le mie poesie

le mie poesie

Imperfezioni.
Sì che lo ricordo il faro
quegli alberi troppo giovani per darci ombra
il tuo nome si stendeva alla sera
quasi
una scia immortale
e le sfuriate sul prato
sulla bici che non avevo,
e tu che m‘avanzavi uno spicchio di sella
tu più grande di me di età e di cuore
senza farmi sentire povero.
Io venivo da gente semplice
e mio padre non aveva
abbastanza di quanto promesso
alla giovane sposa.
Ma era lo stesso.
Tutto lì si confondeva
alla luce polverosa del sole radente
al faro, lì ogni speranza è uguale a un ricordo
e non c’era differenza
tra il visibile e il vissuto.
Eppure oggi
che ho quasi trent’anni
e poca voglia e poche lire in tasca
soltanto oggi riesco a ricordare,
tra il suono e il rumore
del richiamo,
il volto di tua madre in lontananza il tuo di oggi.

Passi.
Nell’autunno senza foglie e senza fine
di Milano
ho lasciato il tuo ritratto,
la tua mano di gigante
nella mia, la tua mano d’impiegato postale
e i miei occhiali che riuscivano
già a leggere parole tra le righe.
Mi facevi divertire
con le storie che inventavi
come se le raccontassi ad un’amante
e non a me, tuo figlio.
Oggi
ogni cosa è un tuo segnale
che rimane sopravvive
tra le cose che si fanno
da mattino a sera tardi.
E non è solo per tutto ciò che non mi hai dato
- essere uomo è una conquista solitaria -
è per quel bisogno di star bene e di star soli
che mi serrava il cuore al prenderti la mano.
In fondo anch’io
proprio come te ti ho amato
di un amore silenzioso e senza foglie
quasi come
quell’autunno senza fine di Milano.

[T’ho odorata sentita vista...].
T’ho odorata sentita vista
ridere per le scale
vicina all’ascensore
impacciata dalla sporta sotto il braccio
a spingere il bottone
ad ogni scorsa
un oggetto ruzzolava
il portachiavi il braccialetto
la tua bellezza disponibile indisponente
così maledettamente
pret-à-porter
coi tuoi occhi accesi da piccola soubrette
chiedeva indisposta aiuto,
e i tuoi sedici anni insaporivano il mattino.
Ti ho scritte centinaia o migliaia
di parole in risposta
e poi ho stracciato tutto
e una strana insofferenza va e viene:
sarà per la mia età o per il tuo sagrato
che non è più avuto
o già non mi appartiene.

[L’alba corre veloce...].
L’alba corre veloce
la luce
ghiaccia le cose
con una distanza
che non le protegge.
E’ la vita, la semplice legge
che si rinnova,
un tintinnìo di mattino
che frange vetrate
il solito raggio, sulla strada
scorrono via rumori di automobili rade
il primo affacciarsi di voci, l’antica
premura: il primo che prenda coraggio
e poi tutti dietro.
Anch’io vorrei alzarmi
per vivere
da umana formica.

[Non dirò nulla...].
Non dirò nulla,
la verità è
un fatto
così poco attraente.
A me
piuttosto
degli uomini
piace interessa l'inganno
il marcio la gogna
la malvagia poesia
dolorosa
che fermentano dentro.
Tutto il resto
è povera cosa
scivoli via
per scoli di fogna.

[Stavo a guardare...].
Stavo a guardare
stupìto
la mosca
attaccarsi alla vita
(o viceversa)
anche senz’ali
frenetica
nell’atto del volo
che non spiccava
e io
che penso alla morte
quasi ogni giorno
con dolceamaro pensiero
al mio cammino interrotto di uomo
la parola è di ghiaccio
come un destino
senza ritorno.
Io che dispero,
dall’insetto
dovrei prendere esempio.

[La mia città...].
La mia città
non l’ho mai amata
come adesso, che ti amo.
La città
custodisce la tua casa
e la tua andatura straniera
le tue piccole consuetudini di argilla.
Le sue strade
ti porteranno in giro per negozi.
La sua gente
respirerà
del tuo respiro invernale.
Come vorrei essere lì
ora che ti sono distante.
La mia città
non l’ho mai amata
come adesso che ti amo,
mia tu.

Un risveglio.
E mi dicevi: sai da grandi
le cose
non è che acquistino più senso
s’arricchiscono soltanto d’un più denso
fluire di parole, di un profano
immeritato sesto senso,
coi nostri corpi condannati già da allora
con la realtà che ci sfuggiva già di mano
senza neanche parole per fermarla;
e ogni vita meritava a raccontarla,
ma tutte, no, non meritano ascolto,
credimi, e davvero, mi dicevi;
un fatto di epidermide, vivevi
(vivevamo)
su quel confine sottile e assai incostante
tra significato e significante
(un andirivieni sorprendente, lo ricordo, lo rimpiango);
se più o meno sconsacrare, come niente,
il tuo corpo piccolo maldestro
caldo buono raffinato
dolcemente sovrappeso, gustare al mio palato
la tua pelle
in quel luogo senza nome sul tuo collo
che io solo riconosco in gran segreto,
che ho avuto l’indecenza o la mancanza
di fuggire: la mia condanna, il tuo veto,
le comode pantofole con la radio in sottofondo
tutto sottosopra nella stanza, sullo sfondo
la finestra della nostra casa
ch’era una tra le tante
un occhio nella notte come tanti,
e ogni minimo tuo gesto era una prova
che esistevi, e dentro me
come in te
fu scritto tutto,
dicevi, basta sai soltanto
aver sfogliato
il tuo esser donna
con frugali serii accenni,
la tua quotidianità quella che oggi
tieni stretta nel cappotto coi tuoi anni,
mentre scendi le scale
del mercato rionale. E ti accorgi
di esserlo anche tu in fondo, come altre,
una donna senza mistero senza
fragranza, perché ogni tanto mi sfiori, nella stanza,
sul letto neanche poi tanto battagliato
m’imponi la tua schiena il tuo russìo
col tuo odore sposato
al mio dopobarba ad alto costo,
nel mattino (ma sono già le otto) che ci accoglie
madre
come estranei stranieri senza visto
de ‘sto sedicimaggionovecentonovantotto.

