necessario e lo chiariva con facilità di parola. 4. E non era meno pronto nell'esecuzione che nell'ideazione, poichè, come dice Tucidide, non solo giudicava esattamente le situazioni presenti, ma anche prevedeva con grande abilità quelle future. Perciò accadde che in breve tempo diventò famoso.
Il primo passo della sua carriera politica fu al tempo della guerra di Corcira: eletto stratego dal popolo per condurla, rese la città più ardita non solo nella guerra di allora ma anche per il futuro. 2 Siccome il denaro pubblico che si ricavava dalle miniere veniva sperperato ogni anno a causa delle elargizioni dei magistrati, convinse il popolo a impiegare quel denaro per costruire una flotta di cento navi. 3 Allestita in breve una tale flotta, dapprima debellò i Corciresi, poi dette la caccia ai predoni marittimi finché rese il mare sicuro. Con che arricchì gli Ateníesi e nel contempo li rese espertissimi nella guerra navale. 4 Quanto questo abbia contribuito alla salvezza di tutta quanta la Grecia, si vide nella guerra contro i Persiani. Quando infatti Serse portò guerra per terra e per mare a tutta l'Europa, la invase con un esercito tanto grande quale nessuno né prima né dopo ebbe mai: 5 la sua flotta si componeva di milleduecento navi da guerra, a cui tenevano dietro duemila navi da carico; le truppe terrestri ammontavano a settecentomila fanti e quattrocentomila cavalieri. 6 Recata in Grecia la fama del suo arrivo, poiché si diceva che soprattutto gli Ateniesi erano presi di mira per via della battaglia di Maratona, essi andarono a Delfi. a consultare l'oracolo sulle misure da prendere. Agli interpellanti la Pizia rispose che dovevano difendersi con mura di legno. 7 Mentre nessuno capiva il senso dell'oracolo, Temistocle li convinse che il consiglio di Apollo era di mettere se stessi e le proprie sostanze sulle navi: questo era il muro di legno che intendeva il dio. 8 Tale parere viene considerato giusto e così gli Ateniesi aggiungono alle precedenti altrettante navi triremi e trasferiscono tutti i loro beni mobili, parte a Salamina, parte a Trezene: affidano l'Acropoli e l'espletamento del culto ai sacerdoti e a pochi anziani ed abbandonano il resto della città.
Il suo progetto non piaceva alla maggior parte delle città, che preferivano combattere per terra. Così furono inviati dei soldati scelti insieme con Leonida, re degli Spartani, per occupare le Termopili e impedire che i barbari avanzassero ancora. Questi non contennero l'assalto dei nemici e tutti morirono sul posto. 2 Ma la flotta confederata della Grecia composta di trecento navi, di cui duecento ateniesi, ebbe un primo scontro con la marina del re presso l'Artemisio, tra l'Eubea e il continente. Temistocle sceglieva infatti i luoghi stretti, per non essere aggirato dal gran numero di navi dei nemici. 3 Anche se questo scontro ebbe un esito incerto, tuttavia i Greci non osarono rimanere nello stesso luogo perché c'era il pericolo di essere attaccati su due fronti, se una parte della flotta nemica avesse superato l'Eubea. 4 Così si allontanarono dall'Artemisio e dislocarono le loro navi presso Salamina di fronte ad Atene.
Ma Serse, espugnate le Termopili, si avvicinò immediatamente alla città e dato che non c'era nessuno a difenderla, uccisi i sacerdoti che aveva trovato sull'acropoli, la dette alle fiamme. 2 I soldati della flotta, atterriti dalle fiamme, non osavano rimanere in quel luogo e moltissimi erano del parere di tornare alle proprie città e difendersi dentro le mura; ma Temistocle da solo si oppose affermando che tutti uniti potevano far fronte, divisi sarebbero sicuramente periti e sosteneva questa tesi davanti ad Euribiade, re degli Spartani che allora aveva il comando supremo. 3 Ma non riuscendo a convincerlo come voleva, di notte mandò al re persiano il suo servo più fidato, perché gli portasse a nome suo la notizia che i suoi nemici erano in fuga: 4 ma se questi si fossero allontanati, avrebbe durato più fatica e più tempo a concludere la guerra, dovendo inseguirli singolarmente; mentre se li avesse attaccati subito, in breve li avrebbe sconfitti tutti. Con questo stratagemma voleva che tutti fossero costretti loro malgrado a combattere. 5 A questa notizia, il re credendo che non ci fosse sotto alcun inganno, il giorno dopo, in una posizione per lui del tutto sfavorevole e invece molto vantaggiosa per i Greci, si scontrò con loro in un braccio di mare così angusto che la sua numerosa flotta non poté attuare lo spiegamento. Così fu vinto più dallo stratagemma d Temistocle che dalle armi greche.
Anche se qui aveva condotto l'impresa senza successo, tuttavia Serse disponeva di tante altre truppe da poter sconfiggere con esse anche allora i nemici: fu cacciato nuovamente da Temistocle dalla sua posizione. Temistocle, infatti, temendo che continuasse a combattere, lo informò che sarebbe stato distrutto il ponte che lui aveva fatto costruire sull'Ellesponto e che sarebbe stato così ostacolato nel ritorno in Asia; e lo persuase di questo. 2.Così Serse tornò in Asia in meno di trenta giorni per la stessa strada sulla quale aveva compiuto il viaggio in sei mesi, ed era convinto che Temistocle non lo avesse battuto, ma salvato. 3.In tal modo dall'accortezza di un solo uomo la Grecia fu liberata e l'Asia cedette all'Europa. Questa è la seconda vittoria che si può paragonare al trionfo di Maratona. Infatti allo stesso modo presso Salamina fu sbaragliata da un piccolo numero di navi la flotta piu' grande a memoria d'uomo.
Temistocle in questa guerra fu grande e non fu da meno nella pace. Gli Ateniesi avevano il porto a Falèro, non grande né sicuro; allora per suo suggerimento fu costruito il triplice porto del Pireo che fu circondato di mura sì da uguagliare per magnificenza la stessa città e da superarla per utilità. 2 Sempre lui fece ricostruire le mura di Atene con grande rischio personale. Infatti gli Spartani, trovato nelle invasioni dei barbari un pretesto plausibile per sostenere che nessuna città, fuori del Peloponneso, doveva avere le mura, perché non ci fossero luoghi fortificati di cui i nemici potessero impadronirsi, tentarono di impedire i lavori di ricostruzione degli Ateniesi. Così provarono a impedire agli Ateniesi di ricostruire le mura. 3 Con ciò perseguivano uno scopo ben diverso da quanto volevano far credere. Gli Ateniesi infatti, con le due vittorie di Maratona e di Salamina, avevano conquistato tanta gloria presso tutti i popoli, che gli Spartani li vedevano come futuri rivali per l'egemonia della Grecia. Per questo volevano che fossero più deboli possibile. 4 Quando vennero a sapere che gli Ateniesi stavano ricostruendo le mura, mandarono ad Atene una delegazione per impedire che questo si facesse. Finché quelli furono presenti, cessarono i lavori e dissero che avrebbero mandato loro dei legati per discutere la faccenda. 5 Temistocle si incaricò di questa ambasceria e dapprima partì da solo; ordinò che gli altri legati partissero quando le mura apparissero alte a sufficienza; intanto tutti, schiavi e liberi, continuassero a lavorare, senza risparmiare nessun luogo sia sacro che profano, sia privato che pubblico e radunassero da tutte le parti quanto ritenessero adatto alla fortificazione. Così le mura di Atene risultarono formate di materiale preso da tempietti e da tombe.
Temistocle, quando fu giunto a Sparta, non volle presentarsi ai magistrati e cercò di tirar per le lunghe il più possibile, adducendo il pretesto che aspettava i suoi colleghi. 2 Gli Spartani si lamentavano che comunque la costruzione delle mura andava avanti e che lui tentava di ingannarli, ma intanto sopraggiunsero gli altri legati. Quando ebbe da loro la notizia che l'opera di fortificazione era a buon punto, si presentò agli efori spartani, che erano i supremi magistrati e davanti a loro sostenne che avevano ricevuto false informazioni: perciò era giusto che essi inviassero degli uomini onesti e nobili e degni di fede ad appurare il fatto e nel frattempo tenessero lui in ostaggio. 3 La sua proposta fu accolta e furono inviati ambasciatori ad Atene tre che avevano ricoperto le più alte cariche. Insieme a loro Temistocle volle che partissero i suoi colleghi e ad essi raccomandò che non lasciassero ripartire [da Atene] i legati spartani prima che fosse stato rilasciato lui stesso. 4 Quando credette che essi fossero arrivati ad Atene, si presentò ai magistrati ed al senato spartani e al loro cospetto confessò con grande franchezza che gli Ateniesi, per suo consiglio, ma avrebbero potuto farlo per il comune diritto delle genti, avevano cinto di mura, per difenderli più facilmente dai nemici, gli dèi comuni ed i loro propri ed i Penati e così facendo avevano agito anche per il bene della Grecia; 5 la loro città era come un baluardo contro i barbari, presso il quale già due volte la flotta regia aveva fatto naufragio. 6 E gli Spartani agivano male e contro giustizia a pensare più alla loro propria egemonia che non al bene di tutta la Grecia. Perciò se volevano rivedere i loro legati inviati ad Atene, lo dovevano lasciare andare, altrimenti quelli non sarebbero mai più tornati in patria.
