le mie poesie
le mie poesie
Imperfezioni. Passi. Nell’autunno senza foglie e senza fine di Milano ho lasciato il tuo ritratto, la tua mano di gigante nella mia, la tua mano d’impiegato postale e i miei occhiali che riuscivano già a leggere parole tra le righe. Mi facevi divertire con le storie che inventavi come se le raccontassi ad un’amante e non a me, tuo figlio. Oggi ogni cosa è un tuo segnale che rimane sopravvive tra le cose che si fanno da mattino a sera tardi. E non è solo per tutto ciò che non mi hai dato - essere uomo è una conquista solitaria - è per quel bisogno di star bene e di star soli che mi serrava il cuore al prenderti la mano. In fondo anch’io proprio come te ti ho amato di un amore silenzioso e senza foglie quasi come quell’autunno senza fine di Milano. [T’ho odorata sentita vista...]. T’ho odorata sentita vista ridere per le scale vicina all’ascensore impacciata dalla sporta sotto il braccio a spingere il bottone ad ogni scorsa un oggetto ruzzolava il portachiavi il braccialetto la tua bellezza disponibile indisponente così maledettamente pret-à-porter coi tuoi occhi accesi da piccola soubrette chiedeva indisposta aiuto, e i tuoi sedici anni insaporivano il mattino. Ti ho scritte centinaia o migliaia di parole in risposta e poi ho stracciato tutto e una strana insofferenza va e viene: sarà per la mia età o per il tuo sagrato che non è più avuto o già non mi appartiene. [L’alba corre veloce...]. L’alba corre veloce la luce ghiaccia le cose con una distanza che non le protegge. E’ la vita, la semplice legge che si rinnova, un tintinnìo di mattino che frange vetrate il solito raggio, sulla strada scorrono via rumori di automobili rade il primo affacciarsi di voci, l’antica premura: il primo che prenda coraggio e poi tutti dietro. Anch’io vorrei alzarmi per vivere da umana formica. [Non dirò nulla...]. Non dirò nulla, la verità è un fatto così poco attraente. A me piuttosto degli uomini piace interessa l'inganno il marcio la gogna la malvagia poesia dolorosa che fermentano dentro. Tutto il resto è povera cosa scivoli via per scoli di fogna. [Stavo a guardare...]. stupìto la mosca attaccarsi alla vita (o viceversa) anche senz’ali frenetica nell’atto del volo che non spiccava e io che penso alla morte quasi ogni giorno con dolceamaro pensiero al mio cammino interrotto di uomo la parola è di ghiaccio come un destino senza ritorno. Io che dispero, dall’insetto dovrei prendere esempio. [La mia città...]. La mia città non l’ho mai amata come adesso, che ti amo. La città custodisce la tua casa e la tua andatura straniera le tue piccole consuetudini di argilla. Le sue strade ti porteranno in giro per negozi. La sua gente respirerà del tuo respiro invernale. Come vorrei essere lì ora che ti sono distante. La mia città non l’ho mai amata come adesso che ti amo, mia tu. Un risveglio. E mi dicevi: sai da grandi le cose non è che acquistino più senso s’arricchiscono soltanto d’un più denso fluire di parole, di un profano immeritato sesto senso, coi nostri corpi condannati già da allora con la realtà che ci sfuggiva già di mano senza neanche parole per fermarla; e ogni vita meritava a raccontarla, ma tutte, no, non meritano ascolto, credimi, e davvero, mi dicevi; un fatto di epidermide, vivevi (vivevamo) su quel confine sottile e assai incostante tra significato e significante (un andirivieni sorprendente, lo ricordo, lo rimpiango); se più o meno sconsacrare, come niente, il tuo corpo piccolo maldestro caldo buono raffinato dolcemente sovrappeso, gustare al mio palato la tua pelle in quel luogo senza nome sul tuo collo che io solo riconosco in gran segreto, che ho avuto l’indecenza o la mancanza di fuggire: la mia condanna, il tuo veto, le comode pantofole con la radio in sottofondo tutto sottosopra nella stanza, sullo sfondo la finestra della nostra casa ch’era una tra le tante un occhio nella notte come tanti, e ogni minimo tuo gesto era una prova che esistevi, e dentro me come in te fu scritto tutto, dicevi, basta sai soltanto aver sfogliato il tuo esser donna con frugali serii accenni, la tua quotidianità quella che oggi tieni stretta nel cappotto coi tuoi anni, mentre scendi le scale del mercato rionale. E ti accorgi di esserlo anche tu in fondo, come altre, una donna senza mistero senza fragranza, perché ogni tanto mi sfiori, nella stanza, sul letto neanche poi tanto battagliato m’imponi la tua schiena il tuo russìo col tuo odore sposato al mio dopobarba ad alto costo, nel mattino (ma sono già le otto) che ci accoglie madre come estranei stranieri senza visto de ‘sto sedicimaggionovecentonovantotto. [La prima volta...]