[La prima volta...].
La prima volta che uccisi mio padre
era un pomeriggio d’inverno
di venti anni fa la stanza
aveva un taglio di luce
proprio come ora
solo che allora mia madre
era molto meno, come dire, blasè
e
il mio spirito calpestato dai fatti
e alla TV ora c’è la sinistra al governo
e la cucina è ancora in disordine per la cena
e
mio padre mi prese
per farmi male
senza ragione
- o io non vedevo ragioni, ti giuro -
così
con una violenza dolce e ostinata
che lasciò segni e ferite e rancore
su labbra e sul cuore,
e io
lo uccisi
dentro di me
pregai ad alta voce
dentro di me in silenzio
con filo di voce
Dio... uccidi... mio padre
Dio... uccidi... mio padre
e Dio
lì per lì
lo tenne presente
solo per poi ricordarsene
nel momento
che mi sembrò
il meno opportuno.

[Vorrei saperti parlare...].
Vorrei saperti parlare
con frasi
di labbra e di sguardi
senza tradurti nell’anima
cose parole me stesso il mio sesso.
Vorrei dirti parole
luminose come picchi di sole
ingenue come ladri bambini
veloci come gatti agl’incroci
profumate come fiori
dai semplici nomi.
(Ho raccolto per te
la rosa più pudica
quella che mi dica
se m’ama o non mi ami.
La rosa più violenta
nel rosso che l’accende
nella spina che difende
la sua vita senza radici).
Parole che vestono bene
per il viavai della sera
sul viale estivo
che a te piace passeggiare
in tulle.
Vuoi che ti stringa la mano
come se dovessimo
lasciarci per sempre.
Vuoi che ti dia certezze
- dici -
ma non c’è spina
che mi
o ti protegga o difenda
da questa vita
senza radici.

[Disteso come lancette...].
Disteso come lancette
di un orologio alle tre e un quarto
sopra il tuo corpo
mi concedo un minuto di morte
proprio ora
che vorrei essere vivo
per gridare
la mia assenza di uomo,
no, non è un gioco diverso
solo un poco più spento, più lento,
più disperato.
Premio o castigo,
non conta.
Ho trovato soltanto
mia madre
e i suoi occhi solari, che ho perso
mio padre
e i suoi discorsi taciuti,
e file di nomi attaccati
a persone,
e momenti mancati
e quelli vissuti
che avrei potuto tenere
in modo diverso.
Ho lasciato cadere
parole
su un incerto momento ribelle,
che cambia una vita...
potere divino o maligno
non conta:
una scelta
che punge
al mio fianco
mi piega già stanco
di un giorno durato anche troppo.
Tre e diciassette
di nuovo ti prego di nuovo.

Un pomeriggio a Roma.
Questa donna
che si ravvia
nervosamente i capelli
usa come arma
la sua fragilità.
Vorrei chiamarla ancòra
come una volta
quando usavamo
- per starci accanto -
i segnali più singolari.
Le sfioro il seno
per farla sorridere un po’
ma lei rimane seria
e sola dentro sé,
coi suoi occhi grandi
dietro occhiali un po’ troppo grandi
con la sua gonna a quadretti
e la sua blusa
diplomaticamente
slacciata a metà.

 

E’ difficile spiegare
è come un’erosione:
è il ricordo
il nostro destino più crudele.
(Deja vù
tu rubi
la mia giovinezza).

Propositi.
Domani è già mercoledì.
Dovrei smetterla di condurre la mia vita
come in terza singola persona.
Dovrei essere una folla.
Dovrei smettere di fare tante cose.
Ricordi la casa
di cui ti parlai
che s’affacciava sul lago
ed era circondata di verde,
quella casa dove avevo
trascorso tanta parte
della mia infanzia ?
Non esiste.
Ricordi quella lettera
che ti dissi
t’avrei spedito
quanto prima
per spiegarti
in che mille piacevoli definizioni
io ti amassi ?
Non l’ho mai scritta.
Ti ricordi di me ?
Io non esisto.
Io vivo la mia vita
come fossi un altro.
No, neanche questo è vero.

[L’ordine del mondo...].
L’ordine del mondo
- io lo credo -
è la tangenza.
Il mio corpo
tocca quel punto
ma non lo include.
Le parole avvolgono
ma non comprendono.
La vita degli altri
si ferma
(come la mia)
sulla mia pelle
al di là
(al di qua)
della mia pelle
ma non sconfina.
Quello che faccio
quello che dico
già non mi appartiene
già è altro, indipendente,
trattiene (tocca)
le cose
ma non le coinvolge.
L’ordine di tutto è la tangenza
tangenza necessaria e contingente
tangenza di luce e di buio
aut aut
autorità del caso.
Ma anch’esso ci sfiora soltanto.