Eppure non sfuggì all'odio dei suoi concittadini. Infatti, per il medesimo timore per cui era stato condannato Milziade, fu bandito dalla città col suffragio dei cocci e si ritirò ad Argo. 2 Mentre viveva qui con grande onore grazie alle sue molte capacità, gli Spartani inviarono ambasciatori ad Atene per accusarlo, in sua assenza, di essersi alleato con il re di Persia per soggiogare la Grecia. 3 In seguito a questa accusa fu condannato, benché assente, per tradimento. Quando lo venne a sapere, si trasferii a Corcira, dato che non si sentiva abbastanza sicuro ad Argo. Ma qui quando capì che i maggiorenti della città temevano a causa sua una dichiarazione di guerra da parte degli Spartani e degli Ateniesi, si rifugiò da Adineto, re dei Molossi con cui aveva rapporti di ospitalità. 4 Là giunto, siccome in quel momento il re era assente, perché lo accogliesse e lo proteggesse con maggiore scrupolo, afferrò la sua figlioletta e con essa si rifugiò Del sacrario della casa, che era oggetto di un culto straordinario. Non uscì di lì prima che il re, stretta la sua mano, lo accogliesse sotto la sua protezione che poi gli mantenne. 5 Infatti benché fosse reclamato a nome dello Stato dagli Spartani e dagli Ateniesi, non tradì il supplice e lo consigliò di provvedere alla sua incolumità; era infatti difficile per lui rimanersi al sicuro in un luogo così vicino. Così lo fece accompagnare a Pidna e gli diede una scorta sufficiente per la sua sicurezza. 6 Qui si imbarcò in incognito a tutto l'equipaggio. Una violenta tempesta spinse la nave verso Nasso dove era allora un esercito ateniese, per cui Temistocle capì che se fosse arrivato lì per lui sarebbe stata la fine. Trovandosi a mal partito, rivela la propria identità al comandante della nave, facendogli molte promesse se lo avesse salvato. 7 Quello allora preso da pietà per un uomo così famoso, per un giorno e una notte tenne la nave ancorata in una rada lontana dall'isola e non permise che alcuno ne scendesse. Quindi giunse ad Efeso e li sbarcò Temistocle. E questi in seguito gli mostrò una riconoscenza adeguata al beneficio.
So che molti hanno scritto questo: che Temistocle passò in Asia mentre regnava Serse. Ma io credo soprattutto a Tucidide perchè fu il piu' vicino per età tra coloro che tramandarono la storia di quei tempi e perchè fu della stessa città. Egli, dunque, afferma che lui si recò presso Artaserse e che gli inviò una lettera con queste parole: 2. "Io, Temistocle, sono venuto da te, io che ho arrecato alla tua famiglia piu' mali di tutti i Greci finchè mi fu necessario combattere contro tuo padre e difendere la mia patria. 3. Io medesimo ho fatto molto piu' bene, dopo che io stesso cominciai ad essere al sicuro ed egli in pericolo. Infatti, volendo tornare in Asia, dopo la battaglia di Salamina, lo informai con una lettera che c'era l'intenzione di abbattere il ponte che aveva fatto costruire sull'Ellesponto e di circondarlo di nemici: con questa informazione fu liberato dal pericolo. 4. Ora, dunque, mi son rifugiato da te perseguitato da tutta quanta la Grecia, chiedendo la tua amicizia: se la otterrò, avrai in me un amico leale non meno di quanto egli mi sperimentò come valoroso nemico. Questo, poi, chiedo: che tu mi conceda il tempo di un anno per quelle questioni di cui voglio discutere con te e che, trascorso tale periodo, tu mi permetta di venire da te".
Il re ammirò la grandezza d'animo di Temistocle e desiderando farsi amico un uomo tanto importante, accordò il permesso. Egli per tutto quel tempo si dedicò allo studio della cultura e della lingua persiana e ne divenne tanto esperto che, a quanto si racconta, parlò al re con molta più eleganza di quelli che erano nati in Persia. 2 Egli fece al re molte promesse, la più gradita di tutte questa: che, se volesse servirsi dei suoi consigli, egli avrebbe soggiogato con le armi la Grecia. Ricevuti da Artaserse grandi doni, tornò in Asia e si stabilì a Magnesia. 3 Il re gli aveva infatti donato questa città dicendo che gli avrebbe fornito il pane (da quella regione si ricavavano ogni anno 50 talenti); inoltre Lampsaco che gli avrebbe dato il vino; Miunta il companatico. Di lui sono rimasti fino ai tempi nostri due monumenti: la tomba nei pressi della città in cui fu seppellito; una statua nel Foro di Magnesia. 4 La sua morte è stata da molti storici variamente raccontata; ma noi prestiamo fede più che ad ogni altro alla testimonianza di Tucidide, che afferma che egli mori di malattia a Magnesia, ed aggiunge che corse voce che si avvelenò di sua iniziativa quando capì che non poteva assolutamente mantenere le promesse fatte al re sulla conquista della Grecia. 5 Sempre Tucidide ha tramandato che le sue ossa furono sepolte di nascosto in Attica dagli amici: le leggi infatti non lo consentivano in quanto era stato condannato per tradimento.
TRASIBULO.
Trasibulo, figlio di Lico, Ateniese. Se si deve giudicare il merito di per sè, senza tenere conto della fortuna, non so se non stimerei quest'uomo primo tra tutti i condottieri. Questo è certo: non gli antepongo nessuno per lealtà, coerenza, grandezza d'animo, amore verso la patria. 2. Infatti ciò che molti vollero ma pochi poterono, cioè liberare la patria da un solo tiranno, a lui riuscì di fare al punto che la liberò dalla schiavitu' quando era oppressa da trenta tiranni. 3. Ma non so come, molti lo precedettero per fama, mentre nessuno lo superava per tali virtu'. Prima di tutto durante la guerra del Peloponneso egli compì molte imprese senza Alcibiade; egli invece nessuna impresa senza di lui; e sfruttò tutte queste imprese per un certo dono naturale. 4. Tuttavia i generali hanno in comune con i soldati e con la fortuna tutti quei successi, poichè nell'urto del combattimento l'iniziativa passa dalla decisione del comandante alla forza e al numero dei combattenti. Pertanto con suo diritto il soldato rivendica dal generale una piccola parte del merito, ma una grandissima ne rivendica la fortuna e in questo caso essa può giustamente dichiarare di aver contato piu' dell'accortezza del generale. 5. Perciò quella stupenda impresa è propria di Trasibulo. Infatti, quando i trenta tiranni messi a capo dagli Spartani tenevano Atene oppressa in schiavitu' e in parte avevano cacciato dalla patria in parte avevano ucciso moltissimi concittadini che la sorte aveva risparmiato in guerra e di moltissimi avevano diviso tra loro i beni confiscati, egli non solo per primo, ma all'inizio anche da solo dichiarò loro guerra.
Quando infatti si rifugiò a File, che è una fortezza dell'Attica molto ben difesa, aveva con sé non più di trenta sostenitori. Questo fu l'inizio del riscatto degli Attèi, questo il nerbo della libertà di una città tanto famosa. 2 E sulle prime lui ed il suo scarso seguito non furono presi in considerazione dai tiranni. Ma questo atteggiamento segnò la rovina di quei presuntuosi e la fortuna del disprezzato: esso infatti rese quelli lenti a contrastarlo, questi altri più forti grazie al tempo concesso per i preparativi. 3 Perciò deve essere maggiormente presente alla mente di tutti questo precetto: nulla va sottovalutato in guerra e non senza ragione si dice che la madre del soldato prudente di solito non piange. 4 Ma le forze di Trasibulo non crebbero come si aspettava: già a quei tempi là i bravi cittadini parlavano in difesa della libertà con più forza di quanto poi combattevano per essa. 5 Da File si recò al Pireo e fortificò Munichia. i tiranni sferrarono due attacchi contro di essa ma, respinti da là ignominiosamente, si rifugiarono rapidamente in Atene, abbandonati armi e bagagli. 6 Trasibulo seppe essere non meno accorto che valoroso. Infatti proibì che si facesse del male a coloro che si arrendevano (riteneva giusto che i cittadini risparmiassero i cittadini) e nessuno fu ferito, tranne chi volle aggredire per primo. Non spogliò nessun caduto, non toccò nulla, se non le armi, di cui aveva bisogno, e quanto era necessario per il sostentamento. 7 Nel secondo attacco cadde Crizia, capo dei tiranni, combattendo però con grande valore contro Trasibulo.