. La prima volta che uccisi mio padre era un pomeriggio d’inverno di venti anni fa la stanza aveva un taglio di luce proprio come ora solo che allora mia madre era molto meno, come dire, blasè e il mio spirito calpestato dai fatti e alla TV ora c’è la sinistra al governo e la cucina è ancora in disordine per la cena e mio padre mi prese per farmi male senza ragione - o io non vedevo ragioni, ti giuro - così con una violenza dolce e ostinata che lasciò segni e ferite e rancore su labbra e sul cuore, e io lo uccisi dentro di me pregai ad alta voce dentro di me in silenzio con filo di voce Dio... uccidi... mio padre Dio... uccidi... mio padre e Dio lì per lì lo tenne presente solo per poi ricordarsene nel momento che mi sembrò il meno opportuno. [Vorrei saperti parlare...]. Vorrei saperti parlare con frasi di labbra e di sguardi senza tradurti nell’anima cose parole me stesso il mio sesso. Vorrei dirti parole luminose come picchi di sole ingenue come ladri bambini veloci come gatti agl’incroci profumate come fiori dai semplici nomi. (Ho raccolto per te la rosa più pudica quella che mi dica se m’ama o non mi ami. La rosa più violenta nel rosso che l’accende nella spina che difende la sua vita senza radici). Parole che vestono bene per il viavai della sera sul viale estivo che a te piace passeggiare in tulle. Vuoi che ti stringa la mano come se dovessimo lasciarci per sempre. Vuoi che ti dia certezze - dici - ma non c’è spina che mi o ti protegga o difenda da questa vita senza radici. [Disteso come lancette...]. Disteso come lancette di un orologio alle tre e un quarto sopra il tuo corpo mi concedo un minuto di morte proprio ora che vorrei essere vivo per gridare la mia assenza di uomo, no, non è un gioco diverso solo un poco più spento, più lento, più disperato. Premio o castigo, non conta. Ho trovato soltanto mia madre e i suoi occhi solari, che ho perso mio padre e i suoi discorsi taciuti, e file di nomi attaccati a persone, e momenti mancati e quelli vissuti che avrei potuto tenere in modo diverso. Ho lasciato cadere parole su un incerto momento ribelle, che cambia una vita... potere divino o maligno non conta: una scelta che punge al mio fianco mi piega già stanco di un giorno durato anche troppo. Tre e diciassette di nuovo ti prego di nuovo. Un pomeriggio a Roma. Questa donna che si ravvia nervosamente i capelli usa come arma la sua fragilità. Vorrei chiamarla ancòra come una volta quando usavamo - per starci accanto - i segnali più singolari. Le sfioro il seno per farla sorridere un po’ ma lei rimane seria e sola dentro sé, coi suoi occhi grandi dietro occhiali un po’ troppo grandi con la sua gonna a quadretti e la sua blusa diplomaticamente slacciata a metà.
E’ difficile spiegare Propositi. Domani è già mercoledì. Dovrei smetterla di condurre la mia vita come in terza singola persona. Dovrei essere una folla. Dovrei smettere di fare tante cose. Ricordi la casa di cui ti parlai che s’affacciava sul lago ed era circondata di verde, quella casa dove avevo trascorso tanta parte della mia infanzia ? Non esiste. Ricordi quella lettera che ti dissi t’avrei spedito quanto prima per spiegarti in che mille piacevoli definizioni io ti amassi ? Non l’ho mai scritta. Ti ricordi di me ? Io non esisto. Io vivo la mia vita come fossi un altro. No, neanche questo è vero. [L’ordine del mondo...]. L’ordine del mondo - io lo credo - è la tangenza. Il mio corpo tocca quel punto ma non lo include. Le parole avvolgono ma non comprendono. La vita degli altri si ferma (come la mia) sulla mia pelle al di là (al di qua) della mia pelle ma non sconfina. Quello che faccio quello che dico già non mi appartiene già è altro, indipendente, trattiene (tocca) le cose ma non le coinvolge. L’ordine di tutto è la tangenza tangenza necessaria e contingente tangenza di luce e di buio aut aut autorità del caso. Ma anch’esso ci sfiora soltanto. [Sono uscito nell’ora...]