[Sono uscito nell’ora...].
Sono uscito nell’ora
in cui la notte slava nel mattino
il sole non lo potevo neanche indovinare
(ma è stato così tutto il giorno)
Napoli mi ha accolto
con la tenerezza di una madre
io, come un figlio,
l’ho lasciata fare.
La pesante poesia della folla
all’uscita della metropolitana
le grida dei pescivendoli
i vecchi che chiedono carità
insomma tutte quelle cose che si sanno
Santa Chiara
le coppie all’entrata delle scuole
ormoni senza senso di quindicenni
rumori penetranti come odori
la pesante poesia del traffico
gli occhi nerimarroni della ragazza
che cinguetta con l’amica.
Mi accendo una sigaretta,
come fosse l’ultima o la prima
il fumo che irrita gli occhi
via benedetto croce ha sapore di antico
ma si bagna di vita e ad ogni passo
penso che dovrei telefonarti.
Sigaretta. I pancabestia
illuminano le strade
con svelte canzoni proletarie.
Ho camminato senza accorgermi, a lungo,
e senza salutare alcuno sguardo.
Ora l’aria è rappresa
dell’odore di sugo
e dalle sigle ovattate
delle TV.
Una scolaresca
con una maestra perfetta
si snoda all’incrocio
come un unico corpo.
Si ride alla vita
ai muri muschiati di Napoli.
Sigaretta. Mi sento in compagnia
della gente, anche se
non conosco nessuno.
Hanno tutti espressioni gentili
anche i tassisti
anche i barboni sulle scale delle chiese.
Anche le chiese.
Un uomo si avvicina alla panchina
chiede se disturba
ci sopportiamo in silenzio per un’ora
come due vecchi amici
se avessimo il coraggio d’iniziare
parleremmo difilato fino a sera.
Sigaretta. La ragazza dagli occhi
marronineri se n’è andata
senza un cenno.
Non riuscirei neanche più
a riconoscerla.
E’ strano come ti possano cambiare,
le cose.
Sigaretta.

[La giovinezza è la stessa...].
La giovinezza è la stessa
cambiano i vestiti
e le facce
i ragazzi che sfidano
le scale tra vicolo e viale.
Quel respiro strozzato
quell’acceso odore d’incesto
quell’affanno consumato per cose
che sembrano nulla (ma fors’è vero)
quelle piccole mute anteguerre
anch’io le ho vissute,
nei giorni dove ogni cosa
s’incastra
senza spessore e innocenza.
Quell’ansia dilata i polmoni di luce
ad ampie boccate
quei muscoli tirano lampi scortesi
quegli amori induriscono il sesso
ad ogni occasione, quell’inganno è solo
una piacevole frode.
So tutto, tutto riconosco
dal sudore dei giovani corpi
che schiaffeggia i cortili e le strade.
Inutile ora serbarne il ricordo
inutile qui conservarne
l’ebete dono mortale.
Dissipate.

Nexus.
L'orizzonte
del mio sguardo
scivola
e si confonde
laggiù in fondo
su un mare
che riesco solo
a indovinare.
Il mio corpo mi è nascosto
ergo
non esiste
ergo
non esisto, come tutto.
Esistono di me solo i miei occhi.
Tutto il resto
è solo un seme nero.

[Io ti do...].
Io ti do la mia tiepida forza
tu la tua arsura di vecchio
ma tu non sei, sei solo
lo specchio
di me fra trent’anni.

Insonnia.
Cara dolce mia Stella
lasciami in pace
e quando vai via
non scordare ti prego
di smorzare la luce.
L’interruttore lo trovi
al solito posto
tra l’abatjour sul comodino
e la sveglia, in fondo
a sinistra del cuore
di cioccolato del tuo compleanno.
T’ho sentita arrivare
coi tuoi passi di morte
a custodire il mio sonno
lasciami in pace
con la tua gonna corta
e nera a scoprirti le cosce
coi capelli sempre in ordine
e i tuoi anelli.
Ora allontana da me
il pensiero del tuo corpo
scosta piano la porta
senza parlare
e porta un messaggio a mio padre
un illune messaggio di amore.

Controtempo.
Avevo meno di cinque minuti
e un tramonto di ferrugine
che giocava a mio favore
e disponibile una buona dose
di psicomotricità e di simpatica
arroganza (di quella che colpisce...)
per creare tra noi
elettrochimiche segrete
eiaculare parole tutto il tempo
le avrei parlato anche in fortran
pur di portarmela a letto
lei aveva quel modo gentile
di stillare fenormoni
quel viso faunesco sic et simpliciter
di farmi rinascere il coso
come una fenice
solo che il centocinque
mi spunta proprio in quel momento
(la sfiga gioca sempre a tuo favore
e i busferrotramvieri dimenticano persino lo sciopero)
e la raggiunge prima di me
a salvarla
dal mio primultimo affondo.

[Calda allo sguardo del sangue...].
Calda allo sguardo del sangue
soffice come un lattonzolo cara come un abito frusto
silenziatrice di automobili endovenosa iniezione di gioia
indignazione delle ore umane e delle cancrene del sogno
sorpassata dal bianco del frigobar coprente la vera innocenza
la cupa euromissile l’insieme dei partiti
politici sciabordante e silenziosa marina gomena luminosa
lampada scialitica la neve delle previsioni meteorologiche
degli smalti per unghie delle foto di famiglia
la neve che tu non vedrai quella che ora più che mai
ti assomiglia è scesa a enervarmi il ricordo
del tuo corpo ismaelita razziato
da questo debole dio della vita.

Prese di coscienza in ritardo per cena.
Lo sai?
anche la scheggia più viva
sfoca e s’imbruna
anche la sincope infracosciale
la fondina riposta del parabellum
il punto di fuga
la forza centripeta
la gravitazionale costante
delle mie dita
anche i tuoi seni tue endiadi di te
brulli pomelli di mobili in noce
piccole pigne saporite, saporite castagne
certo anche la linea gauchista dei tuoi capelli
anche le tue mani sottili
così adatte a certe ardite prese.
Come dici?
Ooossì, anche la parure dei tuoi organi di senso
anche la tua morale di plexiglas
anche la topica del nostro amore.
Ora prepàrati, che usciamo.

[Erica il suo nome...].
Erica il suo nome
(con la kappa)
vergato
sul braccialetto alla caviglia finto oro:
genere di piante delle Ericacee
rappresentato da numerose specie;
ha un aspetto cespuglioso
con minute foglie:
spesso forma basse
ma vaste
boscaglie . Com’era vero,
all’ombra dei suoi fianchi.