Abbattuto Crizia, venne in aiuto agli Attici Pausania, re degli Spartani. Costui mise pace tra Trasibulo e quelli che avevano in mano la città a queste condizioni: che nessuno, a parte i trenta tiranni e i dieci, che creati magistrati in un secondo momento si erano mostrati crudeli come i predecessori, fosse punito con l'esilio o con la confisca dei beni, il governo dello Stato fosse restituito al popolo. 2 Anche questa fu mossa eccellente di Trasibulo: ristabilita la pace, mentre aveva un sommo potere nella città, pro pose la legge che nessuno fosse accusato né condannato per i fatti accaduti in precedenza. La chiamarono la legge dell'oblio. 3 E non solo si preoccupò di farla approvare, ma anche sì adoperò perché fosse applicata. Infatti quando alcuni di quelli che erano stati suoi compagni d'esilio, volevano uccidere quelli con i quali per legge dello Stato si era tornati in pace, si oppose e mantenne quanto promesso.
Per così grandi meriti gli fu conferita dal popolo una corona a titolo di onore, fatta con due rametti di olivo. E poichè l'amore dei concittadini, e non la violenza, l'aveva procurata, non suscitò alcun odio, ma fu di grande gloria. Quel famoso Pittaco, che fu annoverato tra i sette saggi, poichè gli abitanti di Mitilene gli offrivano in dono molte migliaia di iugeri di terreno, giustamente disse: "Non datemi, vi prego, ciò che molti potrebbero invidiare e moltissimi anche bramare. Di questi non voglio piu' di cento iugeri che mostrino la mia moderazione e la vostra benevolenza". 3. Infatti i piccoli doni sono soliti essere duraturi, quelli ricchi instabili. Pertanto Trasibulo, contento di quella corona, non chiese di piu' e giudicò che nessuno lo avesse superato in onore. 4. Egli in seguito, quando come comandante aveva fatto approdare la flotta in Cilicia, giacchè non si era fatta la guardia nel suo accampamento con sufficiente diligenza, fu ucciso dai barbari nella tenda durante un'uscita improvvisa dalla città compiuta di notte.
TIMOLEONTE.
TIMOLEONTE, di Corinto. Che egli sia stato davvero un uomo straordinario è ammesso da tutti. Egli ebbe infatti - come forse nessuno - la bella sorte sia di liberare la sua città natale dal tiranno che l'opprimeva, sia di rimuovere dai Siracusani, in aiuto dei quali era stato mandato, il giogo di una ben radicata schiavitu' e di far tornare nel precedente stato la Sicilia, che da tanti anni era devastata dalla guerra e soggetta ai barbari. 2. E in queste imprese dovette destreggiarsi tra casi non sempre favorevoli, e seppe farlo molto piu' saggiamente nei momenti prosperi che non in quelli avversi, il che è ritenuto alquanto difficile. 3. Suo fratello Timofane, posto dai Corinti a capo delle forze armate, con l'aiuto di soldati mercenari aveva instaurato la tirannide, ed egli avrebbe potuto dividere con lui il potere; invece, tanto aborrì la partecipazione a quella scelleratezza che antepose la libertà dei propri concittadini alla vita del fratello, giudicando miglior cosa obbedire alle leggi che comandare la patria. 4. Guidato da questo sentimento, organizzò l'uccisione del fratello per mezzo di un certo aruspice e di un comune parente che aveva sposato una loro sorella nata dai medesimi genitori. Egli, però, non prese parte al fatto, anzi non volle nemmeno vedere il sangue del fratello, e mentre ebbe luogo l'uccisione si tenne lontano nella caserma delle guardie, per impedire che qualche gregario corresse in suo aiuto. 5. Questa sua azione tanto gloriosa non riscosse però il plauso di tutti: vi fu chi lo giudicò reo di leso vincolo familiare e per invidia denigrò il suo merito. La madre poi dopo quel fatto non ricevette mai in casa il figlio e non lo guardò piu' in faccia senza maledirlo e chiamarlo fratricida e sacrilego. 6. E quell'avversione lo sconvolse così profondamente da fargli pensare piu' di una volta di porre fine ai suoi giorni per non avere piu' davanti agli occhi tanta gente ingrata.
Frattanto, ucciso a Siracusa Dione, Dionigi si impadronì di nuovo della città. i suoi avversari si rivolsero per aiuto ai Corinzi e chiesero un comandante per sostenere la guerra. Fu mandato là Timoleonte che con un successo sorprendente cacciò Dionisio da tutta la Sicilia. 2 Sebbene potesse ucciderlo non volle farlo e lo fece riparare incolume a Corinto perché spesso i Corinzi erano stati aiutati dai mezzi dei due Dionigi e lui voleva che rimanesse il ricordo dei benefici ricevuti; riteneva inoltre gloriosa quella vittoria in cui la clemenza prevalesse sulla crudeltà; infine voleva che non solo si sapesse per sentito dire, ma si vedesse anche con gli occhi chi e da quale regno avesse ridotto in quello stato. 3 Dopo la partenza di Dionigi, combatté con lceta che aveva osteggiato Dionigi: ma che quello gli fosse stato avversario non per odio della tirannide, ma per brama di potere, lo dimostrò il fatto che, una volta cacciato Dionigi, non volle a sua volta rinunciare al comando. 4 Dopo aver vinto costui, Timoleonte mise in fuga un poderoso esercito dei Cartaginesi presso il fiume Crinisso e li Costrinse ad accontentarsi dell'Africa, mentre erano già parecchi anni che possedevano la Sicilia. Catturò anche Mamerco, comandante italico, uomo bellicoso e potente, che era venuto in Sicilia per aiutare i tiranni.
Portate a termine queste imprese, vedendo che per il protrarsi della guerra non solo le regioni, ma anche le città erano deserte, raccolse dapprima quanti più Siciliani poté; poi fece venire dei coloni da Corinto, perché Siracusa nei tempi antichi era stata fondata da loro. 2 Restituì le proprietà ai vecchi abitanti, divise tra i nuovi i poderi rimasti vuoti per la guerra, fece ricostruire le mura abbattute della città ed i templi abbandonati, rese alle comunità cittadine la libertà e le leggi; dopo una grandissima guerra riportò tanta pace a tutta l'isola, che sembrava lui il fondatore di quelle città, non coloro che le avevano colonizzate all'inizio. 3 Abbatté dalle fondamenta la rocca di Siracusa, che Dionigi aveva fortificato per dominare la città; demolì gli altri baluardi della tirannide e si adoperò perché sparissero del tutto i segni della servitù. 4 Pur possedendo tanta potenza, da poter comandare anche a chi non voleva e godendo d'altra parte di tanto amore di tutti i Siciliani che avrebbe potuto diventare re senza alcuna opposizione, preferì essere amato che temuto. Così non appena poté depose il potere e visse a Siracusa da privato il resto dei suoi giorni. 5 E non fu una decisione avventata la sua; infatti quello che gli altri ottennero come re con il potere, egli lo ottenne con l'affetto. Nessun onore gli venne meno, né in seguito a Siracusa ci fu alcun affare pubblico di cui si decidesse prima di conoscere il parere di Timoleonte. 6 Mai il parere di nessuno fu non solo preferito, ma neppure messo sullo stesso piano del suo. E questo avvenne non meno per la sua saggezza che per l'affetto di cui godeva.
In età avanzata e non per effetto di malattia divenne cieco: disgrazia che sopportò con tanta serenità che nessuno lo udì mai lamentarsene e che non gli impedì di essere meno sollecito negli affari pubblici o privati. 2. A causa di tale infermità si recava nel teatro in cui si tenevano le adunanze del popolo sopra un carro tirato da due cavalli e così, dall'alto di esso, esponeva le sue idee. E questo non era ritenuto da nessuno atto di superbia, perchè dalla sua bocca non uscì mai nulla di arrogante o borioso. 3. E anche quando udiva altri tessere le sue lodi soggiungeva solo che egli doveva essere serenamente grato agli dei che, decisi a rialzare le sorti della Sicilia, proprio a lui ne avevano conferito l'incarico. Era infatti suo intimo convincimento che niente avviene che non sia preordinato dagli dei: perciò in casa sua aveva consacrato un tempietto alla Automatia e lo venerava con grande devozione. 4. Una circostanza particolarmente straordinaria si accompagnava alle doti eccezionali di quest'uomo: tutte le piu' importanti battaglie egli le combattè nel giorno del suo compleanno, tanto che la Sicilia considerò poi quel giorno come festivo.