. Sono uscito nell’ora in cui la notte slava nel mattino il sole non lo potevo neanche indovinare (ma è stato così tutto il giorno) Napoli mi ha accolto con la tenerezza di una madre io, come un figlio, l’ho lasciata fare. La pesante poesia della folla all’uscita della metropolitana le grida dei pescivendoli i vecchi che chiedono carità insomma tutte quelle cose che si sanno Santa Chiara le coppie all’entrata delle scuole ormoni senza senso di quindicenni rumori penetranti come odori la pesante poesia del traffico gli occhi nerimarroni della ragazza che cinguetta con l’amica. Mi accendo una sigaretta, come fosse l’ultima o la prima il fumo che irrita gli occhi via benedetto croce ha sapore di antico ma si bagna di vita e ad ogni passo penso che dovrei telefonarti. Sigaretta. I pancabestia illuminano le strade con svelte canzoni proletarie. Ho camminato senza accorgermi, a lungo, e senza salutare alcuno sguardo. Ora l’aria è rappresa dell’odore di sugo e dalle sigle ovattate delle TV. Una scolaresca con una maestra perfetta si snoda all’incrocio come un unico corpo. Si ride alla vita ai muri muschiati di Napoli. Sigaretta. Mi sento in compagnia della gente, anche se non conosco nessuno. Hanno tutti espressioni gentili anche i tassisti anche i barboni sulle scale delle chiese. Anche le chiese. Un uomo si avvicina alla panchina chiede se disturba ci sopportiamo in silenzio per un’ora come due vecchi amici se avessimo il coraggio d’iniziare parleremmo difilato fino a sera. Sigaretta. La ragazza dagli occhi marronineri se n’è andata senza un cenno. Non riuscirei neanche più a riconoscerla. E’ strano come ti possano cambiare, le cose. Sigaretta. [La giovinezza è la stessa...]. La giovinezza è la stessa cambiano i vestiti e le facce i ragazzi che sfidano le scale tra vicolo e viale. Quel respiro strozzato quell’acceso odore d’incesto quell’affanno consumato per cose che sembrano nulla (ma fors’è vero) quelle piccole mute anteguerre anch’io le ho vissute, nei giorni dove ogni cosa s’incastra senza spessore e innocenza. Quell’ansia dilata i polmoni di luce ad ampie boccate quei muscoli tirano lampi scortesi quegli amori induriscono il sesso ad ogni occasione, quell’inganno è solo una piacevole frode. So tutto, tutto riconosco dal sudore dei giovani corpi che schiaffeggia i cortili e le strade. Inutile ora serbarne il ricordo inutile qui conservarne l’ebete dono mortale. Dissipate. Nexus. L'orizzonte del mio sguardo scivola e si confonde laggiù in fondo su un mare che riesco solo a indovinare. Il mio corpo mi è nascosto ergo non esiste ergo non esisto, come tutto. Esistono di me solo i miei occhi. Tutto il resto è solo un seme nero. [Io ti do...]. Io ti do la mia tiepida forza tu la tua arsura di vecchio ma tu non sei, sei solo lo specchio di me fra trent’anni. Insonnia. Cara dolce mia Stella lasciami in pace e quando vai via non scordare ti prego di smorzare la luce. L’interruttore lo trovi al solito posto tra l’abatjour sul comodino e la sveglia, in fondo a sinistra del cuore di cioccolato del tuo compleanno. T’ho sentita arrivare coi tuoi passi di morte a custodire il mio sonno lasciami in pace con la tua gonna corta e nera a scoprirti le cosce coi capelli sempre in ordine e i tuoi anelli. Ora allontana da me il pensiero del tuo corpo scosta piano la porta senza parlare e porta un messaggio a mio padre un illune messaggio di amore. Controtempo. Avevo meno di cinque minuti e un tramonto di ferrugine che giocava a mio favore e disponibile una buona dose di psicomotricità e di simpatica arroganza (di quella che colpisce...) per creare tra noi elettrochimiche segrete eiaculare parole tutto il tempo le avrei parlato anche in fortran pur di portarmela a letto lei aveva quel modo gentile di stillare fenormoni quel viso faunesco sic et simpliciter di farmi rinascere il coso come una fenice solo che il centocinque mi spunta proprio in quel momento (la sfiga gioca sempre a tuo favore e i busferrotramvieri dimenticano persino lo sciopero) e la raggiunge prima di me a salvarla dal mio primultimo affondo. [Calda allo sguardo del sangue...]. Calda allo sguardo del sangue soffice come un lattonzolo cara come un abito frusto silenziatrice di automobili endovenosa iniezione di gioia indignazione delle ore umane e delle cancrene del sogno sorpassata dal bianco del frigobar coprente la vera innocenza la cupa euromissile l’insieme dei partiti politici sciabordante e silenziosa marina gomena luminosa lampada scialitica la neve delle previsioni meteorologiche degli smalti per unghie delle foto di famiglia la neve che tu non vedrai quella che ora più che mai ti assomiglia è scesa a enervarmi il ricordo del tuo corpo ismaelita razziato da questo debole dio della vita. Prese di coscienza in ritardo per cena. Lo sai? anche la scheggia più viva sfoca e s’imbruna anche la sincope infracosciale la fondina riposta del parabellum il punto di fuga la forza centripeta la gravitazionale costante delle mie dita anche i tuoi seni tue endiadi di te brulli pomelli di mobili in noce piccole pigne saporite, saporite castagne certo anche la linea gauchista dei tuoi capelli anche le tue mani sottili così adatte a certe ardite prese. Come dici? Ooossì, anche la parure dei tuoi organi di senso anche la tua morale di plexiglas anche la topica del nostro amore. Ora prepàrati, che usciamo. [Erica il suo nome...]