Vendita a domicilio.
Il piazzista insisteva
con la sua cravatta molto kitsch
con la sua esse salsa di sudore
sulla qualità del suo prodotto
su come quel getto di vapore
lustrasse
igienizzasse piastrelle lavandini
piatti utensili fornelli
forni a microonde scendiletti
vasche credenze divani
sedie scrivanie persino occhiali
su come scongiurasse
l’umidità dai vetri.
Come spiegargli
che a me, d’inverno,
i vetri piacciono appannati.

[…]
E le sigarette che fumammo di nascosto
e il nostro esser fuori posto in ogni posto
e l’amore che non ti ho mai saputo dare,
e bastava poco, un dire fare baciare,
come in quel gioco, come le tue labbra le tue mani.

[Ci sono giorni...].
Ci sono giorni in cui il dolore
non forgia parole, si fa premice,
le porte della fede si socchiudono
le verità restano al foyer ad attendere.
Eppure il croupier divino dice
che i grandi giochi sono fatti
e le strade bruciano di gente.
Eppure ci sono giorni in cui tu lasci
la schiera immortale dei crociferi
il bacino rovente dei ricordi
e quasi mi vivi accanto, come un tempo,
ma più terribile e più dolce.

[I tuoi modi molto gigolette...].
I tuoi modi molto gigolette
non dovrei temere, l’orda
predona cattiveria dei tuoi occhi
d’antracite.
Tu giungi, e lo sterminio conduce alla siccità
imponi i tuoi diktat la tua liturgia
divina sensale, compiaciuta
attraversi il deserto delle mie storie, esangue.
Ma non devo temere. Talora
l’araldo del male divino è così imbelle e spontanea...
Si appoggia alla terra,
pettirossa, furtiva. Mi nutre.

[Non è il tempo di cambiare...].
Non è il tempo di cambiare
ma c’è un’aria dolce che s’incarna
e lascia morirsi dentro
e il telefono squilla
e io le chiesi un bacio.
Avevamo parlato per ore e lei aveva pure sbadigliato
lei si è data a me quasi per stanchezza
e la vita ha una legge ricardiana pensavo
e mi sentivo come Caino sulla via del ritorno
Chi ucciderà me morirà tre volte
ma non ho bisogno di mercede
così ‘l sovran i denti a l’altro pose
E il suo odore mi strangola ancora
ma io appartengo a tutti
e la mia porta ha segnate strisce d’untori
con mani facili e occhi di fuoco
Io sono caino non potete toccarmi
e ho voglia si sentirlo
l’odore della sua voce come l’odore della strada
generato non creato
impasto di giorni hysteron proteron
di battibecchi in casa che lei aveva
Io le dicevo ogni parola che mi passava
per la mente lei aveva un modo serio di starmi a sentire e di guardarmi
e ora avrei voglia di gettarmi in un bar e di bere on the rocks
o di avere una voce calda come Tina Turner
o di ascoltare moon river fino all’alba
o di compiere un delitto
o di proteggermi.

[Ogni cosa mi si rivolta contro].
Ogni cosa mi si rivolta contro.
Chi intercede? I matematismi, le mensilità, gli organismi
della terra si sviluppano in modo sereno.
I passanti sciamano nelle strade illuminate e nella mia mente.
Io li troverò, i giunti che legano la vita a questa terra.
Io li troverò i vocaboli di smeraldo
che hanno verità da vendere.
Per ora posso solo esistere come un ragno in un pagliaio,
smerciando i miei pensieri non senza smentite.
L’odore ùmico del mio corpo mi ricongiunge alle stelle.
Rilassiamo gli arti, che il calore ci scivoli addosso
senza farci del male.
Uccello migratore vorrei essere
serpente che si snoda su se stesso
vorrei avere arti che maciullano arti con tenaglie
vorrei uccidermi senza essere perseguito.
Trovatemi un posto per il bivacco
preferisco l’addiaccio al solido giaciglio
e l’erba ha il verde profumo della mia libertà
e della mia sposa da consolare.
Non aspettarmi per cena
vivrò anche questa notte come un randagio
un randagio che poi sempre ritorna
odio gli orari di cena, nient’altro,
odio chiunque si ritiri all’alcova che ha costruito.
Distruggere più che costruire e non per moda postfuturistanichilisticatardoromantica
Non sono il superuomo se fossi
il superuomo non dipenderei da mia madre e dalle altre 123 donne che mi fanno
da madre.
Se fossi il veltro scalpiterei sulla terra
e avrei più fame della lupa.
Chi scacciare chi? Chi intercede?

[Ci chiedavamo spesso…].
Ci chiedavamo spesso
se c’era una preistoria tra di noi,
io richiamavo alla mente le affinità di goethe e i miti di platone
tu più semplicemente dicevi
che tutt’e due venivamo
da storie difficili eretiche infanzie recluse
ne facevi questioni astrologiche dicevi
che il bisogno d’amare
(renderne più che pretenderne, l’amore)
ci faceva simili nel privilegio di temerne
la fine.

[Avrei voluto...].
Avrei voluto
per te
mani calde di stanchezza
e anziana gioia materna
che ti disegnasse frivole rughe fuggenti
intorno a occhi e labbra.
Avrei voluto per te
il saluto dei tuoi nipoti
da te avrei voluto un figlio che mi chiamasse zio.
Ma la vita ha un segno strano
strisciato a matita sugli uomini
sottile e difficile a cancellare,
neanche con la morte
neanche col ricordo.

[Angela...].
Angela è giovane e semplice
è calda è raccolta
e si fa bella e crudele
con occhi lucenti
quando mi ascolta.
Lei vorrebbe avere dei figli
tanti
e il pensiero le accende
il viso acceso
di donna e di madre.
Lei ha sogni distratti
ordinari
di città, di provincia.
Lei
non mi appartiene.
La vita
ha nascosto
il suo cuore
nel cuore di un altro.
Io ho in bocca
l’amaro sapore
deluso sconfitto
un matto in tredici mosse
di donna e di alfiere.