Un certo Lafistio, uomo petulante e ingrato, voleva costringerlo a comparire in giudizio, perché sosteneva di avere una pendenza legale con lui ed erano accorsi in molti che cercavano di rintuzzare con la forza l'arroganza di quell'uomo; ma Timoleonte pregò tutti di non farlo; 2 egli aveva affrontato le più grandi fatiche e i più gravi pericoli perché a Lafistio e a chiunque altro fosse lecito fare ciò. Questo infatti era l'ideale della libertà: la possibilità per tutti di affrontare per le vie legali qualunque questione. Parimenti quando un tale della stessa genia di Lafistio, di nome Demèneto, in un'assemblea popolare cominciò a sminuire le sue, gesta e a lanciare invettive contro di lui, Timoleonte, 3 disse di aver raggiunto il suo scopo: infatti aveva sempre chiesto questo agli dèi immortali e cioè di restituire ai Siracusani una libertà tale per cui fosse lecito a chiunque di parlare francamente di ciò che volesse. 4 Quando finì i suoi giorni, fu sepolto dai Siracusani a spese dello Stato nel ginnasio che ora si chiama Timoleonteo, tra il concorso di tutta la Sicilia.
TIMOTEO.
TIMOTEO, figlio di Conone, Ateniese. La gloria derivante a lui dal padre egli accrebbe con molti meriti propri: eloquente, attivo, infaticabile, esperto nell'arte militare non meno che nella vita politica. 2. Numerose sono le sue imprese notevoli: ecco solo le piu' illustri. Sottomise Olinto e Bisanzio; prese Samo, e mentre nell'espugnazione di quest'isola, in una guerra precedente, gli Ateniesi avevano profuso mille e duecento talenti, egli la rese alla patria senza gravare sull'erario. Combattè contro Coto, e ne riportò nelle casse dello Stato mille e duecento talenti di bottino. Liberò la città di Cizico da un assedio. 3. Andato poi con Agesilao a portar aiuto ad Ariobarzane, mentre il re spartano fu compensato con denaro in contanti, egli preferì arricchire i suoi concittadini di territori e di città anzichè ricevere una ricompensa di cui avrebbe potuto portare a casa sua una parte: così ebbe Critote e Sesto.
Comandante della flotta, circumnavigando il Peloponneso, devastò la Laconia, mise in fuga la flotta spartana, ridusse in potere degli Ateniesi Corcira e aggiunse all'alleanza gli Epiroti, gli Atamani, i Cáoni e tutti i popoli rivieraschi della zona. 2 In seguito a ciò gli Spartani rinunciarono alla lunga contesa e spontaneamente cedettero la supremazia del mare agli Ateniesi e fecero la pace a queste condizioni: che gli Ateniesi fossero padroni del mare. Gli Attici furono così contenti di questa vittoria, che allora per la prima volta furono eretti a spese pubbliche altari alla Pace e fu istituito in onore della dea un lettisternio. 3 E perché rimanesse il ricordo di questo fatto memorabile, eressero a Timòteo nell'agora a spese pubbliche una statua. Un onore fino a questo momento toccato solo a lui, che il popolo, dopo aver innalzato una statua al padre, la concedesse anche al figlio. Così messa accanto a quella, la recente statua del figlio rinnovò l'antico ricordo del padre.
Timoteo era ormai avanti negli anni e aveva rinunciato alla vita pubblica, quando gli Ateniesi cominciarono ad essere stretti da guerre da ogni parte. Samo si era ribellata, l'Ellesponrto si era reso indipendente, Filippo il Macedone, già allora potente, andava creando mille intrighi: Carete, che doveva combatterlo, non ispirava abbastanza fiducia di costituire un baluardo contro di lui. 2. Menesteo, figlio di Ificrate e genero di Timoteo, viene investito del comando con l'ordine di partire per la guerra; gli si danno come consulenti il padre e il suocero, uomini di particolare esperienza e avvedutezza e dotati di tanta autorità che si poteva ragionevolmente sperare di riacquistare per mezzo loro il perduto. 3. Poichè essi erano già partiti alla volta di Samo, Carete, non appena lo seppe, perché non sembrasse che si facesse qualche operazione senza di lui. , vi si recò egli pure con tutte le sue forze. Ma accadde che, mentre si accostavano all'isola, si scatenasse una gran burrasca, per schivare la quale i due anziani comandanti giudicarono conveniente interrompere la navigazione. 4. Quello, invece, lasciandosi guidare dalla sua pazza temerarietà, come se la fortuna fosse alla sua mercè, non si piegò all'autorità dei piu' vecchi: giunse là dove voleva e mandò a dire a Timoteo e a Ificrate che lo raggiungessero. Ma l'impresa gli andò male, tanto che dovette tornare alla base di partenza con parecchie navi in meno. Mandò allora una relazione ufficiale ad Atene , affermando che la conquista di Samo gli sarebbe stata cosa facile se Timoteo e Ificrate non lo avessero piantato in asso. 5. Il popolo, irascibile, sospettoso e di conseguenza volubile, ostile e invidioso - anche la potenza era considerata una colpa- li richiama in patria e li mette sotto inchiesta per tradimento. In tale processo viene condannato Timoteo e l'ammenda è stabilita in cento talenti. Egli, esacerbato dall'odio della sua ingrata città, si stabilì a Calcide.
Dopo la sua morte, il popolo pentito del proprio giudizio, condonò i nove decimi della multa e ordinò al figlio Conone di pagare dieci talenti per rifare un certo tratto delle mura. In questo fatto si poté notare la instabilità della fortuna: il nipote fu costretto a rifare attingendo al patrimonio familiare con sommo disonore della famiglia quelle mura che il nonno Conone aveva rialzato alla patria con la preda dei nemici. 2 Della vita saggia e misurata di Timòteo potremmo produrre moltissime testimonianze, ci appagheremo di una soltanto, perché da essa facilmente si potrà arguire, quanto caro fosse ai propri concittadini. Quando da giovane sostenne ad Atene un processo, accorsero a difenderlo non solo gli amici e gli ospiti privati, ma anche Giasone tiranno della Tessaglia, che allora era il più potente di tutti. 3 Egli, che pur in patria non si riteneva sicuro senza guardie del corpo, venne ad Atene senza alcuna scorta ed apprezzò tanto il suo ospite, che preferii affrontare il pericolo di morire piuttosto che venir meno a Timòteo che difendeva il proprio onore. Tuttavia in seguito Timòteo per ordine del popolo gli mosse guerra; ritenne più sacri i diritti della patria che quelli dell'ospitalità. 4 Questa fu l'ultima epoca dei grandi generali ateniesi, Ificrate, Cabria, Timòteo: dopo la loro morte, nessun comandante in quella città fu degno di memoria. 5 Vengo ora all'uomo più forte e saggio di tutti i barbari, se si eccettuano i due Cartaginesi, Amilcare e Annibale. 6 Di questo parlerò più a lungo, perché molte delle sue imprese sono poco note e quelle nelle quali ebbe un esito felice furono dovute non al numero dei soldati, ma alla sua grande sagacia, nella quale allora superava tutti: se esse non saranno spiegate ordinatamente, i fatti non potranno risultare chiari.
De Latinis Historicis.
ATTICO.
Tito Pomponio Attico, discendente da un'antichissima famiglia romana, mantenne sempre la dignità equestre ereditata dagli antenati. 2. Ebbe un padre oculato, indulgente e, per quelli che erano i tempi di allora, ricco e assai studioso delle lettere. Questi, siccome egli stesso amava gli studi, fece istruire il figlio in tutte le dottrine nelle quali deve essere istruito un giovane. 3. Il fanciullo poi aveva, oltre alla facilità di imparare, una meravigliosa dolcezza nella pronuncia, così che non solo imparava facilmente quanto gli veniva insegnato, ma anche lo esponeva in maniera eccellente. Per questo da giovane veniva considerato particolare tra i coetanei e si metteva in mostra piu' di quanto i nobili compagni di studi potessero sopportare di buon animo. 4. Pertanto, con la sua applicazione incitava tutti; tra costoro vi furono L. Torquato, C. Mario figlio, M. Cicerone: con i suoi modi li conquistò al punto che nessuno in avvenire fu a loro piu' caro.
