Fedro

vita - opera - considerazioni

 

 

 

 

Fedro

(Tracia o Macedonia, 15 ca a.C.? – 50 ca d.C.?)

 

 

Vita.

Schiavo affrancato da Augusto. F. nacque durante il principato di Augusto, ma fu attivo sotto Tiberio, Caligola e Claudio. E' uno dei pochissimi autori di nascita non libera nella letteratura della I età imperiale: egli era infatti uno schiavo di origine tracia (ma dovette avere una discreta educazione letteraria, se è vero - come egli stesso confessa - che da fanciullo legge Ennio), e nei manoscritti delle sue opere è citato come liberto di Augusto (sembra, quindi, che fosse stato liberato proprio dall'imperatore, da cui avrebbe ricavato il prenome Gaio e il nome Giulio: ma non conosciamo le circostanze dell'affrancamento).

Guai col potere costituito, morte nella quasi dimenticanza. Da accenni nella sua stessa opera (prologo del III libro), si evince che il poeta sarebbe stato inoltre perseguitato da Seiano, il braccio destro di Tiberio, rimasto offeso da allusioni colte in alcuni scritti. Dopo la condanna, F. soffrì umiliazioni e, probabilmente, la povertà: visse abbastanza a lungo, ma - oltre ciò - nulla di più certo si sa della sua vita. Segno, questo, che la sua produzione evidentemente non ebbe molta fortuna ai suoi tempi.

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Opera.

Il "corpus" delle favole. Sotto il nome di F., ci sono tramandate poco più di 90 "Favole" [vers.lat] [trad.it], divise in 5 libri, e tutte in senari giambici. Sono sicuramente sue anche le circa 30 favole raccolte nella cosiddetta "Appendix Perottina", che prende nome dall'umanista Niccolò Perotti, curatore della raccolta. Di altre ci resta la parafrasi in prosa.

Il I libro (31 favole) fu scritto subito dopo la morte di augusto; il II (8) durante il ritiro di tiberio a Capri; il III (19) il IV (25) e il V (10) sotto Caligola e sotto Claudio. La scarsa estensione del II e del V libro è forse un indizio che la raccolta, così come ci è giunta, è in verità estratto di una più ampia.

La struttura. Nonostante la (relativa) varietà di situazioni e personaggi presenti nelle favole, la struttura di queste segue, generalmente, strutture ordinate da "passaggi" quasi obbligati; ecco, ad es., come gli alunni della Scuola Media "N. Ricciotti" di Frosinone [link] hanno chiaramente schematizzato la struttura di tre notissime favole:

Il lupo e l'agnello: 1 - Azione immediata dei personaggi; 2 - Contrasto di carattere; 3 - Assenza di aspetto fisico; 4 - Ruolo indistinto tra protagonista e antagonista; 5 - Successione alternata di attacco e di difesa attraverso il dialogo; 6 - Scioglimento violento del contrasto; 7 - Morale espressa.

Il lupo e il cane: 1 - Accenno di situazione iniziale; 2 - Descrizione funzionale dei personaggi; 3 - Ruolo indistinto tra protagonista ed antagonista; 4 - Confronto dialogico; 5 - Scoperta della verità attraverso il dialogo; 6 - Morale.

La vacca, la capretta, la pecora e il leone: 1 - Morale espressa; 2 - Situazione iniziale; 3 - Azione dei personaggi; 4 - Prepotenza e violenza giustificate attraverso la parola; 5 - Umiltà e sottomissione dimostrate attraverso il silenzio; 6 - Morale espressa.

Orbene, con buona approssimazione, potrei affermare che quasi tutte le favole presenti nel "corpus" seguono praticamente le scansioni suddette.

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Considerazioni.

La favola in Grecia e a Roma. Il genere della favola, prima di F., non aveva una grande tradizione (almeno scritta) nella letteratura latina: la sua nascita - almeno per quanto riguarda la sua forma scritta - coincide praticamente con la produzione del greco Esopo (VI sec. a.C.), una produzione invero già "matura". Essa constava di storielle, in prosa, che presentavano spunti umoristici e pillole di saggezza, e a cui erano allegate una premessa o una postilla che spiegavano il tema della favola o la morale che si poteva trarre da essa. Tipico del genere era, poi, l'uso di animali come maschere, personaggi umanizzati dotati di una psicologia fissa (evidentemente, l'uso di questi "tipi" animaleschi doveva essere ritenuto meno compromettente, su un fronte casomai "politico": ma ciò fu solo in parte esatto, se è vero che lo stesso F., nonostante avesse "ereditato" almeno all'inizio questo accorgimento, incorse comunque nelle ire di Seiano, come detto).

A Roma, con molta probabilità, questa materia originaria dovette avere, almeno all'inizio, una diffusione esclusivamente "orale", e soprattutto fra gli strati subalterni, nonché - a livello letterario più "nobile" - attraverso una vera e propria "contaminazione" col genere satirico, almeno secondo istruttivi indizi su Ennio e Lucilio, e secondo l'opera dello stesso Orazio. Proprio a quest'ultimo, infatti, risalgono - se vogliamo - le prime vere testimonianze di favole scritte in latino: il famoso apologo del topo di città e del topo di campagna, nonché richiami alle favole della rana e del bue, del cavallo e del cervo, della volpe e della donnola, contenute negli "Epodi" e soprattutto, manco a dirlo, nelle "Satire".

E' a questo punto d'arrivo che si colloca la figura e l'opera di F., che da tutti quei prodromi prenderà spunti, temi (morali), situazioni e personaggi, però rielaborandoli ed adattandoli - come vedremo - alla propria personalità e al proprio tempo.