Ultimi dettagli.
Io dispero
che tu venga
qui a trovarmi
nella casa
che fu tua
o t’avrei dato
se davvero
ti sposavi
quel ragazzo.
Nostra madre l’avrebbe data a entrambi,
nostra madre è una vita che la arreda
per lo scopo
e io per te avrei fatto questo e altro.
Ora io e mamma
ci viviamo tra le foto
tue e i tuoi giornali
di moda che ancora conserviamo,
e l’altro giorno
al telefono una voce
fresca ignara
chiedeva se eri uscita
se
a che ora eri a casa.
No, non credo tornerà per cena.
Amaro scherzo fragile
menzogna darti ancora
pronome verbo e vita
a poco più di un mese di distanza.

[Quando entrerò nella stanza...].
Quando entrerò nella stanza
la gattiscenza degli occhi
catturata agli abbaglianti
sulla via del ritorno
l’altra sera
non sarà neanche un ricordo.
Allora brucerete il mio corpo.
Del mio corpo bruciate
quello che non bruciò nella vita
donatelo ai quattro orizzonti
con tutte le sue nozioni
di letteratura e bassa matematica
con tutta la sua esistenza sofferta
e goduta.
Lasciate i miei occhiali sopra i miei libri
guardiani infernali
e dimenticate le mie cattiverie
e le mie povere bugie.
Quando entrerò nella stanza
non avrò paura del giudizio.
Io sarò il giudice
e Colui che mi accoglie
l’unico vero colpevole.

Ritratti.
Mia madre innaffiava i gerani
e l’acqua gocciava dai vasi sulla strada
rigando la rossa terrazza
come di sangue,
portando nella caduta
con sé
tutte le voci del mondo.
Mio padre, certamente,
in qualche bar,
con le dita ventiquattrenni
intrise di fumo
segnava nere navi e aerei
su sassi bianchi
levigati di strada.
Avrebbe voluto
fare il pilota.
Dovevano incontrarsi
all’incrocio della strada
all’altezza della chiesa sconsacrata
lungo il viale
dove ora c’è l’autorimessa.
Mia madre me lo racconta sempre
di come lei era bella
e lui così sorpreso e così fiero che lei
fosse capitata proprio a lui.
Io il loro incontro di sangue
l’unione carnale di tempo e di terra.
Come avrei potuto non amarla.

Notturno.
Sono
in terrazza
a subire la notte.
La mia insonnia, un unico tarlo: qualcuno
deve pur restar sveglio.

Il suo contorno.
Com’è riposante
‘sta nebbia
che ha coperto le cose.
La terra ha perso
il contorno
lasciando spazio a tutto, a te:
e il resto
è di te
solo una sfumatura
verdeazzurra
più o meno lieve.

[Minimalia].
Lo vedi quel punto
lassù
dove l’azzurro pare incresparsi ?
lassù
a quell’altezza di volo,
dove urlano rondini,
i gridi degli uomini
giungono
muti.

Strade.
Io sono un uomo solo
anche se ognuno
mi saluta per la strada
questa strada che ho percorso
trentatrè migliaia di volte
da quando sono nato
la città mi chiude
e non ho soldi per andare
altrove.
La gente qui è felice e fa fatica
e la stagione aiuta
a rimestare
dolori e vita, ogni volto
ha occhi naso e bocca
ma è diverso
dal mio che traluce di riflesso
nella shop-vetrina dove lei lavora.
Non c’è giorno che poi non sia uguale
da quello che fu l’ultimo
da quello che fu il primo.
prendi le mie mani
insegnami come
abbandonare il respiro senza più pensare,
ho quasi già trent’anni
e ancora non riesco
ad imparare.
Si dev’esser fortunati
se le ragazze ti guardano
con occhi che sorridono
di sesso e di sudore.
La strada è la stessa
il mio corpo non protetto
segue l’acciottolìo e il bordo e il piano
ma non c’è poesia nascosta nel mio petto
non c’è rivalsa
e il mio cuore è solo un organo che pulsa.
E ogni sigaretta che ora spengo
è una che riaccendo dopo un’ora.
No, no, io non pretendo
nulla che Tu già non mi abbia dato
vorrei soltanto avere un altro giorno
dopo la mia morte e ricordare
tutte le Marlboro che ho fumato.
Un giorno solo
tre per risorgere son tanti
ed io sono già abbastanza stanco.
Dammi il tempo
che mi serva a sdebitarmi
dammi il tempo per lasciarmi
andare, e promettere al mio passo
nuove strade.

L’amore nascosto.
Nell’ingresso accanto alla mia stanza
l’eco quotidiana dei tuoi passi
l’incerto sciogliersi
dei tuoi capelli
nerolucidi tenaci fiumi carsi,
segreto ascolto, al fare della sera
(vita silenziosa non svegliare
il sonno leggero di tua madre).
La mia vita.
L’abbraccio vivace
della tua voce,
della tua risata che scoppiava
allegra, come i fuochi della sagra.
E i tuoi dispetti da donna di vent’anni,
l’inchiostro dei tuoi occhi,
le tue mani
che esploravan tutto, i tuoi ginocchi
un po’ da maschio, ma vivaci,
le scarpe che mettevi, le gonne, i morsi voraci
con cui mangiavi il pane
(caro scoiattolo, avevi sempre fame)
la cura che mostravi nei tuoi panni,
l’orgoglio che attendevi
soltanto
per potere per sempre stare in pace
senza l’orario dei parenti, senza luce.
Ora non c’è più nulla, proprio
come tu volevi.