Il padre mori presto. Ancor giovinetto, a causa della sua parentela con P. Sulpicio, che fu ucciso mentre era tribuno della plebe, non fu esente da un simile pericolo: infatti Anicia, la cugina di Pomponio, aveva sposato M. Servio, fratello di Sulpicio. 2.Pertanto, ucciso Sulpicio, come vide la città sconvolta dai tumulti di Cinna e che non gli era concessa la possibilità di vivere secondo la dignità del suo stato senza offendere l'una o l'altra delle due parti, perché gli animi dei cittadini erano divisi, parteggiando gli uni per il partito di Silla, gli altri per quello di Cinna, ritenendo quella una circostanza adatta per attendere ai suoi studi, si recò ad Atene. Questo non gli impedì però di aiutare con i suoi mezzi Mario il giovane, che era stato dichiarato nemico pubblico, a cui venne incontro con il denaro nel suo esilio. 3.E perché quel suo soggiorno all'estero non arrecasse un qualche danno al suo patrimonio, trasferì colà gran parte delle sue fortune. Qua visse in modo da essere sommamente ed a buon diritto caro a tutti gli Ateniesi. 4.Infatti, a parte la sua amabilità, che ebbe grande fin dalla adolescenza, spesso con le sue sostanze venne in soccorso della loro pubblica povertà. Quando infatti si trovavano nella necessità di spegnere un debito con un nuovo prestito e non riuscivano ad aver condizioni eque di interesse, sempre intervenne personalmente ed in modo tale da non pretendere da loro né interesse iniquo né da permettere che il loro debito durasse più a lungo di quanto fosse stato stabilito. 5.L'una e l'altra cosa era loro salutare: infatti né permetteva con proroghe che il loro debito si consolidasse, né che crescesse con l'accumulo degli interessi. 6.Accrebbe questo suo servigio anche con un'altra liberalità; infatti donò frumento a tutti, in modo tale che a ciascuno toccassero sei moggi di grano: una misura che ad Atene è chiamata medimno.
Qui si comportava in modo tale, da apparire agli infimi uno di loro, ai maggiorenti un loro pari. Per la qual cosa, avvenne che a lui concedessero tutte le pubbliche onorificenze che potevano e volessero dargli la cittadinanza: ma lui declinò il beneficio perché, secondo l'interpretazione di alcuni, si perde la cittadinanza romana, quando se ne prende un'altra. 2.Per tutto il tempo che rimase là, si oppose a che gli venissero innalzate statue di sorta; partito, non poté impedirlo. Così collocarono alcuni suoi ritratti nei luoghi più sacri: lo ritenevano ispiratore e protagonista in tutti gli affari dello Stato. 3.Pertanto questo fu un primo dono della sorte: l'essere nato proprio nella città che era la sede del dominio del mondo, ed avere la stessa per patria e dimora; ma fu un segno della sua saggezza il fatto che recatosi in una città che superava tutte per antichità, civiltà e scienza, seppe da essa farsi amare quanto nessun altro.
Quando Silla nel suo ritorno dall'Asia giunse qua4~ per tutto il tempo che vi si trattenne, volle presso di sé Pomponio, conquistato dalla gentilezza e dalla cultura del giovane: parlava il greco così bene da sembrare nato in Atene; ma, nella sua conversazione latina, vi era tanta dolcezza che era chiaro che possedesse una certa quale grazia naturale, non acquisita. Recitava poi poesie greche e latine con una perfezione insuperabile. 2.Per tutti questi motivi Silla lo volle sempre accanto a sé e desiderava portarlo con sé. E mentre cercava di convincerlo: "Ti prego", gli disse Pomponio, "di non volermi portare contro quelli a causa dei quali dovetti lasciare l'Italia per non prendere con loro le armi contro di te". Ma Silla lodò molto lo scrupolo leale del giovane, e partendo ordinò che fossero trasferiti a lui tutti i donativi che aveva ricevuto ad Atene. 3.Qui rimase molti anni, attendendo al patrimonio familiare tanto quanto è dovere di un oculato capo di famiglia, dedicando tutto il resto del tempo alla cultura o allo Stato ateniese; ma ebbe modo di prestare i suoi servigi anche agli amici di Roma. 4.Infatti andò più volte alle loro campagne elettorali e non mancò quando si trattò qualche problema particolarmente importante. Per esempio a Cicerone mostrò una fedeltà straordinaria in tutti i suoi gravi frangenti; e quando questi lasciò la patria per l'esilio, gli fece dono di duecentocinquantamila sesterzi. 5.Quando la situazione a Roma fu tornata tranquilla, vi fece ritorno sotto il consolato, mi pare, di L. Cotta e Lucio Torquato; alla sua partenza lo accompagnò tutta la popolazione ateniese dimostrando con le lacrime il dispiacere del futuro rimpianto.
Aveva come zio materno Q. Cecilio, cavaliere romano, amico di L. Lucullo, uomo ricco, ma di carattere piuttosto scontroso: ebbe tanto rispetto per il suo carattere rude che riuscì a conservarsi fino all'estrema vecchiaia la sua benevolenza senza alcun contrasto, mentre nessuno riusciva a sopportarlo. Per tale motivo raccolse il frutto della sua benevolenza. 2. Cecilio, infatti, in punto di morte lo adottò nel testamento e lo nominò erede di tre quarti della sua fortuna: da tale eredità ricevette circa dieci milioni di sesterzi. 3. La sorella di Attico aveva sposato Q. Tullio Cicerone e tale matrimonio lo aveva assecondato M. Cicerone, del quale era profondamente amico fin da quando avevano studiato insieme; molto piu' amico che di Quinto, sì che si può sostenere che nell'amicizia vale piu' l'affinità di carattere che la parentela. 4. Inoltre era grande amico di Q. Ortensio, che in quel periodo aveva il primato dell'eloquenza, sì che non si poteva capire chi dei due lo amasse di piu', se Cicerone o Ortensio; inoltre, cosa molto difficile, faceva in modo che non sorgesse gelosia alcuna in quelli tra i quali c'era competizione per una così grande lode e che lui stesso fosse il legame tra tali uomini.
Nella politica si comportò in modo tale da essere ed essere ritenuto sempre del partito degli ottimati, senza però lasciarsi trascinare nei flutti civili, perché riteneva che chi si fosse abbandonato a questi, non fosse padrone di sé più di quelli che fossero sbattuti dai flutti del mare. 2.Non concorse alle pubbliche cariche, quantunque gli fossero aperte e per il suo prestigio personale e per il suo rango sociale, perché, nella dilagante corruzione della campagna elettorale né vi si poteva concorrere né si potevano ottenere secondo il costume dei maggiori, osservando le leggi, né si poteva senza pericolo governare secondo il bene dello Stato, essendo corrotti i costumi dei cittadini. 3.Non si presentò mai ad un'asta pubblica. Non fu mai in alcun appalto né garante né assegnatario. Non accusò nessuno ne per sua iniziativa né per sottoscrizione: non fini mai in giudizio per i suoi affari privati; non subì alcun processo.4. Accettò le prefetture che gli vennero offerte dai molti consoli e pretori, ma fece in modo di non accompagnare nessuno nella provincia, pago dell'onore e trascurando il vantaggio del suo patrimonio; tanto che non volle accompagnare in Asia neppure Q. Cicerone, quantunque potesse avere con lui la qualifica di legato. Riteneva infatti che fosse disdicevole per lui, una volta che aveva rifiutato di esercitare la pretura, di essere del seguito del pretore. 5.Ed in ciò badava non solo alla sua dignità personale, ma anche alla sua tranquillità, evitando persino il sospetto di incriminazioni. Avveniva così che il suo ritegno fosse più gradito a tutti, vedendo che esso era da attribuire al suo senso del dovere, non alla speranza ed al timore.
Scoppiò la guerra civile di Cesare quando lui aveva circa sessanta anni. Si valse dell'esenzione dovuta all'età e non si mosse mai dalla città per andare in qualche luogo. Offrì del proprio patrimonio quanto era necessario ai suoi amici che raggiungevano Pompeo. Non offese lo stesso Pompeo , suo parente. 2. Da lui non ricevette alcun vantaggio, come altri che grazie a lui avevano accumulato ricchezze; di costoro alcuni seguirono molto malvolentieri l'esercito, mentre altri restarono a Roma con sua grandissima indignazione. 3. Il retto agire di Attico, inoltre, riuscì tanto gradito a Cesare che, quando fu vincitore, esigendo da privati cittadini del denaro per mezzo di lettere, ad Attico non solo non diede fastidi, ma dall'accampamento di Pompeo gli rinviò il figlio di sua sorella e Q. Cicerone. In tal modo, con il solito stile di vita, evitò nuovi pericoli.