. (con la kappa) vergato sul braccialetto alla caviglia finto oro: genere di piante delle Ericacee rappresentato da numerose specie; ha un aspetto cespuglioso con minute foglie: spesso forma basse ma vaste boscaglie . Com’era vero, all’ombra dei suoi fianchi. Vendita a domicilio. con la sua cravatta molto kitsch con la sua esse salsa di sudore sulla qualità del suo prodotto su come quel getto di vapore lustrasse igienizzasse piastrelle lavandini piatti utensili fornelli forni a microonde scendiletti vasche credenze divani sedie scrivanie persino occhiali su come scongiurasse l’umidità dai vetri. Come spiegargli che a me, d’inverno, i vetri piacciono appannati. […] [Ci sono giorni...]. non forgia parole, si fa premice, le porte della fede si socchiudono le verità restano al foyer ad attendere. Eppure il croupier divino dice che i grandi giochi sono fatti e le strade bruciano di gente. Eppure ci sono giorni in cui tu lasci la schiera immortale dei crociferi il bacino rovente dei ricordi e quasi mi vivi accanto, come un tempo, ma più terribile e più dolce. [I tuoi modi molto gigolette...]. non dovrei temere, l’orda predona cattiveria dei tuoi occhi d’antracite. Tu giungi, e lo sterminio conduce alla siccità imponi i tuoi diktat la tua liturgia divina sensale, compiaciuta attraversi il deserto delle mie storie, esangue. Ma non devo temere. Talora l’araldo del male divino è così imbelle e spontanea... Si appoggia alla terra, pettirossa, furtiva. Mi nutre. [Non è il tempo di cambiare...]. ma c’è un’aria dolce che s’incarna e lascia morirsi dentro e il telefono squilla e io le chiesi un bacio. Avevamo parlato per ore e lei aveva pure sbadigliato lei si è data a me quasi per stanchezza e la vita ha una legge ricardiana pensavo e mi sentivo come Caino sulla via del ritorno Chi ucciderà me morirà tre volte ma non ho bisogno di mercede così ‘l sovran i denti a l’altro pose E il suo odore mi strangola ancora ma io appartengo a tutti e la mia porta ha segnate strisce d’untori con mani facili e occhi di fuoco Io sono caino non potete toccarmi e ho voglia si sentirlo l’odore della sua voce come l’odore della strada generato non creato impasto di giorni hysteron proteron di battibecchi in casa che lei aveva Io le dicevo ogni parola che mi passava per la mente lei aveva un modo serio di starmi a sentire e di guardarmi e ora avrei voglia di gettarmi in un bar e di bere on the rocks o di avere una voce calda come Tina Turner o di ascoltare moon river fino all’alba o di compiere un delitto o di proteggermi. [Ogni cosa mi si rivolta contro]. Chi intercede? I matematismi, le mensilità, gli organismi della terra si sviluppano in modo sereno. I passanti sciamano nelle strade illuminate e nella mia mente. Io li troverò, i giunti che legano la vita a questa terra. Io li troverò i vocaboli di smeraldo che hanno verità da vendere. Per ora posso solo esistere come un ragno in un pagliaio, smerciando i miei pensieri non senza smentite. L’odore ùmico del mio corpo mi ricongiunge alle stelle. Rilassiamo gli arti, che il calore ci scivoli addosso senza farci del male. Uccello migratore vorrei essere serpente che si snoda su se stesso vorrei avere arti che maciullano arti con tenaglie vorrei uccidermi senza essere perseguito. Trovatemi un posto per il bivacco preferisco l’addiaccio al solido giaciglio e l’erba ha il verde profumo della mia libertà e della mia sposa da consolare. Non aspettarmi per cena vivrò anche questa notte come un randagio un randagio che poi sempre ritorna odio gli orari di cena, nient’altro, odio chiunque si ritiri all’alcova che ha costruito. Distruggere più che costruire e non per moda postfuturistanichilisticatardoromantica Non sono il superuomo se fossi il superuomo non dipenderei da mia madre e dalle altre 123 donne che mi fanno da madre. Se fossi il veltro scalpiterei sulla terra e avrei più fame della lupa. Chi scacciare chi? Chi intercede? [Ci chiedavamo spesso…]. se c’era una preistoria tra di noi, io richiamavo alla mente le affinità di goethe e i miti di platone tu più semplicemente dicevi che tutt’e due venivamo da storie difficili eretiche infanzie recluse ne facevi questioni astrologiche dicevi che il bisogno d’amare (renderne più che pretenderne, l’amore) ci faceva simili nel privilegio di temerne la fine. |