Massimalia.
La mia ombra
mi segue per strade
che neanche conosco
infilate per il gusto di fuggire
dal nulla che sono.
Trovai accanto a mio padre
un pacchetto di MS
quasi pieno tranne due
forse le aveva fumate
di nascosto
in terrazza
poco prima di morire,
forse aveva seguito le volute di fumo
raggiungere il cielo notturno,
perplesso del fresco odore dell’aria,
forse pensava alla vita e ai suoi figli.
Lo trovai
di mattina
adagiato sul letto
neanche svestito
(un vizio di quand’era bambino
che rendeva nervosa mia madre)
occhi ialini ma dolci
occhi riposati senza sguardo
di una dolcezza che abbiamo
sempre scordato
ma che ritorna
nell’attimo
in cui siamo più veri
più soli e indifesi.
La prima cosa che feci
fu di sfilargli da tasca
5 biglietti da cento.
Poi lo baciai,
per via degli astanti.
La mia ombra
mi protegge per strade
come un angelo nero custode
strade che infilo
per l’unico gusto
di fuggire
dal nulla che siamo.

Lettera.
Cara mia Stella
ti scrivo
lontano
da oltre il mar mediterraneo
e ancora oltre
ho rivisto il deserto
aveva la pelle
del colore della tua
affondavo le dita
nel suo canto bruciato
e l’Essenza scorreva
attraverso
senza coscienza o consistenza
senza fiato.
Ora qui
nella segreta stanza che ti ho costruito
ti vorrei
la tua pelle profumata
come l’aria della notte
a Hurghada
consumata dall’arsura del giorno
venata di spezie dall’odore
di animali ora vorrei
quel tuo suono
quell’accordo in minore
che copriva distanze
confondeva esistenze
senza neanche saperlo
quell’eufonia che Pitagora diceva
avesse l’universo.
Quell’accordo tra me e te
oltre lo steccato
della mia mite
perduta
consuetudine di te.

Lista a Daniela.
E i momenti vissuti insieme.
E le cose che mangiammo, insieme.
E le risate comuni.
E le passeggiate lunghe chilometri.
E la tua allegria. E la tua tristezza.
E le serate con gli amici.
E le serate soli.
E i pranzi - le cene - che mi preparavi.
E le volte sul ponte, a casa mia, in soffitta
a toccarci e godere.
E quando facesti l’esame di maturità.
E quando ti telefonavo.
E quando ti parlavo di mia madre.
E quando quella volta mi vedesti piangere.
E quando bazzicavo sul tuo seno.
E le notti a pensarti.
E le notti a pensarmi.
E i sogni sulla casa che avremo avuto.
E quando ti dicevo che non volevo figli.
E le esplorazioni a Napoli.
E le cose che non abbiamo fatto
e che avremmo voluto fare.
E quella volta che mio padre ci sorprese a letto
(su quello stesso letto sei mesi fa mio padre è morto).
E quella volta che tuo padre ci fermò per strada
e ti picchiò davanti a tutti
senza che io facessi niente. Come sempre.
E i tuoi gatti.
E quando ti leggevo le cose che scrivevo.
E i miei occhiali e i tuoi occhi verdi o azzurri.
E il tuo modo di fingerti allegra
davanti alle amiche.
E quando ci mettemmo insieme
il 24 aprile (o forse no) di qualche anno fa.
E la prima volta che ti baciai.
E la prima volta che mi baciasti.
E i discorsi con Angela e con Antonio.
E le volte che mi prendevi il viso tra le mani
come un bimbo.
E la gente e la città
che ci guardava.
E le tue superstizioni.
E quando ridevo forte quando mi facevi le imitazioni.
E quella volta che - non stavamo ancora insieme -
mi dicesti che stavo bene con la barba.
E quella volta che amasti un altro.
E le gite di un giorno a Caserta.
E quella volta che ci masturbammo
la notte di natale
e ne ridemmo insieme.
E io che non sapevo guidare.
E la noia di certe sere sulla panchina.
E i film che abbiamo visto insieme.
E le maglie che ci siamo regalati e che indossavamo insieme.
E i libri che abbiamo letto.
E quando venivo a prenderti
di nascosto a scuola.
E le volte che abbiamo litigato.
E i fiori che non ti ho mai mandato.
E quando hai preso casa sopra la mia.
E quella volta che mi dicesti
che mi avresti amato
anche se fossi stato verde.
E quel coglione di tuo fratello.
E le volte che ci siamo desiderati.
E la campagna dietro casa.
E i vicoli e la cornetteria.
E quando io ero lontano dalle tue estati in città.
E quella volta che mi dicesti di non tornare (c’era un altro presumo).
E quando andammo a mare insieme.
E quando mi iscrissi all’università.
E noi che ci giuravamo amore eterno.
E quella volta che mi facesti preoccupare
perché non eri tornata a casa in tempo.
E i treni che abbiamo perso insieme.
E le volte in cui ci siamo salutati
o riabbracciati.
E quando ti lamentavi delle nostre vite normali.
E quell’unica volta che andammo a teatro.
E quella volta che mi facesti leggere il tuo diario.
E le volte che ti facevo piangere.
E le notti che dormimmo insieme.

Le tue imperfezioni.
Da vicino
le tue imperfezioni
ti rendono bella,
mia tu.
Ti sentivo cicalare
con delicata importanza
aderivo alla tua bocca
così straordinariamente normale
ma non ascoltavo.
Mi hai chiesto
in due parole
il riassunto della mia vita,
così, tanto per dir d’altro.
E io
- che non ascoltavo -
ti ho risposto
con quel sorriso
di ferina studiata franchezza
che sai mi appartiene.