Dopo l'uccisione di Cesare, [segui quel periodo in cui] lo Stato pareva nelle mani di Bruto e di Cassio e che tutti i cittadini avessero abbracciato il loro partito. 2.Egli fu in rapporti tali con M. Bruto che quel giovane non ebbe con alcun coetaneo miglior dimestichezza che con questo vecchio e non solo lo aveva come primo consigliere, ma anche suo commensale. 3.Da certuni fu proposto che i cavalieri romani costituissero un fondo privato per gli uccisori di Cesare: ritennero che ciò si potesse fare facilmente, se i rappresentanti più in vista di quell'ordine avessero recato il denaro. Così Attico fu fatto chiamare da C. Flavio, amico di Bruto, perché volesse farsi promotore di questa iniziativa. 4.Ma lui che riteneva che agli amici si devono fare favori a prescindere dallo schieramento politico e che si era sempre tenuto lontano da tali maneggi, rispose: se Bruto avesse voluto approfittare delle sue sostanze, poteva servirsene, finché ce ne fossero; ma lui di tale iniziativa né avrebbe parlato con nessuno né si sarebbe associato con nessuno. Così quel gruppo unanime si sciolse per il dissenso di lui solo. 5.Non molto dopo cominciò a prevalere Antonio, sì che Bruto e Cassio, abbandonato il governo delle province che erano state loro assegnate per pura formalità dal console", vista la situazione disperata, partirono per l'esilio. 6.Attico che a quel partito, quando era potente, non aveva voluto versare contributi insieme con altri, a Bruto sconfitto e che lasciava l'Italia fece avere in dono centomila sesterzi; ed ancora, pur in sua assenza, gliene fece dare trecentomila in Epiro. Così facendo né adulò il potente Antonio né abbandonò i disperati.
Seguì la guerra combattuta presso Modena. A proposito della quale se io lo dicessi soltanto prudente, direi meno di quanto dovrei, perché fu piuttosto un indovino, se si deve chiamare divinazione quella costante bontà naturale che non si lascia scuotere né indebolire da nessun evento. Antonio dichiarato nemico pubblico aveva abbandonato l'Italia; non aveva alcuna speranza di ritornarvi. .Non soltanto i nemici personali che allora erano potentissimi e tantissimi, ma anche coloro che passavano dalla parte degli avversari e speravano di poter trarre un qualche vantaggio dal recare offese a lui, perseguitavano i familiari di Antonio, ardevano dal desiderio di spogliare la moglie Fulvia di tutti i suoi beni, si preparavano addirittura a far fuori i figli. 3.Attico benché fosse intimo amico di Cicerone e amicissimo di Bruto non solo non li assecondò per nulla negli attacchi ad Antonio, ma anzi, per quanto poté, protesse i suoi intimi in fuga dalla città, li soccorse delle cose di cui avevano bisogno.4. A Publio Volumnío poi dette tanti aiuti che di più non gliene sarebbero potuti venire da un padre. Alla stessa Fulvia che era impegolata in tante cause e vessata da gravi minacce, prestò con tanta premura i suoi servigi, che essa non si presentò mai in giudizio senza Attico, il quale fu garante in tutti i suoi processi. 5.Anzi avendo essa, al tempo della buona fortuna, comprato un fondo da pagarsi a scadenza e non avendo potuto dopo la disgrazia trovare il denaro per il saldo, intervenne lui e le accreditò il denaro senza interesse e sulla parola, ritenendo massimo frutto l'essere riconosciuto memore e riconoscente e mostrando nello stesso tempo che egli era solito essere amico non della fortuna ma degli uomini. 6.E quando faceva queste cose nessuno poteva ritenere che egli agisse per opportunismo: a nessuno infatti passava per il capo che Antonio si sarebbe impadronito del potere. Anzi veniva cautamente rimproverato da alcuni ottimati suoi amici, perché sembrava di odiare troppo poco i cittadini malvagi. Ma egli ragionando con la sua testa badava a che cosa fosse per lui giusto fare piuttosto che non a quello che avrebbero approvato gli altri.
Improvvisamente la fortuna si ribaltò. Quando Antonio tornò in Italia tutti ritenevano che Attico corresse un grande pericolo per l'intima familiarità Con Cicerone e Bruto. 2.Pertanto poco prima dell'arrivo dei generali aveva smesso di apparire in pubblico, temendo la proscrizione e stava nascosto presso P. Volumnio, al quale, come abbiamo detto, aveva prestato poco prima il suo aiuto (tanto grande fu in quei tempi la mutabilità della fortuna che ora l'uno ora l'altro veniva a trovarsi o all'apogeo del potere o nel massimo pericolo) ed aveva con sé Q. Gellio Cassio suo coetaneo ed in tutto simile a lui. 3.Anche questo sia un esempio della bontà di Attico: il fatto che con lui che aveva conosciuto fanciullo alla scuola, visse tanto affiatatamente, che la loro amicizia crebbe fino all'età estrema. Ma 4.Antonio, sebbene fosse spinto da tanto odio contro Cicerone, da essere nemico non solo di lui ma anche di tutti i suoi amici e li volesse proscrivere, incoraggiato da molti, tuttavia fu memore del favore di Attico e informatosi dove fosse, gli scrisse di sua mano che non temesse e che andasse subito da lui: egli aveva infatti fatto togliere lui ed in grazia sua Canio dalla lista dei proscritti. E perché non incappasse in qualche pericolo, dato che la cosa avveniva di notte, gli mandò una scorta. 5.Così Attico, in quella situazione di grandissima trepidazione, fu di presidio non solo a sé ma anche a colui che aveva carissimo. Non chiese mai infatti a nessuno aiuto per la sua salvezza soltanto, ma per tutti e due, sì da esser chiaro che non voleva alcuna salvezza senza di quello. 6.E se viene esaltato con grandi lodi quel timoniere che salva la nave dalla tempesta e dagli scogli marini, perché non si dovrebbe lodare la singolare prudenza di chi attraversò incolume tante e tanto gravi tempeste civili?
Come fu salvo da tali sventure, non fece nient'altro che essere d'aiuto a quanti piu' potè con i mezzi di cui disponeva. Mentre la plebaglia ricercava i proscritti allettata dai premi dei decemviri, in Epiro non andò nessuno cui sia mancato qualcosa: a nessuno fu negata la possibilità di rimanere lì per sempre. 2. Anzi, dopo la guerra di Filippi e la morte di C. Cassio e di M. Bruto, prese a proteggere l'ex pretore L. Giulio Mocilla, suo figlio, Aulo Torquato e gli altri colpiti dalla medesima sorte e comandò che quanto necessario per loro fosse porato dall'Epiro a Samotracia. 3. Sarebbe difficile e inutile spiegare ogni cosa. Vogliamo solo che si capisca che la sua generosità non fu temporanea nè interessata. 4. Lo si può vedere dai fatti stessi e dalle circostanze, perchè non frequantò i favoriti dalla fortuna, ma aiutò sempre i bisognosi. Rispettò Servilia, madre di Bruto, non meno dopo la morte di lui di quando Bruto era potente. 5. In questo modo, usando liberalità non si attirò alcuna inimicizia perchè non offendeva nessuno e, se aveva ricevuto un qualche torto, preferiva dimenticarlo piuttosto che vendicarlo. Egli ricordava perennemente i benefici ricevuti; invece, quelli che aveva fatto li ricordava fino a che gli era riconoscente chi li aveva ricevuti. 6. Pertanto costui agì in modo tale che sembra giustamente detto: "Ad ognuno i propri costumi creano il destino". Ed egli prima del suo destino plasmò se stesso e badò a non fornire mai occasione di giusto rimprovero.
E proprio grazie a queste sue qualità, che M. Vipsanio Agrippa, legato da intima amicizia al giovane Cesare, quantunque e per la sua influenza e per il potere di Cesare potesse aspirare a qualsiasi parentado, preferì senz'altro la parentela con lui e la figlia di un cavaliere romano alle nozze con fanciulle della migliore nobiltà. 2. E mediatore di queste nozze fu (non va tenuto nascosto) M. Antonio, il triunviro per il riordinamento dello Stato. Con il favore di questo avrebbe potuto ingrandire le sue proprietà, ma si tenne tanto lontano dalla cupidigia del denaro, che in nessuna occasione fece ricorso ad esso, se non per scongiurare i pericoli o i danni degli amici. 3.Questo rifulse proprio durante il periodo delle proscrizioni. Per esempio, i triunviri avevano venduto, secondo il costume con cui si operava allora, i ricchi possedimenti in Italia del cavaliere romano L. Saufei suo coetaneo, il quale preso dalla passione per la filosofia dimorava in Atene da diversi anni; ebbene, grazie agli sforzi ed all'abilità di Attico, avvenne che Saufeio fosse informato dalla stessa notizia di aver perduto perduto il patrimonio e di averlo recuperato.4. M. Giulio Calido, che dopo la morte di Lucrezio e di Catullo credo di poter dichiarare senza tema di errore il poeta di gran .lunga più elegante prodotto dalla nostra generazione e non meno persona onesta ed istruita nelle migliori discipline, dopo le proscrizioni dei cavalieri, era stato inserito durante la sua assenza, a causa delle enormi ricchezze d'Africa, nella lista dei proscriti da P. Voluinnio prefetto del genio di Antonio, ma egli lo trasse fuori da lì. 5. E difficile giudicare se in quel suo intervento di allora sia stata per lui maggiore la fatica o la gloria, perché è noto che Attico quando gli amici erano in pericolo, si prese cura di loro sia che fossero presenti che assenti.