[Avrei voluto...]. Avrei voluto per te mani calde di stanchezza e anziana gioia materna che ti disegnasse frivole rughe fuggenti intorno a occhi e labbra. Avrei voluto per te il saluto dei tuoi nipoti da te avrei voluto un figlio che mi chiamasse zio. Ma la vita ha un segno strano strisciato a matita sugli uomini sottile e difficile a cancellare, neanche con la morte neanche col ricordo. [Angela...]. Angela è giovane e semplice è calda è raccolta e si fa bella e crudele con occhi lucenti quando mi ascolta. Lei vorrebbe avere dei figli tanti e il pensiero le accende il viso acceso di donna e di madre. Lei ha sogni distratti ordinari di città, di provincia. Lei non mi appartiene. La vita ha nascosto il suo cuore nel cuore di un altro. Io ho in bocca l’amaro sapore deluso sconfitto un matto in tredici mosse di donna e di alfiere. Ultimi dettagli. Io dispero che tu venga qui a trovarmi nella casa che fu tua o t’avrei dato se davvero ti sposavi quel ragazzo. Nostra madre l’avrebbe data a entrambi, nostra madre è una vita che la arreda per lo scopo e io per te avrei fatto questo e altro. Ora io e mamma ci viviamo tra le foto tue e i tuoi giornali di moda che ancora conserviamo, e l’altro giorno al telefono una voce fresca ignara chiedeva se eri uscita se a che ora eri a casa. No, non credo tornerà per cena. Amaro scherzo fragile menzogna darti ancora pronome verbo e vita a poco più di un mese di distanza. [Quando entrerò nella stanza...]. Quando entrerò nella stanza la gattiscenza degli occhi catturata agli abbaglianti sulla via del ritorno l’altra sera non sarà neanche un ricordo. Allora brucerete il mio corpo. Del mio corpo bruciate quello che non bruciò nella vita donatelo ai quattro orizzonti con tutte le sue nozioni di letteratura e bassa matematica con tutta la sua esistenza sofferta e goduta. Lasciate i miei occhiali sopra i miei libri guardiani infernali e dimenticate le mie cattiverie e le mie povere bugie. Quando entrerò nella stanza non avrò paura del giudizio. Io sarò il giudice e Colui che mi accoglie l’unico vero colpevole. Ritratti. Mia madre innaffiava i gerani e l’acqua gocciava dai vasi sulla strada rigando la rossa terrazza come di sangue, portando nella caduta con sé tutte le voci del mondo. Mio padre, certamente, in qualche bar, con le dita ventiquattrenni intrise di fumo segnava nere navi e aerei su sassi bianchi levigati di strada. Avrebbe voluto fare il pilota. Dovevano incontrarsi all’incrocio della strada all’altezza della chiesa sconsacrata lungo il viale dove ora c’è l’autorimessa. Mia madre me lo racconta sempre di come lei era bella e lui così sorpreso e così fiero che lei fosse capitata proprio a lui. Io il loro incontro di sangue l’unione carnale di tempo e di terra. Come avrei potuto non amarla. Notturno. Sono in terrazza a subire la notte. La mia insonnia, un unico tarlo: qualcuno deve pur restar sveglio. Il suo contorno. Com’è riposante ‘sta nebbia che ha coperto le cose. La terra ha perso il contorno lasciando spazio a tutto, a te: e il resto è di te solo una sfumatura verdeazzurra più o meno lieve. [Minimalia]. lassù dove l’azzurro pare incresparsi ? lassù a quell’altezza di volo, dove urlano rondini, i gridi degli uomini giungono muti. Strade. Io sono un uomo solo anche se ognuno mi saluta per la strada questa strada che ho percorso trentatrè migliaia di volte da quando sono nato la città mi chiude e non ho soldi per andare altrove. La gente qui è felice e fa fatica e la stagione aiuta a rimestare dolori e vita, ogni volto ha occhi naso e bocca ma è diverso dal mio che traluce di riflesso nella shop-vetrina dove lei lavora. Non c’è giorno che poi non sia uguale da quello che fu l’ultimo da quello che fu il primo. prendi le mie mani insegnami come abbandonare il respiro senza più pensare, ho quasi già trent’anni e ancora non riesco ad imparare. Si dev’esser fortunati se le ragazze ti guardano con occhi che sorridono di sesso e di sudore. La strada è la stessa il mio corpo non protetto segue l’acciottolìo e il bordo e il piano ma non c’è poesia nascosta nel mio petto non c’è rivalsa e il mio cuore è solo un organo che pulsa. E ogni sigaretta che ora spengo è una che riaccendo dopo un’ora. No, no, io non pretendo nulla che Tu già non mi abbia dato vorrei soltanto avere un altro giorno dopo la mia morte e ricordare tutte le Marlboro che ho fumato. Un giorno solo tre per risorgere son tanti ed io sono già abbastanza stanco. Dammi il tempo che mi serva a sdebitarmi dammi il tempo per lasciarmi andare, e promettere al mio passo nuove strade. L’amore nascosto. Nell’ingresso accanto alla mia stanza l’eco quotidiana dei tuoi passi l’incerto sciogliersi dei tuoi capelli nerolucidi tenaci fiumi carsi, segreto ascolto, al fare della sera (vita silenziosa non svegliare