[Preferisco la parola ribelle...].
Preferisco la parola ribelle
a quella che rinuncia
anche se poi non sono in grado
neanche
di cambiare il mio barbiere o un antipasto.
Preferisco collassare
di desiderio e di delirio
anche se poi passo il tempo
a masturbarmi davanti ad una chat.
L’illusione del contatto è già
il suo principio, eheheh.
Cciò mille corazze
che mi proteggono
fuori e dentro.

Traducendo Fortini.
Io non so come si faccia
ad andare avanti
sapendo di lasciare tutto un giorno.
Persino qui
con un tratto preciso di penna
elimino esistenze, viaggi, amori, romanzi:
rivolgere attenzione solo
ai maggiori, nella contorta serie d’affabulatori.
E la memoria e il gusto ritorna
alla sigaretta scoccata dalla finestra
e spampanata sul selciato
come un fiore di scintille poco fa...
c’è altro là fuori.

Ad una donna che mi ha rifiutato.
Eppoi dici che il tuo corpo
non è un piatto saporito!
Ci so fare una ricetta a dir poco
alla fransè.
Un po’ di rucola ad esempio
che coltivi tra le gambe
ci grattugio come cheese
il calcagno indurito
dai tuoi tacchi troppo alti
lo impreziosisco col sedano che disfiora
alla base delle ascelle
e condisco il tutto
con limone di colostro e sale fino
che ti scrolli dai capelli.

Quest’intingolo è da riscaldare nella coppa
del tuo ombelico, ed è da servir tiepido
come il tuo cuore
all’ora del tè o per guarnire un sufflè.

[Ho fatto ridere forte...].
Ho fatto ridere forte
mia madre
dicendole che non mi sposo
lei mi ha abbracciato da dietro
mentr’ero seduto
mi ha detto all’orecchio
con solerte premura
non è vero di’ non è giusto
mi piacciono troppo le donne
per essere un buon marito
lei ha riso di nuovo, di gusto.

[E' una notte strana...].
E' una notte strana.
Lo stillicidio dei battiti del suo cuore
come tamburi lontani. Io
con questa mia
maledetta abitudine
di riposare
con la testa sul suo seno.
No. Ora, proprio ora
ho nostalgia
di tutti quei luoghi
dove non sono mai stato,
proprio come in quel libro
di quello scrittore
di quella ecc ecc
e il mio dio
sta passeggiando
per qualche via
di qualche città
e forse
tra poco
busserà alla mia porta.
Forse.
Ancora mezz'ora,
e poi un sonno leggero di stelle.

[Francesca ai miei sensi...].
Francesca ai miei sensi
ha un suo incarnato di pesca
satinato sulle mani e sul corpo di gazzella
ha un suo aroma di caffè
sulla lingua d’anguilla quando bacia
ha un suo odore di gelso
quando sculetta stralunata per la strada
ha una sua freschezza di cocco
quando fa l’amore e mi crocefigge l’anima di pace
ha un suo schioccare di gusci di noce
quando parla dei suoi vent’anni e libera i seni.
Francesca è la lussuria, l’invidia, l’avarizia.
E’ l’amore femmina.

[Il tuo cuore chiuso ad ogni midrash...].
Il tuo cuore chiuso ad ogni midrash
frutto autunnale
come la tua vulva di vergine nuova.
Una volta si apriva fosforea e eretica e fertile
come una tellina.
Oggi ho occhi stanchi
e parole imbolsite di freddo
senza metafora o pianto.
Una volta invece avevo
pensieri apache fumati fino al mozzicone
a ottanta all’ora sulla strada verso casa.
Ora mi fermo a tutti gli stop
e lascio passare i pedoni,
mi fermo a pensare a tutte le volte
che la vita m’ha offerto un franchising.
Telepilotami verso casa, inutile rabbia.

[Far ridere una donna...].
Far ridere una donna
è come il freddo che ti frizza sulla faccia
è come quando le parole insorgono al grido
è come affondarle le unghie nella carne viva
è come assaporarne l’asprezza ferrigna nel sangue
è come il momento prima del suo orgasmo
è come la tua auto lanciata in folle è come un buon bicchiere tra buoni cristiani
è come dissetarsi dopo la sete
è come l’istante dopo una preghiera
è come infilarsi a letto con una puttana vestita
da donna per bene
è come attraversare Napoli invernale in metrò
è come chiedersi chi è dio e perché
è come mandare il mondo a fare un giro
sulla tangenziale più lontana
è come prendere il primo stipendio.
Figurarsi poi far ridere la donna
del tuo peggiore amico.

[Il mio nome...].
Il mio nome chiamato da mia madre
il mio nome rivelato a te
sibilato nelle intercapedini tra immagine e immagine
ricordo e ricordo gioia e gioia pianto e pianto
il mio nome che tutto muove come l’intelligenza divina
le storie intorno le piccole cose le boiate le persone che m’appartengono quel mondo ch’è il tutto di un
uomo la sua musica interiore secondo
quel modo di dire usuale, tutto quanto
quando lo assapori, il mio nome, ti appartiene
come il desiderio pronunciato ad un demone.

[Nella taverna è un calore di uomo...].
Nella taverna è un calore di uomo
voci di uomo, volti che conosco.
Nella taverna, i tuoi occhi affusolati
dall’ombretto, dal sonno, dalla monotonia
della nostra vita uguale, dal suono
rotondo della radio, dal taglio basso disteso
della luce, dalla sigaretta lasciata
a fumare sul fondo del bicchiere
dal nostro amore ch’è soltanto
un frugale illocutivo malinteso.
Ordino da bere, intanto che sei via.

Autoritratto.
Questo giorno senza pretese
grida il crucifige crucifige il passacarte che sono
il lavoro interinale che il governo non mi dà
la voglia di esser solo per potermi ascoltare
di nuovo con tutta la dovuta attenzione.
Gli amici sono a casa
senza erinni. Condivisibile perseveranza, la loro.
Incatramato in questa stanza, senza colpa
la gravità che vìola già sola
il mio voler essere libero da tutto.
La pesantezza di queste gambe,
del frenulo genetliaco che mi lega
l’anima a mia madre, orgoglio
liquido si lascia facilmente
vincere. Esistenza senza polpa, senza
divina sensatezza. Restituire il maltolto. Procedibile.
Teleabbonato. Radiato
dall’albo dei credenti.