Ed egli non fu ritenuto meno bravo amministratore che cittadino. Infatti, quantunque fosse danaroso, nessuno fu meno avido di comprare di lui, meno smanioso di costruire. Non per questo però non ebbe una abitazione tra le migliori e non godette di tutte le comodità. 2.Infatti abitò la casa Tanfiliana sul Quirinale, lasciatagli in eredità dallo zio materno, la cui bellezza era costituita non tanto dall'edificio quanto dal bosco. La costruzione di per sé, fatta in tempi antichi, aveva più buon gusto che sfarzo; in essa non apportò alcun cambiamento, eccetto se fu costretto dalla vetusta. 3. Ebbe una servitù, se si guarda all'utilità, ottima, se all'apparenza, appena mediocre. Ne facevano parte schiavi eruditissimi, lettori ottimi e moltissimi copisti, sì che tra i suoi accompagnatori non c'era nessuno che non sapesse fare bene l'una e l'altra cosa; parimenti quanto mai capaci tutti gli altri artigiani, che richiede il buon funzionamento di una casa. 4. E nessuno di questi ebbe se non nato ed ammaestrato in casa; il che è segno non solo di parsimonia, ma anche di oculatezza. Infatti e il desiderare con misura quello che è desiderato dai più deve essere ritenuto proprio del parsimonioso ed il procacciarsi le cose piuttosto con la solerzia che con il denaro, è segno di non mediocre operosità. 5. Elegante, non magnifico; splendido, non sfarzoso; e tutto il suo zelo manifestava finezza, non sfarzo. Modesto l'arredamento e non eccessivo, sì da non dare nell'occhio né in un senso né nel l'altro. 6. E non passerò sotto silenzio, quantunque ciò possa sembrare ad alcuni di poco interesse, che benché fosse cavaliere romano tra i più ricchi ed invitasse a casa sua con grande liberalità uomini di tutte le classi, egli era solito portare in uscita sul registro dei conti giornalieri non più di tremila assi e in ugual misura per ogni mese. 7. E questo lo diciamo non per sentito dire, ma per conoscenza diretta; spesso infatti in grazia dell'amicizia siamo stati partecipi dei suoi affari domestici.
Nei banchetti offerti da lui nessuno udì altro intrattenimento che quello del lettore, cosa che io ritengo piacevolissima; e non si è mai mangiato a casa sua senza qualche lettura, sì che i convitati non godessero nello spirito meno che nel corpo: 2. del resto invitava a pranzo quelli che avevano abitudini non diverse dalle sue. Pur avendo accumulato tanto denaro, nulla cambiò nel suo modo di vivere di sempre , nulla della sua condotta di vita; usò tanta moderazione che non visse meno splendidamente con i due milioni di sesterzi che aveva ereditato dal padre nè visse in modo piu' sfarzoso con dieci milioni di sesterzi di quanto aveva sempre fatto; seppe mantenersi con egual decoro in entrambe le situazioni. 3. Non ebbe alcun parco, nessuna villa sontuosa fuori Roma o al mare, eccetto i poderi di campagna presso Arezzo e a Mentana, ed ogni sua entrata proveniva dai possessi che aveva in Epiro e a Roma. Da ciò si può intuire che non era solito misurare l'importanza del denaro dalla quantità, ma dal modo di spenderlo.
Menzogne non le diceva né poteva sopportarle. Così la sua affabilità non era scevra da severità, né la sua serietà senza cordialità; sì che difficilmente si capiva, se gli amici lo amassero o rispettassero di più. Di qualunque cosa fosse richiesto, era molto cauto nel promettere, perché riteneva che fosse di persona non liberale ma leggera promettere quello che non si può mantenere. 2. Ma poi nel mantenere quello che avesse una volta accordato, metteva un tale impegno, da sembrare che trattasse non un affare affidato da altri, ma suo proprio. Mai ebbe a pentirsi di un impegno preso; riteneva infatti che in quella faccenda fosse in giuoco la sua riputazione, che era la cosa a cui teneva di più. 3. Così egli si trovò a dover trattare tutti gli affari dei Ciceroni, di M. Catone, di Q. Ortensio, di A. Torquato, inoltre di molti cavalieri romani. Dal che si può giudicare che non tanto per pigrizia, quanto a ragion veduta egli abbia evitato l'amministrazione dello Stato.
Della sua umanità non posso citare testimonianza maggiore del fatto che da giovane egli fu carissimo al vecchio Silla, da vecchio al giovane M. Bruto; con i suoi coetanei poi A. Ortensio e M. Cicerone, visse in modo tale che è difficile giudicare a quale età egli fosse più adatto. 2.Cicerone comunque lo amò in sommo grado, tanto che neppure il fratello Quinto gli fu più caro o più intrinseco.3. Di questo sono prova oltre i libri nei quali fa menzione di lui, che sono di pubblico dominio, gli undici volumi di lettere inviategli, dal tempo del suo consolato fino agli ultimissimi tempi: chi le legge, non sentirà molto il bisogno di una storia organica di quei tempi. 4. Passioni dei capi, vizi dei capitani, rivolgimenti dello Stato, sono stati così accuratamente narrati che nulla in esse è rimasto nascosto e si può facilmente ritenere che la saggezza sia una sorta di divinazione. Cicerone infatti predisse non solo che sarebbero avvenute quelle cose che accaddero quando era vivo, ma anche presagì, come profeta, quelle cose che si stanno avverando adesso.
Perchè poi ricordare altre cose sugli affetti familiari di Attico? Poichè ho sentito che lui si vantava, e a ragione, proprio in occasione del funerale di sua madre, che seppellì a novanta anni quando lui ne aveva sessantasette, di non essersi mai dovuto riconciliare con la madre e di non essere mai stato in lite con la sorella, che egli era quasi coetanea. 2. Il che è prova o che tra loro non sorse mai alcun contrasto o che lui fu di tale indulgenza verso i suoi familiari da ritenere illecito adirarsi con quelli che doveva amare. 3. Lo fece non soltanto per inclinazione naturale, benchè tutti siamo soggetti ad essa, ma anche per educazione: infatti ebbe così impressi gli insegnamenti dei principali filosofi da servirsene per condurre la propria vita, non per vana ostentazione.
Fu anche scrupoloso seguace dei costumi degli antenati e amante dell'antichità, la cui conoscenza egli acquisì con tanto zelo, da esporla tutta quanta nel volume nel quale ha messo in ordine la successione delle magistrature.2. Non c'è infatti legge, né pace, né guerra, né fatto illustre del popolo romano che non si trovi lì registrato nel suo ordine cronologico; e, il compito più difficile, vi inserí l'origine delle famiglie in modo tale che da la possiamo conoscere le varie propaggini degli uomini illustri. 3. Lo stesso fece anche separatamente in altri libri, sì che su richiesta di M. Bruto illustrò per ordine la famiglia Giunia, dal capostipite fino all'età nostra, registrando i discendenti di ciascuno, le cariche ricoperte e le date; 4.parimenti su richiesta di Marcello Claudio fece della famiglia dei Marcelli; di Scipione Cornelio e di Fabio Massimo, dei Fabi e degli Emili. Per coloro che hanno una qualche bramosia di conoscere gli uomini illustri, nulla può essere più gradito di questi libri. 5.Toccò anche la poesia, crediamo, tanto per non essere privo della sua dolcezza. Infatti trattò in versi di coloro che per gloria e per grandezza d'imprese si distinsero tra gli altri del popolo romano in questo modo: 6.sotto i ritratti dei singoli, illustrò in non più di quattro o cinque versi le imprese e le magistrature di ognuno: si può a mala pena credere, che cose tanto importanti potessero essere esposte in maniera così concisa in così pochi versi. Rimane anche un libro scritto in greco sul consolato di Cicerone.
Quanto esposto fin qui fu da noi pubblicato quando Attico era ancora vivo. Ora che la fortuna ha voluto che gli fossimo superstiti, esporremo le altre cose e per quanto potremo, con esempi pratici dimostreremo ai lettori, come abbiamo indicato sopra, che il più delle volte sono i costumi a plasmare la fortuna di ognuno. 2.Infatti costui, pago dell'ordine equestre in cui era nato, si imparentò con il generale, figlio del Divino, dopo che era entrato già da tempo in amicizia con lui, per nessun altro motivo che per la signorilità dei suoi modi, con la quale aveva conquistato i maggiori esponenti della città, pari a quello per prestigio, inferiori per fortuna. 3.Tanta prosperità infatti accompagnò Cesare, che nulla a lui negò la fortuna che avesse prima elargito a qualche altro e gli procacciò quello che finora nessun Romano ha potuto conseguire. 4.Ad Attico nacque una nipote da Agrippa, a cui aveva dato in sposa la figlia in prime nozze. Cesare, quando questa aveva appena un anno, la destinò in sposa al figliastro Ti. Claudio Nerone, figlio di Drusilla; questo legame suggellò la loro amicizia e rese più frequenti i loro rapporti.