il sonno leggero di tua madre). La mia vita. L’abbraccio vivace della tua voce, della tua risata che scoppiava allegra, come i fuochi della sagra. E i tuoi dispetti da donna di vent’anni, l’inchiostro dei tuoi occhi, le tue mani che esploravan tutto, i tuoi ginocchi un po’ da maschio, ma vivaci, le scarpe che mettevi, le gonne, i morsi voraci con cui mangiavi il pane (caro scoiattolo, avevi sempre fame) la cura che mostravi nei tuoi panni, l’orgoglio che attendevi soltanto per potere per sempre stare in pace senza l’orario dei parenti, senza luce. Ora non c’è più nulla, proprio come tu volevi. Massimalia. La mia ombra mi segue per strade che neanche conosco infilate per il gusto di fuggire dal nulla che sono. Trovai accanto a mio padre un pacchetto di MS quasi pieno tranne due forse le aveva fumate di nascosto in terrazza poco prima di morire, forse aveva seguito le volute di fumo raggiungere il cielo notturno, perplesso del fresco odore dell’aria, forse pensava alla vita e ai suoi figli. Lo trovai di mattina adagiato sul letto neanche svestito (un vizio di quand’era bambino che rendeva nervosa mia madre) occhi ialini ma dolci occhi riposati senza sguardo di una dolcezza che abbiamo sempre scordato ma che ritorna nell’attimo in cui siamo più veri più soli e indifesi. La prima cosa che feci fu di sfilargli da tasca 5 biglietti da cento. Poi lo baciai, per via degli astanti. La mia ombra mi protegge per strade come un angelo nero custode strade che infilo per l’unico gusto di fuggire dal nulla che siamo. Lettera. Cara mia Stella ti scrivo lontano da oltre il mar mediterraneo e ancora oltre ho rivisto il deserto aveva la pelle del colore della tua affondavo le dita nel suo canto bruciato e l’Essenza scorreva attraverso senza coscienza o consistenza senza fiato. Ora qui nella segreta stanza che ti ho costruito ti vorrei la tua pelle profumata come l’aria della notte a Hurghada consumata dall’arsura del giorno venata di spezie dall’odore di animali ora vorrei quel tuo suono quell’accordo in minore che copriva distanze confondeva esistenze senza neanche saperlo quell’eufonia che Pitagora diceva avesse l’universo. Quell’accordo tra me e te oltre lo steccato della mia mite perduta consuetudine di te. Lista a Daniela. E i momenti vissuti insieme. E le cose che mangiammo, insieme. E le risate comuni. E le passeggiate lunghe chilometri. E la tua allegria. E la tua tristezza. E le serate con gli amici. E le serate soli. E i pranzi - le cene - che mi preparavi. E le volte sul ponte, a casa mia, in soffitta a toccarci e godere. E quando facesti l’esame di maturità. E quando ti telefonavo. E quando ti parlavo di mia madre. E quando quella volta mi vedesti piangere. E quando bazzicavo sul tuo seno. E le notti a pensarti. E le notti a pensarmi. E i sogni sulla casa che avremo avuto. E quando ti dicevo che non volevo figli. E le esplorazioni a Napoli. E le cose che non abbiamo fatto e che avremmo voluto fare. E quella volta che mio padre ci sorprese a letto (su quello stesso letto sei mesi fa mio padre è morto). E quella volta che tuo padre ci fermò per strada e ti picchiò davanti a tutti senza che io facessi niente. Come sempre. E i tuoi gatti. E quando ti leggevo le cose che scrivevo. E i miei occhiali e i tuoi occhi verdi o azzurri. E il tuo modo di fingerti allegra davanti alle amiche. E quando ci mettemmo insieme il 24 aprile (o forse no) di qualche anno fa. E la prima volta che ti baciai. E la prima volta che mi baciasti. E i discorsi con Angela e con Antonio. E le volte che mi prendevi il viso tra le mani come un bimbo. E la gente e la città che ci guardava. E le tue superstizioni. E quando ridevo forte quando mi facevi le imitazioni. E quella volta che - non stavamo ancora insieme - mi dicesti che stavo bene con la barba. E quella volta che amasti un altro. E le gite di un giorno a Caserta. E quella volta che ci masturbammo la notte di natale e ne ridemmo insieme. E io che non sapevo guidare. E la noia di certe sere sulla panchina. E i film che abbiamo visto insieme. E le maglie che ci siamo regalati e che indossavamo insieme. E i libri che abbiamo letto. E quando venivo a prenderti di nascosto a scuola. E le volte che abbiamo litigato. E i fiori che non ti ho mai mandato. E quando hai preso casa sopra la mia. E quella volta che mi dicesti che mi avresti amato anche se fossi stato verde. E quel coglione di tuo fratello. E le volte che ci siamo desiderati. E la campagna dietro casa. E i vicoli e la cornetteria. E quando io ero lontano dalle tue estati in città. E quella volta che mi dicesti di non tornare (c’era