Mai più parole d’amore.
La notte che ti amai
nasconde l’asilo limpido dei giorni di terra e cenere, rancore che ha radici
primitive e salde, attecchite
alla fisiologia complice dell’uomo.
La donna che sarai
invece
quella degli addii e dei ritorni
della cinesica dei miei richiami erogeni
delle occasioni tenere dei licet
strappati alle falde della carne
alla psicologia semplice del suono
estivo e marittimo del tempo.
Sei per me nient’altro
che supplice gheriglio di lampone,
aprichiudi frettoloso della lampo.

[…]
Stella, m’ero ripromesso
di dirti centoventi avemmarie
e non l’ho fatto.
Ero a casa, in quell’ora come un’altra
in quel giorno come un altro un uomo
qualunque un cuore fariseo senza la fede. Mi telefonarono che d’improvviso
tutto era compiuto
non ci fu urlo più forte del mio muto
abbassar lo sguardo davanti a nostra madre.

[...]
Madre, eccoti righe
d’amore nascosto
perché sei la battigia
dov’anche la mia rivolta più audace
si fa bianca e frizzante risacca,
perché umana omousia conduce
dall’alfabeto ghiaccio del mio cuore
a queste tue mani solari.
Perché ciò che guadagnammo fu
sempre meno del perduto
in questa vita, per noi non parusia
ma peste; e perché per tutto questo
hai sempre avuto, in fondo,
mordaci semplici risposte.

[Ho disugellato...].

Ho disugellato a comando quell’antico
dolore e ho pianto.
La sua voce è un ditirambo.
Si mescola al sangue chimica rabbiosa ruggine.
Si insinua e si estende
di massima apertura vocale.
Evocato dalle cose, dalle abitudini del giorno.
Quel dolore è un volto, è un nuvolo di sguardi amici
miscuglio di acqua e di aceto nella ferita del fianco.
E’ come il tuo sorriso di arancio, che mi copre gli occhi.

[Così mi piaci…].
Così mi piaci capricciosa ciarliera e stupida
pietra limite nella bruma di questa mattina qualunque.
Nei film più belli si parla sempre di vendetta
e ogni momento è decisivo ma chi sei?
Ho visto la mia famiglia distrutta
e questo forse mi ha reso ancora
più affascinante e gioviale e giovane e gli indiani hanno un volto contadino e stanco
e stanno malfermi sui ginocchi pam pam e a morire sono sempre le stesse
comparse.
Capìto padre? Capìto, sorella delusa?
C’è sempre una ragione a tutto quanto
e forse la ragione è che oggi fossi vestito
in giacca ma senza cravatta,
che avessi il soldo in tasca e che il treno lanciasse
l’urlo di partenza
alle cinque dalla stazione più vicina.
L’afrore del sonno sui poggiatesta ci rende
tutti un po’ più democratici. L’aria malfida ci uccide.
Così mi piaci, piccola.

[La pretesa…].
La pretesa è ricusata
e la tua gonna resta chiusa,
ma il desiderio alligna sulla mia lingua e sulla tèrebra
e la preda si divincola irriverente, ma le piace. Dài, le conosciamo le condizioni che ci opprimono
c’è sempre un varco che ci attende
un protocollo una minuta
e la mia poesia serve forse solo a questo:
a dimenticare le teofanie e le occasioni che non ci accaddero
soltanto per un tuo capriccio molto cheap.

La notte è il racconto.
La notte è il racconto
le solitudini si confondono nel buio
è così semplice,
e queste mie mani potrebbero non essere le mie
ma i tuoi occhi sono chiusi comunque e
le tue labbra dicono le parole di sempre
quelle che appartengono alla specie,
tra il balsamo e l’incudine
della crema che usi per la pelle
dell’ultimo bottone del sipario che mi resta.
Io sono l’ottavo vizio capitale e
quando dico che i tuoi seni sono melograni
e che i tuoi denti sono greggi di pecore non cito soltanto il cantico dei cantici
o non voglio solo farti sorridere
né sento solo l’influsso del nord
né modulo il suono incerto della notte,
ma chiudo il nostro fare sesso in un pugno
e ci soffio dentro, mia kore.

[Il fatto che lei non ci sia…].
Il fatto che lei non ci sia,
il fatto che lei
non intrecci le dita alle mie
come imparammo dalla prima volta che uscimmo insieme
(battagliammo già come cuccioli di pantera)
piano ma con insistenza, con l’aspro piacere
che ne veniva;
il fatto che io mi senta un pària
tra le pareti di aria della sua assenza
è per me la catastrofe, l’apocalisse, l’arsura
ultima guerra senza schiavi né reduci o nèmesi.

[A volte…].

A volte sono proprio i più deboli
a parere immortali,
guarda come si danno da fare
ascolta
come si danno da fare.
C’è una puntualità in ogni loro gesto
come se dovesse sempre iniziare qualcosa.
Ho sogni che mi rivelano tutto
riesco a leggere nei volti delle cose:
tu dici ch’è un dono io un maleficio
c’è come una eco di lontananza o di abbandono.
Tu mi sopravviverai forse
e le mie parole saranno soltanto lamiere sottili
dettate un giorno forse di qualche anno prima
o di qualche secolo,
e come farà a non mancarti il mio sapore
ch’è tutto un incontro di ormoni e fiele?
Questo nostro corpo ci abbandona ogni giorno, ogni ora,
si consuma ad ogni parola ad ogni gesto,
e loro guarda
come si danno da fare ascolta come si danno da fare.

 

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