Limiti palesi di F. … Ora, F. ha una posizione sociale modesta e come poeta non si può definire veramente un virtuoso: pratica un genere letterario ritenuto minore, anch'esso marginale rispetto alle grandi corrente dell'età imperiale. Come narratore, invero, egli poi inventa ben poco: prese una per una, le sue favole sono poco originali, indebitate con la tradizione esopica e con una raccolta di favole di età ellenistica (questo, soprattutto nel I libro); quanto alla rielaborazione letteraria, nessuna delle favole di F. può superare le opere dei grandi poeti. torna all'inizio

… ma, altresì, suoi grandi meriti: la favola assurge a dignità letteraria. Tuttavia, a questo umile artigiano tocca una priorità storica importante: è il primo autore che ci presenta una raccolta di temi favolistici, concepita come autonoma opera di poesia, destinata alla lettura. Il merito del nostro sta, infatti, nell'impegno costante e metodico per dare alla favola una misura, una regola, una voce ben definita e riconoscibile: egli, insomma, pur definendosi come il continuatore di un genere già a suo modo "stabilizzato" da Esopo, tuttavia lo innova, ne dilata gli orizzonti e lo porta a perfezione, adattandolo alla tradizione culturale latina. Lo stesso F. è orgogliosamente consapevole di questo "traguardo", raggiunto ovviamente attraverso tappe difficili e progressive, com'è avvertibile, del resto, nel corso stesso dell'opera (da una più vincolata aderenza al modello verso una più spiccata e piacente originalità). Alla fine, il nostro favolista può ben affermare che le sue composizioni sono "Aesopias, non Aesopi", "esopiane, ma non di Esopo", ovvero composte secondo lo stile e i caratteri della favola esopica, ma non semplici traslitterazioni di quella.

Non solo. F. - rivoluzionariamente - volge la prosa favolistica in poesia, adottando il senario giambico come metro per le sue composizioni: con questa scelta, egli si collega alla versificazione latina arcaica, mostrando - non senza una certa nota polemica contro i detrattori di quel genere, ostinati (come detto) a considerarlo "minore" - che la favola era ben degna di un tal illustre verso (tipico dell'alta commedia, con la quale del resto condivideva lo scopo: "risum movere", "far ridere") e di uno stile rigoroso e colto.

Componimenti "metaletterari". Queste sue riflessioni di poetica (sui rapporti con la tradizione e sui tempi e i modi della propria originalità), F. le affida a specifici componimenti, che all'interno della sua opera assumono funzione prettamente, come dire, "metaletteraria": è il caso, ad es., degl'importanti prologhi dei 5 libri e degli altrettanto importanti epiloghi dei libri II, III, IV.

Istanze sociali nelle favole. Le "morali" di F., e la stessa allegoria del mondo animale, poi, non sono soltanto mere espressioni del buon senso, bensì esprimono anche una mentalità sociale, ossia il punto di vista delle classi subalterne della società romana: egli è davvero l'unico a dare voce al mondo degli schiavi e degli emarginati, promuovendolo ad oggetto letterario; e non manca di accenni violentemente polemici, colpendo - nel suo stile quasi satirico - tipi di uomini e regole del vivere: perché le sue favole vogliono essere sì divertenti, ma insieme vogliono anche "istruire".

In questo, la sua opera contiene una forte istanza realistica (di "realismo comico", ovviamente) e a suo modo "ideologica"; anche se, a ben vedere, la sua ideologia esprime più che una vera protesta una rassegnata e amara consapevolezza: la consapevolezza che nel mondo sempre ha regnato, regna, e regnerà sempre incontrastata la legge del più forte e del più prepotente: agli umili, ai poveri, ai sottomessi non resta altro che provare ad eludere questa forza, per quanto possibile, con l'astuzia e con l'arguzia, cercando nella vita sempre il "men peggio". E proprio loro - gli schiavi, gli umili, gli emarginati - sono gl'ideali destinatari dell' "utilitaristica" produzione del favolista romano.

Temi, linguaggio e personaggi, fra tradizione ed originalità. Nelle favole, è quasi del tutto assente - invece - un realismo descrittivo e linguistico, anzi il loro mondo è piuttosto generico, il linguaggio asciutto e poco caratterizzato (ma è una "brevitas" che lo stesso autore annovera tra i suoi pregi). Non mancano tuttavia spunti di adesione alla realtà contemporanea: F., infatti - come già accennato - non si limita sempre alla tradizione della fiaba d'animali, e talora (soprattutto nei libri successivi al I) sembra inventare di suo, come nel racconto che ha per protagonista Tiberio; altrove ricava anche aneddoti dalla storia, seguendo anche una scelta oculata che rispettasse il criterio della "variatio". Così, non troviamo soltanto quegli animali-personaggi già assodati dalla tradizione (i più frequenti, e con un ruolo da dominatori, sono il lupo, la volpe, il cane, il leone, l'aquila, il serpente…), né le solite anonime figure umane (il ladro, i viandanti, il brigante, il buffone, il contadino…), ma anche personaggi storici (Simonide, il poeta Menandro, il tiranno Demetrio, Cesare, Socrate) o mitologici (Prometeo, Giove, Giunone), nonché lo stesso Esopo, assurto a simbolo dell'arguzia popolare. Il "padre fondatore" del genere lascia - qui - quasi la sua palma a F., divenendo poco più che un semplice personaggio fra gli altri, anche se di rilievo.

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