un altro presumo). E quando andammo a mare insieme. E quando mi iscrissi all’università. E noi che ci giuravamo amore eterno. E quella volta che mi facesti preoccupare perché non eri tornata a casa in tempo. E i treni che abbiamo perso insieme. E le volte in cui ci siamo salutati o riabbracciati. E quando ti lamentavi delle nostre vite normali. E quell’unica volta che andammo a teatro. E quella volta che mi facesti leggere il tuo diario. E le volte che ti facevo piangere. E le notti che dormimmo insieme. Le tue imperfezioni. Da vicino le tue imperfezioni ti rendono bella, mia tu. Ti sentivo cicalare con delicata importanza aderivo alla tua bocca così straordinariamente normale ma non ascoltavo. Mi hai chiesto in due parole il riassunto della mia vita, così, tanto per dir d’altro. E io - che non ascoltavo - ti ho risposto con quel sorriso di ferina studiata franchezza che sai mi appartiene. [Preferisco la parola ribelle...]. Preferisco la parola ribelle a quella che rinuncia anche se poi non sono in grado neanche di cambiare il mio barbiere o un antipasto. Preferisco collassare di desiderio e di delirio anche se poi passo il tempo a masturbarmi davanti ad una chat. L’illusione del contatto è già il suo principio, eheheh. Cciò mille corazze che mi proteggono fuori e dentro. Traducendo Fortini. Io non so come si faccia ad andare avanti sapendo di lasciare tutto un giorno. Persino qui con un tratto preciso di penna elimino esistenze, viaggi, amori, romanzi: rivolgere attenzione solo ai maggiori, nella contorta serie d’affabulatori. E la memoria e il gusto ritorna alla sigaretta scoccata dalla finestra e spampanata sul selciato come un fiore di scintille poco fa... c’è altro là fuori. Ad una donna che mi ha rifiutato. Eppoi dici che il tuo corpo non è un piatto saporito! Ci so fare una ricetta a dir poco alla fransè. Un po’ di rucola ad esempio che coltivi tra le gambe ci grattugio come cheese il calcagno indurito dai tuoi tacchi troppo alti lo impreziosisco col sedano che disfiora alla base delle ascelle e condisco il tutto con limone di colostro e sale fino che ti scrolli dai capelli. Quest’intingolo è da riscaldare nella coppa [Ho fatto ridere forte...]. Ho fatto ridere forte mia madre dicendole che non mi sposo lei mi ha abbracciato da dietro mentr’ero seduto mi ha detto all’orecchio con solerte premura non è vero di’ non è giusto mi piacciono troppo le donne per essere un buon marito lei ha riso di nuovo, di gusto. [E' una notte strana...]. E' una notte strana. Lo stillicidio dei battiti del suo cuore come tamburi lontani. Io con questa mia maledetta abitudine di riposare con la testa sul suo seno. No. Ora, proprio ora ho nostalgia di tutti quei luoghi dove non sono mai stato, proprio come in quel libro di quello scrittore di quella ecc ecc e il mio dio sta passeggiando per qualche via di qualche città e forse tra poco busserà alla mia porta. Forse. Ancora mezz'ora, e poi un sonno leggero di stelle. [Francesca ai miei sensi...]. Francesca ai miei sensi ha un suo incarnato di pesca satinato sulle mani e sul corpo di gazzella ha un suo aroma di caffè sulla lingua d’anguilla quando bacia ha un suo odore di gelso quando sculetta stralunata per la strada ha una sua freschezza di cocco quando fa l’amore e mi crocefigge l’anima di pace ha un suo schioccare di gusci di noce quando parla dei suoi vent’anni e libera i seni. Francesca è la lussuria, l’invidia, l’avarizia. E’ l’amore femmina. [Il tuo cuore chiuso ad ogni midrash...]. Il tuo cuore chiuso ad ogni midrash frutto autunnale come la tua vulva di vergine nuova. Una volta si apriva fosforea e eretica e fertile come una tellina. Oggi ho occhi stanchi e parole imbolsite di freddo senza metafora o pianto. Una volta invece avevo pensieri apache fumati fino al mozzicone a ottanta all’ora sulla strada verso casa. Ora mi fermo a tutti gli stop e lascio passare i pedoni, mi fermo a pensare a tutte le volte che la vita m’ha offerto un franchising. Telepilotami verso casa, inutile rabbia. [Far ridere una donna...]. Far ridere una donna è come il freddo che ti frizza sulla faccia è come quando le parole insorgono al grido è come affondarle le unghie nella carne viva è come assaporarne l’asprezza ferrigna nel sangue è come il momento prima del suo orgasmo è come la tua auto lanciata in folle è come un buon bicchiere tra buoni cristiani è come dissetarsi dopo la sete è come l’istante dopo una preghiera è come infilarsi a letto con una puttana vestita da donna per bene è come attraversare Napoli invernale in metrò è come chiedersi chi è dio e perché è come mandare il mondo a fare un giro sulla tangenziale più lontana è come prendere il primo stipendio. Figurarsi poi far ridere la donna del tuo peggiore amico. [Il mio nome...]