Comunque già prima di questi sponsali, Ottaviano non solo, trovandosi lontano da Roma, non mandò mai lettere a nessuno dei suoi senza scrivere anche ad Attico per dirgli che cosa facesse, che cosa leggesse soprattutto ed in quali luoghi fosse e quanto a lungo vi sarebbe rimasto; 2.ma anche quando era in città ed a causa degli infiniti suoi impegni meno spesso di quanto volesse godeva della compagnia di Attico, non passò giorno, senza grave motivo, che non gli scrivesse o per chiedergli qualche informazione sulla storia antica ora per sottoporgli qualche questione di poesia, qualche volta scherzando per strappargli lettere più lunghe. 3.E così fu che, stando il tempio di Giove Feretrio sul Campidoglio fondato da Romolo, scoperchiato per la vetustà e l'incuria, sul punto di crollare, per suggerimento di Attico, Cesare lo fece restaurare. 4.Né meno quando era assente veniva onorato da Antonio con le sue lettere, tanto che quello, dalle terre più lontane, aveva cura di informare dettagliatamente Attico di quello che faceva. 5.Che cosa significhi ciò, valuterà più facilmente chi potrà rendersi conto di quanta saggezza richiedesse mantenere i contatti e la benevolenza di coloro tra i quali intercorreva non solo la gara per il supremo potere, ma anche tanta ostilità, quanta era fatale che ci fosse tra Cesare ed Antonio, dal momento che sia l'uno che l'altro desiderava essere il capo non solo della città di Roma, ma di tutto il mondo.
Giunse così al compimento di settantasette anni e fino all'estrema vecchiaia crebbe non meno in dignità che in simpatia e ricchezza (infatti ottenne molte eredità per nessun'altra ragione che per la bontà) e godette anche di così prospera salute che per trenta anni non ebbe bisogno di medicine; 2.quando incappò in una malattia, a cui all'inizio né lui né i medici dettero importanza: credettero infatti che si trattasse di una colica, per la quale si proponevano rimedi semplici ed efficaci. 3.In questa trascorse tre mesi, senza dolori eccetto quelli che riceveva dalle cure, ma poi repentinamente il morbo scoppiò violento nel basso intestino sì che verso la fine vennero fuori nei fianchi fistole purulente. 4.E prima che gli capitasse questo, quando si accorse che i dolori crescevano ogni giorno più e si erano aggiunti gli attacchi di febbre, mandò a chiamare il genero Agrippa e con lui L. Cornelio Balbo e Sesto Peducèo. 5.Quando li vide giunti, reggendosi sul gomito, disse: "Quanta premura e diligenza io abbia messo in opera in questo periodo per difendere la mia salute, avendo voi per testimoni, non è necessario che io stia a ricordare con molte parole. Vi ho dimostrato, spero, che non ho tralasciato nulla che servisse alla mia guarigione; allora rimane che sia io stesso a provvedere a me. 6.Non ho voluto tenervi nascosto questo: ho deciso di smettere di alimentare la malattia. In questi giorni, con il cibo che ho preso, ho prolungato la vita solo per accrescere i dolori, senza speranza di guarigione. Perciò io chiedo a voi prima che approviate la mia decisione; poi che non cerchiate di impedirla con inutili esortazioni".
Disse queste parole con tanta fermezza di voce e di volto da sembrare che migrasse non dalla vita, ma da una dimora ad un'altra, 2. mentre Agrippa piangendo e baciandolo lo pregava e lo scongiurava che non affrettasse a sé quello che la natura imponeva e, poiché anche allora poteva superare la crisi, si mantenesse per sé e per i suoi; ma egli rese vane le sue preghiere con la sua taciturna ostinazione. 3.Così non prese cibo per due giorni e d'improvviso la febbre sparì e la malattia cominciò a migliorare; ma non per questo rinunziò a mandare ad effetto il suo proponimento. Così cinque giorni dopo aver preso quella decisione, il giorno prima delle calende di aprile, essendo consoli Gn. Domizio e Gaio Sosio, spirò. 4. Fu portato al funerale su una lettiga comune, come aveva egli stesso indicato, senza alcuna pompa funebre, accompagnato da tutti i buoni, tra la folla innumerevole del volgo. Fu sepolto lungo la via Appia, al quinto miglio, nel monumento di Q. Cecilio, suo zio materno.
CATONE.
M. Catone, nato nel municipo di Tuscolo, da giovinetto, prima di dedicarsi alla carriera politica, visse nella Sabina, perché là aveva un podere lasciatogli dal padre. Da qui, per esortazione di Lucio Valerio Flacco, che ebbe come collega nel consolato e nella censura, come era solito raccontare l'ex censore M.Perpenna, si trasferì a Roma e cominciò a frequentare il foro. 2. Prestò il primo servizio militare all'età di diciassette anni. Sotto il consolato di Quinto Fabio e Marco Claudio fu tribuno dei soldati in Sicilia. Quando ritornò da lì militò nell'esercito di Gaio Claudio Nerone e la sua opera fu molto apprezzata nella battaglia nei pressi di Senigallia in cui cadde Asdrubale, fratello di Annibale. 3. Come questore Catone fu assegnato al console Publio Cornelio Scipione l'Africano, con il quale non visse secondo le esigenze della carica: non andò d'accordo con lui per tutta la vita. 4. Fu eletto edile della plebe insieme a Gaio Elvio. In qualità di pretore ottenne come provincia la Sardegna, dalla quale tempo prima, quando era questore, tornando dall'Africa, aveva condotto con sè a Roma il poeta Quinto Ennio. Ritengo questo di non minor conto di qualsiasi splendido trionfo riportato in Sardegna.
Esercitò il consolato insieme con L. Valerio Flacco, ottenne in sorte la provincia della Spagna Citeriore e da lì riportò un trionfo. 2. E poiché si tratteneva colà troppo a lungo, P. Cornelio Africano, console per la seconda volta, di cui nel precedente consolato era stato questore, voleva cacciarlo dalla provincia e subentrargli lui stesso; ma non poté ottenere questo per mezzo del senato, quantunque certo Scipione avesse il primo posto tra i cittadini, perché allora lo Stato veniva governato non sulla base del potere personale, ma sul diritto. Per la qual cosa adirato col senato, terminato il consolato, rimase nella città come privato cittadino. 3. Catone, da parte sua, fatto censore insieme con lo stesso Flacco - esercitò con severità questo suo mandato. Infatti e prese provvedimenti contro molti nobili e aggiunse all'editto molte nuove disposizioni perché fosse contenuto il lusso, che già allora cominciava ad imperversare. 4. Per circa ottanta anni, dalla giovinezza fino all'età estrema, non smise mai di suscitarsi inimicizie per la causa dello Stato. Citato in giudizio da molti, non solo non ne subì alcuna diminuzione nella stima, ma, finché visse, crebbe nella lode delle sue virtù.
In tutti i campi fu di straordinaria operosità: infatti fu sia esperto agricoltore sia abile avvocato sia grande generale sia oratore valente sia molto amante degli studi letterari. 2. Sebbene avesse intrapreso il loro studio piuttosto vecchio, tuttavia fece tali progressi che non si può facilmente trovare nè di storia greca nè di quella romana un fatto che gli sia rimasto sconosciuto. Fin dalla giovinezza compose orazioni. Da vecchio cominciò a scrivere opere storiche. 3. Di queste ci sono sette libri. Il primo contiene le imprese dei re del popolo romano, il secondo e il terzo da dove ogni città italica abbia avuto origine: pare che sia questa la ragione per cui Catone abbia chiamato tutti i libri "Origini". Nel quarto c'è la prima guerra punica, nel quinto la seconda. 4. E tutti questi fatti sono esposti per sommi capi. E allo stesso modo continuò a trattare le rimanenti guerre fino alla pretura di Servio Galba, che depredò i Lusitani: e di queste guerre non nominò i condottieri: registrò i fatti senza i nomi. Negli stessi libri espose quei fatti che in Italia e in Spagna erano o sembravano degni di ammirazione; in questi libri sono evidenti impegno e diligenza, nessuna erudizione.5. Della vita e dei costumi di Catone ho esposto piu' elementi in quel libro che ho scritto a parte su di lui su richiesta di Tito Pomponio Attico. Perciò rimando gli studiosi di Catone a quell'opera.