. Il mio nome chiamato da mia madre il mio nome rivelato a te sibilato nelle intercapedini tra immagine e immagine ricordo e ricordo gioia e gioia pianto e pianto il mio nome che tutto muove come l’intelligenza divina le storie intorno le piccole cose le boiate le persone che m’appartengono quel mondo ch’è il tutto di un uomo la sua musica interiore secondo quel modo di dire usuale, tutto quanto quando lo assapori, il mio nome, ti appartiene come il desiderio pronunciato ad un demone. [Nella taverna è un calore di uomo...]. voci di uomo, volti che conosco. Nella taverna, i tuoi occhi affusolati dall’ombretto, dal sonno, dalla monotonia della nostra vita uguale, dal suono rotondo della radio, dal taglio basso disteso della luce, dalla sigaretta lasciata a fumare sul fondo del bicchiere dal nostro amore ch’è soltanto un frugale illocutivo malinteso. Ordino da bere, intanto che sei via. Autoritratto. grida il crucifige crucifige il passacarte che sono il lavoro interinale che il governo non mi dà la voglia di esser solo per potermi ascoltare di nuovo con tutta la dovuta attenzione. Gli amici sono a casa senza erinni. Condivisibile perseveranza, la loro. Incatramato in questa stanza, senza colpa la gravità che vìola già sola il mio voler essere libero da tutto. La pesantezza di queste gambe, del frenulo genetliaco che mi lega l’anima a mia madre, orgoglio liquido si lascia facilmente vincere. Esistenza senza polpa, senza divina sensatezza. Restituire il maltolto. Procedibile. Teleabbonato. Radiato dall’albo dei credenti. Mai più parole d’amore. nasconde l’asilo limpido dei giorni di terra e cenere, rancore che ha radici primitive e salde, attecchite alla fisiologia complice dell’uomo. La donna che sarai invece quella degli addii e dei ritorni della cinesica dei miei richiami erogeni delle occasioni tenere dei licet strappati alle falde della carne alla psicologia semplice del suono estivo e marittimo del tempo. Sei per me nient’altro che supplice gheriglio di lampone, aprichiudi frettoloso della lampo. […] [...] [Ho disugellato...]. Ho disugellato a comando quell’antico [Così mi piaci…]. pietra limite nella bruma di questa mattina qualunque. Nei film più belli si parla sempre di vendetta e ogni momento è decisivo ma chi sei? Ho visto la mia famiglia distrutta e questo forse mi ha reso ancora più affascinante e gioviale e giovane e gli indiani hanno un volto contadino e stanco e stanno malfermi sui ginocchi pam pam e a morire sono sempre le stesse comparse. Capìto padre? Capìto, sorella delusa? C’è sempre una ragione a tutto quanto e forse la ragione è che oggi fossi vestito in giacca ma senza cravatta, che avessi il soldo in tasca e che il treno lanciasse l’urlo di partenza alle cinque dalla stazione più vicina. L’afrore del sonno sui poggiatesta ci rende tutti un po’ più democratici. L’aria malfida ci uccide. Così mi piaci, piccola. [La pretesa…]. e la tua gonna resta chiusa, ma il desiderio alligna sulla mia lingua e sulla tèrebra e la preda si divincola irriverente, ma le piace. Dài, le conosciamo le condizioni che ci opprimono c’è sempre un varco che ci attende un protocollo una minuta e la mia poesia serve forse solo a questo: a dimenticare le teofanie e le occasioni che non ci accaddero soltanto per un tuo capriccio molto cheap. La notte è il racconto. le solitudini si confondono nel buio è così semplice, e queste mie mani potrebbero non essere le mie ma i tuoi occhi sono chiusi comunque e le tue labbra dicono le parole di sempre quelle che appartengono alla specie, tra il balsamo e l’incudine della crema che usi per la pelle dell’ultimo bottone del sipario che mi resta. Io sono l’ottavo vizio capitale e quando dico che i tuoi seni sono melograni e che i tuoi denti sono greggi di pecore non cito soltanto il cantico dei cantici o non voglio solo farti sorridere né sento solo l’influsso del nord né modulo il suono incerto della notte, ma chiudo il nostro fare sesso in un pugno e ci soffio dentro, mia kore. [Il fatto che lei non ci sia…]. il fatto che lei non intrecci le dita alle mie come imparammo dalla prima volta che uscimmo insieme (battagliammo già come cuccioli di pantera) piano ma con insistenza, con l’aspro piacere che ne veniva; il fatto che io mi senta un pària tra le pareti di aria della sua assenza è per me la catastrofe, l’apocalisse, l’arsura ultima guerra senza schiavi né reduci o nèmesi. [A volte…]. A volte sono proprio i più deboli |